DON LORENZO MILANI
SOMMARIO
Storia di un curato di campagna che diceva di sé:«Delle mie idee non m’importa nulla.Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee»Don Milani e il genio femminileDon Milani, Barbiana e la sua ScuolaDon Milani, retroscena di un processo
Maurizio di Giacomo, “Don Milani tra solitudine e Vangelo”SERGIO TANZARELLA, IL DON MILANI "INEDITO" DI "ESPERIENZE PASTORALI".intervista di Neera Fallaci al pittore Hans Joachim StaudeMila Spicola, Lettera di una professoressa a don MilaniAdele Corradi, Don Lorenzo Milani - Il racconto della “professoressa di Barbiana”
PROFILO BIOGRAFICO
27 maggio 1923 - 24 giugno 1967
Lorenzo nasce in epoca fascista il 27 maggio del 1923. Vivere eventi storici, quali quelli avvenuti tra le due grandi guerre e aver, in prima persona, sperimentato le complicità di classe con gli orrori del nazifascismo, ha consentito a Lorenzo di analizzare, con lucidità e sensibilità particolari, i meccanismi che sostengono il potere egemone della classe dominante. Dice Oreste del Buono, amico ai tempi del liceo, in un'intervista di Neera Fallaci: "Gli squadristi marciavano mentre noi eravamo dentro delle pance. Siamo cresciuti in famiglie della ricca borghesia che riuscivano a vivere abbastanza bene col fascismo; quando non lo avevano addirittura sostenuto e finanziato”. Il contesto sociale in cui è vissuto deve, in qualche modo, aver determinato una scelta di vita così estrema. La sua famiglia aveva condiviso, nel bene e nel male, le sorti di tante altre “buone famiglie” che messe insieme costituirono di fatto il retroterra al fascismo. Una classe sociale che non aveva esitato a barattare milioni di morti per proteggere l'industria delle armi, anche batteriologiche e chimiche, per difendere i propri privilegi. Una famiglia in cui la cultura, con la “C” maiuscola, era di casa. Dove le ben radicate tradizioni intellettuali non consentivano alcun accenno a problematiche religiose. Nonno Luigi era un notissimo archeologo, la madre era una raffinata signora ebrea, il padre un professore universitario.
I Milani abitavano a Firenze, in una grande palazzina in viale principe Eugenio al numero 9: “Al primo piano c'erano le camere, le camere padronali e quelle per la servitù. Ognuno aveva la sua stanza. Al piano terreno c'era il salotto, la sala da pranzo, lo studio del signor Milani... Nel sottosuolo si trovava la cucina, una dispensa sempre piena di roba, il ripostiglio del carbone... Noi della servitù si mangiava in cucina. Invece all'istitutrice portavano il vassoio di sopra: mangiava da sola, dopo aver dato da mangiare ai bambini.” In questo modo Carola Galastri, balia di Lorenzo, descrive la casa Milani. Non parla degli scaffali pieni di libri e delle opere d'arte sparse nelle stanze e nei giardini. Ricorda l'istitutrice tedesca, ma non dice niente di come Lorenzo, Adriano e Elena impararono a leggere e a scrivere. Nel salotto, al piano terra, avrà forse urtato oppure alzato lo sguardo all' Apollo Milani, scoperta archeologica del nonno Luigi. Ricorda la rabbia, ma non porta rancori per essere stata costretta, dalla miseria in cui viveva ad abbandonare, per un anno intero, i propri figli.Alla giornalista Neera Fallaci che le domanda quante volte ha potuto andare in permesso a casa sua, risponde: “A casa mia? Mai! Mai. I signori Milani erano talmente gelosi. Non si fidavano nemmeno di farmi vedere il marito, per dire. Forse avranno avuto paura che avessi qualche contatto. Io almeno, l'ho pensata in questo modo. Non dicono che il latte fa male al bambino se la donna rimane incinta mentre allatta?. Sono rimasta un anno intero senza vedere né i miei bambini né mio marito.”
Da generazioni, i Milani, producevano cattedratici fatti in casa e si dedicavano a raffinati interessi culturali vivendo tranquillamente di rendita. La tenuta di Gigliola a Montespertoli, composta da 25 poderi, aveva mantenuto intere generazioni di signori e letterati. D'estate, la famiglia Milani, trascorreva le vacanze alla villa “Il Ginepro” al mare di Castiglioncello. Essendo una tribù numerosissima, si trascinavano dietro una fila di automobili e di aiutanti: cuoco, cameriera, servitore, autista, balia e istitutrice.
Nel '30, i Milani attraversarono un periodo difficile.
La grande crisi economica impediva di vivere di sola rendita e il sig. Albano è costretto ad andare a lavorare a Milano, come direttore di azienda, occupandosi della organizzazione industriale. Nella città lombarda lo seguiranno la moglie e i figli che lì completeranno gli studi. A Milano, Lorenzo, passerà tutta la sua infanzia e l'adolescenza. Le basi culturali ereditate dall'ambiente familiare erano ampiamente superiori a quelle della scuola di quei tempi, perciò, Lorenzo non fu mai uno studente modello! Della formazione ricevuta nella scuola pubblica fascista dirà nella Lettera ai Giudici: "Ci presentavano l'Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l'Impero.
I nostri maestri s'erano dimenticati di dirci che gli Etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti." Tra i morti, 6.OOO.OOO di ebrei. I coniugi Milani, nonostante avessero verso le religioni un comportamento agnostico, il 29 giugno 1933, sposati solo civilmente, celebreranno il matrimonio in chiesa e battezzeranno i tre figli. In questo modo si difenderanno dalle leggi razziali e dalla persecuzione contro gli ebrei che era iniziata in Germania, con la presa del potere da parte di Hitler. La giornata che Lorenzo racconta nelle sue lettere, datate in quel periodo, era piena di svaghi. Andava al campo, a tirar di scherma e di palla corda oppure tornava da scuola pattinando. Parlando dei compagni di liceo, dirà in Esperienze Pastorali: "Quei ragazzoni lisci, con la pelle che si strappa al primo pruno, con quel sorriso a dentifricio, con quegli occhi vivaci sprizzanti salute, vitamine, divertimento, vacuità d'anima ..." Lui invece era fragile di bronchi, assai emotivo e non soffriva scene di violenza. Aspetti della personalità che lo accompagneranno tutta la vita. Solo per tradizione, nel '37, Lorenzo si iscrive alla prima ginnasio. Lo stesso anno, durante le vacanze, chiede, tra lo stupore della famiglia, di ricevere la prima comunione.
LORENZO PITTORE
Il 21 maggio '41, a causa della guerra le scuole chiudono, Lorenzo viene dichiarato maturo. In quel momento, esprime il desiderio di cimentarsi nella pittura. Vive per un anno intero a Firenze e frequenta assiduamente il pittore H.J.Staude. Il padre la ritiene "una bambinata", avrebbe dovuto intraprender una rapida quanto fortunata carriera da intellettuale universitario: "Noi ci si aspettava che prendesse la via accademica, che seguisse la tradizione di famiglia" dirà la madre, "invece, dopo il liceo, volle studiare pittura a Brera." Lorenzo, a causa del suo anticonformismo, non rinununcia al fascino di una vita "spesierata", ma l'esperienza diretta a contatto con la gente comune sostituisce, con i suoi messaggi "duri", le raffinatezze delle discussioni salottiere a cui era abituato. Era un ragazzo dalla bella figura slanciata, simpatico, cortese. Aveva l'aria tipica del giovane di famiglia benestante quando, in una parentesi fiorentina mentre faceva merenda in un vicolo, seduto accanto al suo cavalletto, fu fortemente scosso dalla frase di una donna: "Non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri!" Questo episodio raccontato da lui stesso a Adele Corradi, gli fa confidare: "Mi sono accorto di essere odiato e che me ne importava". La professoressa Corradi, per anni insegnante alla Scuola di Barbiana, prosegue con questa testimonianza: "Un senso di colpa tremendo che aveva già provato quando l'autista di famiglia lo accompagnava a scuola. Voleva lo scendesse prima, perché si vergognava farsi vedere dai compagni". Lorenzo Milani Comparetti, un ragazzo ebreo che mangiava il pane bianco dei ricchi, aveva presto preso coscienza dello stato di privilegio in cui viveva, condizionato dal peso della guerra, dall'altrui fame e dalla violenza delle discriminazioni razziali. Due anni prima, Edoardo Weiss, il cugino materno, era fuggito in America. Sarà un periodo burrascoso e di sofferente transizione che gli farà abbandonare le "mollezze" e il tipo di linguaggio acquisito in famiglia. "Lorenzino Dio tuo", firmerà così, una lettera disperata a un compagno di liceo: "(....) se mi ammazzassi o impazzissi del tutto quando lo vieni a sapere fai una sghignazzata (...)Dicevo a Dio che doveva mandarmi un pittore della mia età. Dicevo: "Fratellino se non me lo mandi sei una vacca. Beh insomma se non me lo mandi almeno fammi piangere". (....) ciao Oreste io son Lorenzino Dio tuo." (vedi: Lettere a Del Buono) Con la pittura, inizia la stravagante vita d'artista "bohémien". E' ancora un giovane che non si è completamente liberato dalle forme di onnipotenza dovute anche all'età. In questo periodo di "decadentismo agnostico", è fortemente influenzato dal "bello e funzionale" di Le Corbusier e dal "lavoro collettivo" nell'architettura di Michelucci. Legge Claudel e si accende d'interesse per la pittura religiosa. E' proprio attraverso una ricerca sui colori, usati nella liturgia cattolica che Lorenzo si avvicina in qualche modo alla Chiesa. L'esperienza pittorica lo porta a cercare i significati profondi che stanno dietro l'immagine. Sono proprio questi significati che, una volta compresi, gli faranno superare i valori della cultura ereditata. Nel settembre del '42 s'iscrive all'Accademia di Belle Arti a Brera. La famiglia, pur non condividendo l'idea, lo aiuta ad aprire uno studio in quella città, ma nel novembre dello stesso anno si trasferisce nuovamente a Firenze. In questo modo, la madre di Lorenzo ricorda tale periodo, scosso dai bombardamenti anglo-americani: "Erano gli anni della guerra. Presto si dovette sfollare da Milano, e ritirarci nella nostra villa di Montespertoli, vicino a Firenze. Lui intanto aveva incominciato ad interessarsi di architettura, oltre che di pittura.""(4) Ma la pittura, arte solitaria, era insufficiente al suo bisogno di comunicare: "Non ho mai creduto, neanche per un momento, che la pittura fosse la strada di Lorenzo Milani.... . Si vedeva che stava volentieri in mezzo ai giovani, e che c'era in lui questo desiderio di vivere in una comunità (...) dichiarerà in un'intervista a Neera Fallaci, con assoluta convinzione, Hans Joachim Staude che era stato il suo maestro di Pittura, nell'estate del '41, e che continuerà a frequentarlo sia a San Donato che a Barbiana. Il 12 giugno del '43 il giovane Milani, ormai convertito, riceve la cresima dal cardinale Elia Dalla Costa, in forma privata e nella cappella del Arcivescovado dedicata a S.Salvatore. Una conversione secondo la madre nata per gradi, anche se sboccerà improvvisamente: "Nacque per gradi. E nacque da un senso di vuoto, d'insoddisfazione (....) Poi, non so come, si ritrovò in mano un libro sulla liturgia cattolica. Lorenzo se ne entusiasmò, ma tutti, lì per lì, si pensò che fosse l'entusiasmo di un esteta. Invece era accaduto, o stava per accadere in lui qualcosa di assolutamente diverso. Di lì a pochi mesi,.... entrò in seminario."(4)
LORENZO INCONTRA DON BENSI
Una mattina d'estate, siamo nel '43, il giovane Milani entra nella sacrestia di Santa Maria Visdomini nel cuore di Firenze: " (...) per salvare l'anima venne da me", dirà in una delle poche testimonianze lasciate mons. Raffaello Bensi, padre spirituale di Lorenzo seminarista: "Da quel giorno d'agosto fino all'autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l'assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire. E così fu".Questo desiderio d'assoluto era pane quotidiano per il vecchio sacerdote che credeva fra l'altro nelle vocazioni elitarie. Questo rapporto lo porterà a ricevere, insieme ad un affetto viscerale, molti "grattacapi": "(....) mi chiamava "il su' babbo" e "il su' nonno", e anche quando pareva che fosse venuto senza scopo, bastava quel certo modo di guardarmi perché capissi che dovevo far qualcosa per aiutarlo. Ho sempre fatto tutto quello che ho potuto, anche se lui, benedetto testone, si cacciava subito in guai peggiori(....) " (vedi: Don Bensi Intervista di Nazzareno Fabbretti)
IL SEMINARIO
All'età di 20 anni, l'8 novembre 1943, abbandona il colto mondo borghese a cui apparteneva e entra nel seminario di Cestello in Oltrarno dove, pur nei contrasti col rettore e i superiori, accetta le dure regole. Da allora sarà obbediente e ribelle a una Chiesa nella quale lui si sentirà inserito e che lo avvicinerà agli strati più poveri della società: "Eppure un giorno che s'era intasato un gabinetto del seminario e c'era due servitori a rimediare, sentii per caso il discorso del più giovane di loro: "I signori bisogna servirli tutti: da cima.... fino in fondo". Un mio compagno che è nato ricco ed era entrato in seminario tutto gonfio di pio orgoglio di starsi facendo povero coi poveri, restò come pugnalato da questa frase. E sì che a quei giorni in seminario si pativa letteralmente la fame né v'era riscaldamento di sorta." vedi: Opere - Esperienze pastorali) L'eliminazione del soggettivismo del signorino e l'onnipotenza di Lorenzino Dio e Pittore, grazie all'aiuto del vecchio sacerdote, lo porteranno a una maggiore predisposizione all'ascolto e all' "attesa" della verità che viene dall'alto. L'azione della fede lo porterà a spogliarsi di ogni privilegio: "E pensare che mi son fatto cristiano e prete solo per spogliarmi d'ogni privilegio!" (5) Sarà una scelta che farà soffrire. I genitori non saranno presenti alla cerimonia della tonsura, atto di rinuncia al mondo per poter entrare nello stato ecclesiastico. La scelta sacerdotale lo costringerà a diversi piani di relazione. Scopre che non sempre si può comunicare e che esiste un livello che funge da soglia. La soglia della coscienza, dove risiede la parola, non era raggiungibile dal popolo.
Il montanaro di Barbiana aveva bisogno di un tramite e di una proposta unificante: la scuola.. Da sacerdote non amerà rivolgersi ai borghesi e agli studenti. Gli intellettuali, secondo lui, vivono un mondo sterile e fatto di dettagli: " (...) io parlo, e scrivo, non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro"(....).
AUTOBIOGRAFIA
In "Università e pecore ", mettendo a confronto i mondi dell'infanzia in famiglia e della maturità tra i contadini di Barbiana, il priore si racconta. (Vedi: archivio fotografico Carmagnini). Parla di due mondi separati da confini invalicabili della cultura e che lui, passando da un mondo all'altro, riusciva a vedere entrambi con l'occhio curioso e attento del convertito. E' impressionato dai processi culturali per cui una parte dell'umanità, obbligata ad estraniarsi dalla propria coscienza, si identifica e diventa strumento passivo della realtà materiale che la circonda: le mode. Combattere l'alienazione per trasformare i metodi e i criteri di un sistema consumistico, diventato regime, sarà il suo modo di aderire alla realtà, sia come uomo che come credente. Un' aderenza che lo porterà a vedere nella mancanza di parola la miseria del popolo che gli era stato affidato. Un popolo che non si era ancora intimamente corrotto e nel quale, dietro alla maschera, vede innocenza e candore. Ancora sono lontani i tempi in cui il potere del consumismo volgare ci omologherà tutti e ci porterà, come dirà Pasolini, alla perdita del sacro. "Università e pecore" è un'opera che il priore ha tenuto in archivio per tutta la vita e che non ha mai gettato nemmeno quando, prima di lasciare Barbiana e sapendo di andare a morire, distrusse tutto quello che non voleva fosse pubblicato. Ciò convaliderebbe una lunga e attenta verifica da parte dell'autore. In questa opera, scritta a un amico magistrato, il sacerdote, descrive, in un episodio reale e crudo, la vita dei pecorai, Adolfo e Adriano, e del signorino: "(....) così Adolfo ha passato la sua infanzia colle pecore e ora è grande e lavora invece il podere e colle pecore manda Adriano. E Adriano ha già 10 anni ma è analfabeta come il suo babbo solo perché non può andare a scuola perché ha da badare le pecore che hanno da fare la lana e gli agnelli e il cacio. E poi si vende la lana e gli agnelli e il cacio e la metà d'Adolfo basta solo per campare mentre la metà del signorino messa insieme a altre metà di altri poderi basta bene per andare a scuola fino ai 35 anni e far l'assistente universitario volontario cioè non pagato e vivere nei laboratori e nelle biblioteche là dove l'uomo somiglia davvero a colui che l'ha creato che è sola mente e solo sapere". Lottando per la liberazione del povero dall'alienazione della materia, cioè dal solo lavoro, il Priore consente a una cultura muta il diritto alla parola: " (.... ) la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale (....)". (6) Un diritto che difenderà sempre, con rigoroso anticonformismo. Non sarà "occasionale" o "ideologica" la scelta dei poveri, ma determinata dal senso di colpa, dall'amore e dalla concretezza dei rapporti che instaurerà con i suoi popolani. Il suo desiderio di giustizia mette a fuoco l'indifferenza della gente, una indifferenza che lui definirà cieca e assassina: " Ma domani, quando i contadini impugneranno il forcone e sommergeranno nel sangue insieme a tanto male anche grandi valori di bene accumulati dalle famiglie universitarie nelle loro menti e nelle loro specializzazioni, ricordati quel giorno di non fare ingiustizie nella valutazione storica di quegli avvenimenti. Ricordati di non piangere il danno della Chiesa e della scienza, del pensiero o dell'arte per lo scempio di tante teste di pensatori e di scienziati e di poeti e di sacerdoti. La testa di Marconi non vale un centesimo di più della testa di Adolfo davanti all'unico Giudice cui ci dovremo presentare. Se quel Giudice quel giorno griderà: "Via da me nel fuoco eterno" per ciò che Adolfo ha fatto colla punta del suo forcone, che dirà di quel che il signorino ha fatto colla punta della sua stilografica? E se di due assassini uno ne vorrà assolvere, a quale dei due dovrà riconoscere l'aggravante della provocazione? " (vedi: Università e pecore). La vita e gli eventi quotidiani diventano memoria storica di soprusi e angherie che avvengono davanti ai suoi occhi e dentro il suo popolo. La sua figura ha rappresentato, in questo secolo, un momento di riflessione dell'uomo su se stesso, completa delle esperienze vissute sia nella condizione di ricco che in quella di povero. I valori e il potere della lingua, appresa e assimilata dentro una "scuola del reale" , quale fu per lui l'ambiente familiare, lo portò a credere che solo la parità culturale avrebbe dato dignità all'uomo, per natura artista e creativo. Un messaggio profetico, non moralistico e che educa al rifiuto di una vita ripetitiva. Le novità per il priore rappresentavano la gioia di vivere, di combattere e di conoscere: "(....) il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i "segni dei tempi", indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso (....)". Nell'assoluta mancanza di riferimenti, non siamo capaci di spiegare il suo comportamento così anticonformista verso il "piacere materiale", il "disimpegno" e il "privato". Le famose tre M: moglie, macchina e mestiere. Vede il Parlamento completamente dominato dal "Partito Italiano Laureati". Il suo pensiero, fuori da ogni schema e sofferto, parla direttamente all'anima. Lorenzo Milani contrappone alla ricerca del benessere economico, della riuscita scolastica o professionale quello che per lui sarà il massimo delle aspirazioni: il piacere di sapere per non essere subalterni. Liberandosi, con l'insegnamento, dalle colpe materialiste e atee dei signori, libera i poveri dall'analfabetismo. L'intercapedine dura che separa l'uomo dal messaggio evangelico.
LA TESTIMONIANZA
Agire dentro la Storia ha, per lui come per papa Giovanni, valenza di fede. E' la fede di San Francesco, un santo che non proviene dalla gerarchia. Va subito detto che, per il priore, la Chiesa rappresenta l'emancipazione e liberazione del popolo di Dio. E' un Dio immanente, quello in cui Lorenzo crede. Un Dio che interagisce con la storia delle sue creature. Un Dio che soffre, rinasce e è trino. E' la fede che risponde a un grande santo a lui caro, l'apostolo Paolo, che scuote il cristiano convertito dicendo: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio. Ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce".
Una fede che ha riscoperto il grande valore delle culture "subalterne" e che, volendo conservare Dio all'interno delle proprie tradizioni, non vuole assimilare la cultura materialista e atea della classe dominante. Nella futura società, quella della manipolazione genetica e delle nuove tecnologie della comunicazione, bisognerà ricredere in ciò che è essenziale alla vita per poter condividere le risorse e per salvare noi e il pianeta: ... altrimenti, il Dio motore della storia se né andrà portandosi dietro tutti i suoi santi, Lorenzo compreso, e chissà per quanto tempo.
A inizio secolo e giovanissimi, i nonni materni: Emilia e Emilio Weiss, ebrei d'origine boema, vanno ad abitare a Trieste dove per vivere importano carbone. Trieste, influenzata da Vienna, era una città cosmopolita, dove la convivenza etnica produrrà fermenti culturali significativi per questo secolo.
Il cugino materno, Edoardo Weiss, è amico e allievo di Freud. E' lui che fonderà l'“Associazione Italiana di Psicanalisi”. La casa è frequentata dallo scrittore James Joyce che da lezioni d'inglese alla cugina Alice, madre di Lorenzo.
Il bisnonno paterno, Domenico Comparetti, grecista, latinista, epigrafista, papirologo, folclorista, forse “ il più importante filologo italiano ”, era anche un anticlericale accanito. Dopo la presa di Roma, dove aveva vissuto come irrequieto suddito del papa, diventa “senatore del regno”. Conosceva 19 lingue.
Nel periodo, in cui insegna all'Istituto di studi superiori di Firenze, ha come allievo Luigi Adriano Milani che sposerà la figlia Laura, madre di Albano. Il signor Albano, padre di Lorenzo, è chimico e filosofo, parla sei lingue. Alla morte precoce dei genitori, la madre muore nell'aprile del 1913 e il padre l'anno dopo, assume la responsabilità della famiglia.
La prima grande guerra è alle porte. Diventato soldato, lavora come chimico in una fabbrica requisita per la produzione di armi. I fratelli, Giorgio e Piero, andranno a comandare un esercito di contadini.
Siamo in un'epoca di grandi trasformazioni dovute alla tecnica e ai cambi culturali. Ben presto, con Mussolini al potere, tali trasformazioni rallenteranno per un lungo periodo!
LA CONVERSIONE
Il mondo dell'arte
Dopo il liceo Lorenzo tornò per un anno a Firenze a studiare pittura. Il padre e la madre lo avevano educato fin da piccolo a fare le sue scelte in modo autonomo, garantendo insieme agli altri privilegi, un’educazione libera: "Per quanto il caso di mio figlio mi abbia colpito profondamente, non gli ho mai detto, né allora né dopo, una sola parola che lo potesse condizionare nella sua libertà. Io ho sempre rispettato la sua libertà, e lui ha sempre rispettato la mia (La madre - Intervista alla madre di Nazzareno Fabbretti)
Però, quando Lorenzo esprime il desiderio di diventare pittore, il padre preoccupato per l'instabilità apparente del ragazzo si rivolge a un amico, il professor Giorgio Pasquali. Gli chiede di trovargli un buon maestro.
"Ha una minima energia di lavoro", risponderà il prof. Pasquali parlando di Lorenzo, con una lettera datata 4 giugno 1941, in cui comunica di avere trovato "un maestro a modo": "(….) Dopo tre prove vane mi è riuscito, credo, di trovarne uno: è un tedesco di Amburgo, Staude, coltissima e bravissima persona, di finissime maniere (….) è un pittore molto consapevole della propria arte e dei problemi che l'arte suscita, e un pensoso. Credo che, se anche la pittura non riuscisse, avrebbe sul tuo figliolo un effetto benefico, calmante e serenatore. E' personalità moralmente molto alta. (....) Il ragazzo è secondo me intelligente, come è pieno di grazia, ma, lasciando andare se le attitudini alle arti figurative siano vere, ciò che in fondo non possiamo ancora sapere, ha una minima energia di lavoro. Io ho cercato per il tuo figliolo un maestro a modo".
Hans Joachim Staude, amante della semplificazione, essenzialità e unitarietà, rimane sorpreso per la caparbietà del giovane allievo: "Per me, una cosa memorabile è proprio lo slancio con cui si mise all'opera per realizzare quanto gli avevo comunicato. Mai avevo trovato tanta veemenza in uno scolaro. Mentre fuori era il più bel maggio del mondo, si chiuse in questo studio polveroso che prendeva luce da nord ... . Trovai in questo scolaro una completa non preparazione. Fui io a fargli fare il primo, vero disegno della sua vita. Mi resi subito conto che era un giovane dotato di grande intelligenza. Così, invece di limitarmi a correggere i suoi disegni, gli spiegai da che cosa doveva partire: gli parlai della scelta di tutto ciò che è essenziale, gli parlai della semplificazione, gli parlai della unità che deve regnare in ogni lavoro, disegno o pittura che sia. E lui capì al volo queste cose (....) ". (vedi: Intervista di Neera Fallaci a Staude)
Sarà il suo maestro di pittura, personalità moralmente molto alta, a aprire un varco nella confusione: "Con Lorenzo parlavo del senso sacrale della vita. Perché il mio scopo di pittore è di far diventare sacra la realtà che mi circonda, è di esprimere "il santo" che è nel profondo di tutti noi (...). E' la prima volta che dico queste cose. Le dimentichi ". (vedi: Intervista di Neera Fallaci a Staude)
L'esperienza con lo Staude, attraverso la sua ricerca del "santo" nascosto in ogni cosa, produce, nel ragazzo, un'"iniziazione " al senso religioso della vita e alla ricerca di un assoluto spirituale. La particolare sensibilità al colore lo porterà ad appassionarsi sempre più al linguaggio pittorico e poi a quello liturgico per scoprire i significati: "Era un ragazzo capace di avvertire un godimento sensuale per il colore".(Intervista di Neera Fallaci a Staude)
"A primavera, racconterà don Auro Giubbolini suo compagno di seminario, andava sempre per i campi a vedere i mutamenti di colore della natura ".
Nell'estate del '42, trova un vecchio messale e ne rimane fortemente influenzato: " Ho trovato un vecchio messale qui a Gigliola, in una cappellina di proprietà della famiglia. Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca di autore? " (vedi: Lettere a del Buono - Luglio 1941)
Il processo di materializzazione e rappresentazione del segno, per mezzo del pennello, gli farà sempre più scoprire e rifiutare la sua identità: " (....) Poi dico Porco Io (....) dico che sono un coglione, che sono un troia, che la pittura è una vacca e che mi fa rivedere (nella pittura come specchio) cioè vomire,vomitare, rigettare, putrefare ". (Lettere a del Buono - Luglio 1941)
Questa sensibilità interiore lo spinge a esplorare altre gerarchie di valori, anche se apparentemente più umili: "Mi piacerebbe fare dei grandi affreschi pieni d'angeli biondi, ma sciare è molto più bello, anche pattinare a rotelle è più bello, anche cascare dietro il palazzo di Giustizia è piu bello, molto più bello e avere degli amici accanto è 7 volte e l/2 più bello. Io preferirei avere accanto degli amici che dipingere ". (Lettere a del Buono - Luglio 1941)
Come dice Padre David Maria Turoldo, la sua già forte personalità si trasformerà repentinamente, fino a esprimere il desiderio di diventare parte dell'invisibile e del santo suscitato dal pittore tedesco. "Il fenomeno don Milani, non si spiega che con il segreto della santità (…) santità riuscita a sposarsi a una autentica dialettica vissuta addirittura sul piano della "cultura". Una santità che finalmente non è solo "bontà" come si usa giudicare da parte degli inellettuali, forse per legittimare la loro viltà e i loro compromessi. Qui non siamo di fronte solo a un convertito, qui c'è qualcosa di più. In antico si sarebbe detto che qui siamo davanti a un predestinato".
I significati che stanno dietro l'espressività della Messa, argomento degli affreschi che voleva dipingere nel chiesino di famiglia, a Gigliola, lo porteranno invece a vivere il mistero che si cela nella funzione sacra e comunitaria. La pittura non rappresentava più quella soglia tra il dentro, coscienza, ed il fuori, realtà. In lui quella soglia si fa parola. La mancanza di parola del ragazzo montanaro di Barbiana, oppure dell'operaio di S. Donato e anche la parola "diversa" dell'intellettuale, prigioniero e limitato da un certo tipo di realtà, necessiteranno di un "tramite" per poter comunicare. Dice, giustamente, Francesco Milanesi: "Non si accontentò più di dipingere con tela e pennelli, lo fece con tutto se stesso. Fece di sè il pennello, della sua vita la tela e dei sacramenti i suoi colori ". La pittura, strumento espressivo, era, per il priore, insufficiente a capire lo scopo della propria esistenza e limitativa al suo bisogno di comunicare. Lo dice al maestro poco dopo il suo ingresso in seminario e Staude resta stupito dal cambiamento: "E’ tutta colpa tua. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un'unità dove ogni parte dipende dall'altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un'altra strada ". (Intervista di Neera Fallaci a Staude)
Questi nuovi rapporti lo libereranno dal vuoto e gli daranno uno scopo. Nel settembre del 1942 Lorenzo si iscrive all'Accademia di Belle Arti a Brera dove apre uno studio a piazzale Fiume, ma nel novembre a causa della guerra, si trasferisce di nuovo a Firenze.
Il mondo laico
E' di questo periodo l'incontro con la componente laicista fiorentina, composta di pensatori, di educatori e di uomini politici senza pregiudiziali. Saranno questi stessi uomini che lo difenderanno allo spasimo, scrivendo su riviste come "Scuola e città", il "Il Ponte" e "Azione non violenta" di Capitini, ammirato da don Milani per la sua sincerità di non credente. Una componente, in seguito ben rappresentata anche dagli amici giornalisti: Giorgio Pecorini e Mario Cartoni. Dentro la scuola di Barbiana tale pensiero era sostenuto dalla personalità forte e dalla critica tagliente dell'amico e collaboratore professor Agostino Ammannati.
Molti erano uomini del vecchio Partito d'Azione. Erano coscienze poco disposte a parlare con il "prete" eppure, conoscendolo, hanno smontato, insieme a lui, gli steccati, anche quelli interni alle "loro chiese". Saranno, quasi solo, questi uomini a difenderlo da coloro che si proporranno come i detentori delle verità cristiane, perché facenti parte della gerarchia ecclesiastica. Riconobbero, anche se più sottovoce, la rottura con il loro mondo borghese e sperarono con lui in un futuro di giustizia e liberazione. Sono loro ad esaltare la sua visione profetica, il suo primato della coscienza su l'obbedienza borghese o clericale, quella che "non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni "(vedi: Opere - Lettera ai Giudici). Essi confermano, nelle loro testimonianze, l'autenticità di questo prete incline alle nette prese di posizione, ma dentro l'ortodossia rigorosa. E' stato un prete col quale hanno potuto dialogare su qualsiasi argomento perché la sua scuola, che alcuni di loro hanno frequentato, sia a S. Donato che a Barbiana, non fu mai "confessionale", come lui stesso ha spesso chiarito: " Il prete lo faccio quando amministro i sacramenti. La scuola mi serve per cercare di trasformare i sudditi in popolo sovrano, gli operai ed i contadini sfruttati, in persone consapevoli e capaci di rivendicare i propri diritti ".
Per loro, Lorenzo rimane l'educatore rivoluzionario che hanno incontrato e mentre la sua fede è considerata un fatto privato, vedono nel tema della giustizia l'elemento propulsore alla sua vocazione. Questi incontri daranno impulso alla sua crescita morale e interiore, ma il periodo più burrascoso e incerto della sua vita lo spingerà ad andare oltre: " (...) dominato, quasi ossessionato, dal tema della giustizia e del diritto alla vita". (Enriques Agnoletti - MORTE DI UN SANTO Il Ponte 30.6.67)
Questa ossessione, sprigionata dalla drammaticità dell'esistenza umana in quel particolare periodo storico del '43, avrà bisogno di altre risposte prima di capire bene il suo destino. Il cugino Paolo, ufficiale a bordo della corazzata "Roma", affondata dai tedeschi, annegherà il 9 settembre.
IL VANGELO
La conversione di don Milani è di poco prima. Come dice la madre, è e resterà un mistero che nessuno potrà spiegare. Si sa del fascino provocato dal messale trovato nella cappella di famiglia. Ma cosa, con esattezza, lo ha spinto quel giorno da don Bensi? La curiosità, il desiderio di Verità o la ricerca dell'Assoluto?
Dice il vecchio sacerdote descrivendo l'ambiente di provenienza del suo giovane neofita: " Una morale integrale laica, una perfezione estetica, un senso del dovere fino allo scrupolo, un gusto per la raffinatezza e l'armonia, che non lasciavano il minimo spazio per Dio. Il nome di Cristo non l'aveva mai sentito pronunciare. Nemmeno un'educazione ebrea, ma perfettamente agnostica, compiutamente secolarizzata, anche se una madre ebrea rimane sempre e comunque un'ebrea, anche se non lo professa ".(Testimonianza di don Bensi - Comunità e Storia 5.6.77)
In seminario troverà una ragione assoluta per vivere: "La nostra è una famiglia in cui si è sempre avuto tutto, dal pane alla cultura, dal prestigio al gusto delle cose belle. Ma solo in seminario Lorenzo trovò subito ciò che istintivamente cercava con tutto se stesso: una ragione assoluta per vivere, una disciplina costante". (Intervista alla madre - Nazzareno Fabbretti)
E' certo che, d'un colpo solo, Lorenzo Milani Comparetti che proveniva con i suoi vent'anni da un'altro ambiente, vide tutta l'educazione ricevuta svuotarsi di tanti valori: " (....) i vent'anni passati nelle tenebre (....) Don Lorenzo".
La Verità del Vangelo lo condurrà sullo stesso itinerario dell'apostolo Paolo: dalle tenebre alla luce. Un mistero che non può essere spiegato: "Mio marito ed io eravamo contrari, abbiamo sofferto di quella scelta. Io come agnostica ed ebrea, e anche mio marito benché cattolico d'anagrafe. Ma non abbiamo detto o fatto nulla per distogliere Lorenzo dal suo proposito. Lo conoscevamo bene, sapevamo che se aveva deciso per quella strada nessuno lo avrebbe potuto dissuadere. Cosa ho provato davanti alla sua conversione? Come dirlo? e poi, perché parlarne? Credo che questo appartenga solo a me, al mio cuore e ai miei ricordi. Una cosa come quella è sempre un mistero, e io non posso presumere d'aver capito il mistero della vocazione religiosa di mio figlio ". (La madre - Intervista di Nazzareno Fabbretti)
Il comportamento di "quel ragazzo" resta indelebile nella memoria del padre spirituale: "Quel ragazzo, partì subito per l'Assoluto, senza vie di mezzo. Certo è che, una volta incontrata la verità del Vangelo, decidersi per essa fu tutt'uno; niente poteva reggere il confronto, non restava che vivere solo per Dio". (Testimonianza Don Bensi - Comunità e storia. 5.6.1977)
La fede, dunque, era fame di assoluto, dedizione completa, autenticità cristiana. Sarà, per il giovane, motivo di grandi libertà e scudo contro la schiavitù della storia. Così la fede gli farà scrivere, burlandosi delle verità di ogni tempo, di: " (….) precedere sempre il secolo, di trascinarselo dietro come un garzoncello intimidito (….)".
Ecco che l'iniziazione lascia il posto: "alla verità che viene dall'alto".
La conversione si colloca subito dopo il ritorno a Firenze, la data la definisce lui stesso in una lettera inviata il 4 giugno1963 all'amica Elena Brambilla che gli faceva gli auguri per un anniversario di sacerdozio: "Mia moglie ed io le mandiamo i nostri affettuosi ringraziamenti. Non ci eravamo accorti delle nostre nozze d'argento. Comunque proprio in questi giorni il 27 maggio ho compiuto 40 anni di vita "civile", proprio oggi 20 anni di vita cristiana e in questo mese compirò i 16 anni di sacerdozio".
Parlando della conversione di Lorenzo, dice Padre Ernesto Balducci: " Entrato come di scatto nell'universo cattolico, egli lo accettò come nascendo si accetta il mondo esistente. Per lui la Chiesa era quella che era come l'Orsa Maggiore, che non si mette in questione ".
UN CERTO LORENZO MILANI
Il proposto don Daniele Pugi, vecchio d'età e d'acciacchi, non ce la faceva più a reggere una parrocchia grossa. Aveva, perciò, chiesto al cardinale che gli inviasse un cappellano spiegandogli che per motivi economici non avrebbe potuto pagarlo. Elia Dalla Costa rispose: “Ho quest'anno un giovane prete che non ha nessuna pretesa e vuol vivere poveramente, un certo Lorenzo Milani ” (1)
La madre comunica, con due lettere alla figlia Elena, gli entusiasmi e le speranze del figlio, indaffarato ad organizzarsi per questo grande evento: “ Lorenzo ha avuto la nomina a cappellano a S. Donato ... . Le informazioni avute a Firenze sono queste: fame, miseria, popolo comunista, industrie. Però il parroco, che è svagolato, pare sia carino … . Domani Lorenzo va a vedere, ma ha già accettato ... (2) ... . Stamani è partito Lorenzo contento e stanchissimo. Ieri ha confessato duecento bambini per la cresima di qui, poi è andato a Ciliano e ha avuto 7200 lire a diminuzione dei suoi molti debiti. A notte ha fatto tre valigione di libri e poi è partito. Il suo parroco ha avuto molti contatti con Don Bensi Don Bartoletti e il proposto di qui e ti puoi immaginare che questi tre hanno preparato bene il terreno e lo aspettano a S. Donato con ansia e con gioia. Il parroco ha accettato per il suo cappellano 40.000 lire e Lorenzo crede che con queste vivrà da signore. Speriamo che tutti questi suoi entusiasmi non abbiano troppo presto una doccia fredda ” (3)
SAN DONATO
Il periodo affascinante di Lorenzo prete è quello a San Donato. Mandato in aiuto di un parroco ormai vecchio e malandato, circondato da un centinaio di giovani a cui fa scuola, vive le miserie materiali e spirituali della gente del luogo. Uomini e donne chiusi nella loro solitudine. Contadini smaniosi di andare in città. Operai sfruttati e oppressi da tanti padroni. Era l'8 ottobre del 1947, nonostante la pioggia fu accolto festosamente: “ Ieri sera son arrivato che pioveva, ma c'era sotto l'acqua una quindicina di ragazzi e di giovanotti ad aspettarmi e che m'hanno accompagnato in corteo fino a casa e poi si sono attaccati alle campane e hanno suonato un gran doppio a distesa per annunciare l'arrivo del tanto atteso cappellano (4) ”.
La Propositura era Pieve, si legge nell'introduzione di Esperienze Pastorali, e fu costruita tra il IX e il X secolo. Alla fine del '200, i possessi, il monastero, le decime e le pertinenze consentivano al pievano di San Donato, il poeta e filosofo Arrigo da Settimello un alto reddito: " ... Beneficio assai ricco che gli potea apparecchiare ozio alle lettere "(5).
La vocazione del suo illustre predecessore deve aver fatto sorridere il giovane sacerdote, intento a documentare la ricca storia della sua parrocchia proprio per mettere in risalto le diversità culturali, i pregi e i privilegi all'interno del suo popolo. Anche il grande papa Leone X fu da giovinetto, pievano di S. Donato. Nel 1782 la Commenda e la Compagnia vengono soppresse e espropriate, pare dal granduca di Toscana Leopoldo I. Con ironia il giovane Cappellano commenta: “ O felix culpa quella del Granduca che tolse a questa chiesa la sua ricchezza e potenza. Ma sarebbe stato meglio se avesse potuto toglierle anche l'aspetto esterno di ricca e potente. Il povero che s'affaccia al bel chiostro e bussa al portone stemmato non sa certo che il prete che ci abita non dispone più nè di terre nè di rendite e neanche delle stanze che danno sul chiostro e sul piazzale e che hanno tutto l'aspetto d'essere una sua sfarzosa canonica … (6) ”.
Quando don Lorenzo venne nominato cappellano c'erano, a San Donato, circa 1500 anime, contadini ma anche tanti operai. L'abbandono delle terre, dovuto al forte sviluppo industriale del dopoguerra, incrementava la popolazione delle aree limitrofe a Prato e a Sesto Fiorentino. Molti andavano a lavorare alla Richard Ginori. I più giovani lavoravano nelle fabbriche tessili di Prato. Minorenni sfruttati, lavoravano di notte, senza libretto e senza assicurazione. Erano giovani di 13-14 anni che si allontanavano dalla Chiesa e venivano attratti dai nuovi bisogni e nuovi piaceri. Con loro il cappellano dialogava con gli sguardi e da lontano: “ Ma negli occhi di quei ragazzi, mentre s'affrettano verso il lavoro e guardano di sfuggita la strana cerimonia (la processione), c'è un giudizio negativo. Qualcuno abbozza ancora una specie di segno di croce che fa felice il buon vecchio Proposto e che al cappellano pare invece un ultimo schiaffo (6) ”. Una domenica sera e di pioggia, la canonica era un deserto, don Lorenzo vide che i giovani e gli uomini del popolo, erano tutti al campo sportivo: “ Come può un uomo, creato da Dio intelligente per poter conoscere la Verità ed essere Suo Figlio, tralasciare la mensa dell'Eucarestia, la possibilità di veder cancellato il peccato, per il pallone o il biliardo? ”.
LA CULTURA CONSUMISTICA
METTE IN CRISI LA PARROCCHIA
La parrocchia tradizionale era giunta a un seria crisi, dovuta ad una religiosità priva di contenuti e caratterizzata dalla non partecipazione al rito. E i preti? Vivevano chiusi in canonica. Uscivano solo per portare i sacramenti ai malati o per benedire le case. Facevano suonare le campane, facevano le processioni, amministravano i sacramenti, ma intanto il mondo gli scappava di mano. Erano tempi, secondo il cappellano, in cui la Chiesa, avrebbe potuto ancora difendersi dall'egemonia materialista della cultura borghese e consumistica. Analizzando i comportamenti dei suoi popolani scopre, in loro, una religiosità superficiale e incoerente. Le confessioni si fanno sempre più sacrileghe. Si va alla Messa, al Vespro, al catechismo, per pura abitudine oppure perché spinti dalle famiglie. La religiosità degli anziani teneva in grande considerazione le feste, le processioni, le manifestazioni esteriori, ma si teneva alla larga dai Sacramenti.
Il giovane prete, ansioso di conoscere il popolo, si applica subito allo studio dell'ambiente in cui deve operare e si mostra curioso verso un mondo che era stato a lui estraneo fino a quel momento. Un mondo che stava imborghesendosi nell'anima e assumeva i modelli della vita borghese e anche della cultura dominante. Quella che per fede don Milani aveva abbandonata. Per raccogliere un'ampia documentazione sulla parrocchia, utilizza un metodo, rigorosamente scientifico. Ogni opportunità era sfruttata pur di raggiungere le persone e capire le situazioni ambientali e religiose. Tutte le mattine, dopo la Messa scendeva in paese, per fare delle telefonate, ritirare la posta, prendere il giornale, ecc. e così attaccava discorso con i giovani che incontrava. Girava e guardava con naturalezza e curiosità gli abitanti della parrocchia. Voleva conoscere tutti gli angoli delle case, anche topograficamente. Voleva conoscere la gente. Il cappellano di S.Donato, si occuperà immediatamente delle questioni vitali, come la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro minorile, la crisi degli alloggi. Vede il futuro dell'uomo moderno legato senza alternative a un bisogno di uguaglianza culturale. Sarà, infatti, l'analfabetismo ad aprire in lui quesiti di coscienza.
La sua analisi conoscitiva dei problemi sociali e politici della gente produrrà risultati statistici allarmanti che leggeranno quella realtà con cifre e percentuali. Il cattolico d'anagrafe, se povero, non è nemmeno uomo! Getta le basi per una nuova pastorale, partendo dalla considerazione che, democristiani e comunisti, siano entrambi dei materialisti: “ ... un ateismo ormai quasi completo e da generazioni ... ”.
Il diffondersi del comunismo ateo “ ... non era la causa ma la conseguenza ... ” di questo materialismo già ben radicato “ ... forse tra il clero stesso ... perché pensiamo che un popolo intimamente cristiano avrebbe saputo esprimere il suo giusto “ bisogno di rivoluzione senza perdere per questo la sua fede ... ” (6).
Di tutto ciò, incolpa il metodo utilizzato dalla gerarchia nella cura delle anime e l'uso di un linguaggio incomprensibile, lo stesso usato da chi, detenendo il potere, calpestava i più deboli. Documenta ogni evento. Produrrà, dopo lunghi anni di riflessioni e quando ormai è a Barbiana, un libro di memorie e testimonianze capace di demolire l'impalcatura che sorregge forme di religiosità legate ad abitudini lontane dal cristianesimo originario. Individuate le cause, propone i suoi drastici rimedi ai Sandonatesi battezzati che andavano alla Messa la domenica e si comunicavano soltanto nelle feste. Ma a lui non piace il modo con cui si partecipa alle funzioni tradizionali (le manifestazioni esteriori delle feste e delle processioni) e considererà addirittura inutili le prediche e il catechismo di fronte all'inferiorità culturale dell'uditorio. Scende dal pulpito e, appesa una cartina della Palestina ad una colonna, con un bacchetto indica e contestualizza la storia di Gesù, il figlio di un povero artigiano. Se Dio ha parlato, compito del sacerdote è quello di rimuovere gli ostacoli per consentire l’accesso alla Parola. Preferirà insistere: “ sull'aspetto interiore e personale ” della religione per far superare gli aspetti esteriori e formali.
Con coerenza feroce e disponibilità, per i suoi, in qualunque ora del giorno e della notte, testimonia, in modo singolare, il suo apostolato: “ Viveva poveramente, ma non è che cercasse la povertà come certi trappisti o eremiti. Anche Capitini venne su una volta e si discusse, poi lui disse: “Apprezzo il cibo vegetariano e basta! ”. Invece don Milani diceva, in tono scherzoso: “ Io sono un goloso! ”. Per esempio il venerdì era rispettato rigorosamente. Lui non aveva però né di più né di meno delle famiglie più povere. Se gli portavano un dolce lui lo mangiava insieme agli altri, un bicchierino non lo rifiutava, ma se nel mezzo di una discussione andavano a chiamarlo perché si freddava la pasta, questo non gli importava nulla, seguitava fino in fondo. C'erano poi dei fatti che noi non si capivano, come quello di andare a trovare dei girovaghi o zingari che si fermavano a fare degli spettacoli. In genere s'era un po' razzisti, lui invece cercava di andare loro incontro, ne battezzò anche alcuni, presso di lui, tutti trovavano ospitalità” (7).
Giorgio Pelagatti ricorda la sensibilità, particolare, per gli orfani: “ Quando moriva qualcuno, i familiari davano un offerta alla Madonnina del Grappa e chiedevano che venisse un gruppo di bambini al funerale. Si dava il caso che qualche volta piovesse. Allora questi bambini che non avevano l’ombrello, si ammollavano tutti. Allora lui disse: “ Da ora in avanti i bambini stanno a casa ”. E spiegò il motivo: “Non è giusto che questi bambini vengano ad ammollarsi soltanto perché voi credete, nel far un’offerta di far del bene”. Era sensibilissimo. Si vedeva passare per le strade con un barroccino a chiedere per gli orfani.” “ Voglio viaggiare con la bicicletta, soleva dire, perché la bicicletta è il mezzo comune ” . Quando andò a Roma per l’anno santo, il 1950, vi andò in bicicletta. Erano modi di fare diversi dagli altri preti”.
LA SCUOLA POPOLARE
Per avvicinare i giovani aveva utilizzato tutti i sistemi possibili, imitando i suoi confratelli. Stanco delle ricreazioni che lo mettevano in gara con la Casa del popolo, una gara a basso livello, si ribella e mette in discussione l'identità del sacerdote, trasformato e reso inadempiente da una società consumista e materialista: “ A un certo punto ho superato ogni resistenza interiore, e il ping-pong e gli altri arnesi da gioco volarono nel pozzo e organizzai la scuola popolare per i giovani. Infatti bisognava che i giovani, o con le buone o con le cattive, capissero che la scuola era la loro salvezza”(6). Cominciò col fare scuola, senza interruzione. Una scuola al servizio dell'uomo per colmare la differenza e non solo per eliminare l'ignoranza. Una scuola per i poveri e non per i ricchi. Una scuola determinata da un'ansia religiosa, anche se nella più rigorosa laicità.
“ I sandonatesi avevano una cultura al di sotto della media quando arrivò questo pretino pieno di entusiasmo, sempre vestito in tonaca e senza quel grande cappellone che portavano gli altri sacerdoti ” (8).
Sono due gli obiettivi che si pone: l'educazione dei giovani e la rieducazione del clero.
Per raggiungere il primo obiettivo, il giovane Milani fonda una scuola popolare. Bisognava sporcarsi le mani e uscire dalle vecchie abitudini comuni: “ Se tu vuoi telefonare a uno e ti accorgi che un filo è bruciato, non ti intesti a parlare ugualmente al microfono e non dici per esempio: " L'unica cosa che conta è parlare di Dio nel microfono; se poi un filo è bruciato, questo è un fatto mondano, terreno, assolutamente estraneo alla missione del sacerdote". E invece con poco sussiego, ma con grande praticità e semplicità, prendi un pezzetto di filo e un po' di nastro isolante e accomodi il telefono e poi parli ” (9).
La Scuola Popolare era una risposta unificante alla divisione politica e culturale interna al popolo e sostituiva all'agonismo del pallone il piacere di sapere. La prima cosa che insegnò fu che il bene e il male non sono tutti da una parte e lo racconta descrivendo la lenta trasformazione che avveniva negli allievi: “Di comune hanno poco (neanche l'amicizia fra tutti) fuorché un bel progresso che han fatto nel cercar di rispettare la persona dell'avversario, di capire che il male e il bene non son tutti da una parte, che non bisogna mai credere né ai comunisti né ai preti, che bisogna andar sempre controcorrente e leticare con tutti e poi il culto dell'onestà, della lealtà, della serenità, della generosità politica e del disinteresse politico ... è rimasta impressa in loro per sempre la cosa che più mi premeva: il sistema della critica senz'odio ecc. ecc. ... ” (10). Offriva una risorsa di cui tutto il popolo aveva bisogno, credenti e non credenti. Voleva aumentare gli interessi e elevare il livello culturale dei giovani. La scuola c'era tutte le sere. Cominciava alle 20.30 e andava avanti fino ad esaurimento. Tutti i venerdì c'erano le conferenze e i dibattiti, che venivano preparati con altre lezioni. Gli argomenti erano vari: storia dei partiti, del sindacato, delle religioni, musica, filosofia, astronomia, medicina, problemi di attualità. Durante gli altri giorni la materia principale era la lingua cioè: la padronanza della parola.
Per quelli che facevano i turni era un grosso disagio. Chi faceva il turno del mattino rimaneva anche fino a mezzanotte e mezzo e doveva poi alzarsi alle cinque. Quelli che facevano il turno della sera uscivano alle dieci e arrivavano in ritardo. Lorenzo era riuscito a fare scattare una molla, una motivazione: istruirsi per affrontare le ingiustizie che tutti i giorni subivano nei campi e nelle fabbriche. Lorenzo era un maestro eccezionale, sapeva tante cose e sapeva presentarle bene. La scuola era un divertimento: “Affascinato dal metodo d'insegnamento di don Lorenzo anch'io andavo volentieri alla scuola serale, pur avendo già fatto 3 anni dopo la quinta. Però lavorando nel fiume, in quel periodo ero reanaiolo, una sera il sonno prese il sopravvento. Ai mormorii e alle risatine degli altri don Lorenzo intervenne rimproverandoli: "Cosa avete da ridere bischeri! E' meglio un Giovanni a dormire qui che un Giovanni a giocare a ramino alla Concordia" (11). Perché in genere, nonostante che molti avessero lavorato tutto il giorno in mezzo ai telai e nei campi, nessuno dormiva.
“ In piazza nel paese c'erano le tre o quattro persone, il farmacista, il dottore, il maresciallo, che tenevano sempre banco. I ragazzi della scuola si intromettevano nei loro discorsi e li chetavano. Questo rendeva don Lorenzo orgoglioso. Era una scuola fatta, principalmente, agli adulti ma vi partecipavano anche ragazzi di 12 anni. Il venerdì era piena, c'era chi stava in piedi ” (8).
Alle conferenze non veniva escluso nessuno. Gli studenti avevano l’obbligo categorico di stare zitti. Al conferenziere invitato il cappellano dava tante raccomandazioni per interpretare l'ambiente e i bisogni dei ragazzi: “ Erano contadini che non capivano parole difficili di letteratura o di tecnica. Tante volte si verificava che qualche studente mettesse bocca e usasse, proprio per volere apparire, una parola di troppo: "Bravo, chi ha parlato? Chi è che ha detto questo?" diceva il conferenziere, e subito don Lorenzo: "Un bischero" ” (8).
Lo scopo della scuola era quello di elevare chi sapeva meno, normalmente più timido e impreparato: “ Bisognerebbe ordinare le nostre scuole parrocchiali in senso rigidamente classista. A noi non interessa tanto colmare l'abisso di ignoranza, quanto l'abisso di differenza. Se aprissimo le nostre scuole, biblioteche, conferenze, anche ai borghesi, cadrebbe lo scopo del nostro lavoro. Si accettano forse i ricchi alle distribuzioni gratuite di minestra? Il classismo, in questo senso, non è una novità per la Chiesa ” (6). Cercava con ogni mezzo di eliminare i dislivelli tra operai, montanari e contadini, compreso la timidezza che impediva la crescita. “Io stesso venivo mandato in giro a portare lettere ai preti che poi ho saputo non contenere niente dentro se non la preghiera di farmi parlare” (12) .
Era cosciente che il suo non era un metodo facilmente trasferibile o adattabile a realtà diverse. Saper educare non è un problema che si risolve solo nel metodo, ma nell'identità che il maestro esprime: “ Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola” (6).
LA POLITICA
Era una parrocchia divisa da forti contrasti. Pochi erano i giovani che frequentavano la chiesa, perché il paese ruotava attorno alla Casa del Popolo a maggioranza comunista. L'Azione Cattolica acuiva la divisione tra i lontani e i vicini. Indicava i lontani, quelli che non partecipavano al culto, come esseri inferiori, da compatire, ma non da amare come quelli della ditta. Una mentalità che ancora permane in un bigottismo da Provincia. Lui non voleva che la scuola fosse frequentata solo dai ragazzi della parrocchia e andò a cercare i più lontani dicendo loro che "solo l'istruzione li avrebbe resi liberi" e per evitare divisioni non aveva voluto crocifissi all'interno della sua scuola. Il giovane cappellano, per le sue idee, non era ben visto da molti sacerdoti e in curia arrivarono le prime critiche e lamentele. Tutto ciò non cambiò il suo comportamento.
I forti contrasti nati in occasione delle elezioni della Costituente, (don Lorenzo voterà per la Repubblica) avevano alzato il muro che divideva i pochi che si identificavano con la Democrazia Cristiana e i molti socialcomunisti. Pochi mesi dopo il suo arrivo, la D.C. vincerà le elezioni nazionali del 18 aprile. Nel '48, la ragione e gli alti valori etico-morali delle masse operaie e contadine facevano intravedere un mondo che non era più dominato dal caso e senza scopo. Mentre su scala internazionale si respirava un clima culturale che produceva riflessioni e timidi mutamenti verso un universo "pluralista", dopo il ventennio fascista, a San Donato si viveva una realtà piena di schematismi. Poche persone avevano il coraggio di andare contro corrente. L'individuo si trovava costretto a inserirsi e a riconoscersi dentro un "ordine" politico o uno schieramento dove trovare una propria identità. In questa parrocchia periferica dove tutto sembrava "immutabile", la forte e originale personalità, di un giovane sacerdote senza radici nella tradizione, mette tutto in discussione.
Nell'uomo Lorenzo, nel prete e nel maestro, tutto concorreva ad un'unica grande esperienza religiosa e educativa. Le due figure sono inscindibili, sia per la modalità attraverso la quale condivideva le storie individuali, sia per il desiderio che aveva di eliminare gli ostacoli che si sovrapponevano tra i bisogni veri e essenziali dell'uomo, creatura di Dio, e l'illusorio e alienante consumismo, ateo e materialista. Questa mentalità non schematica e quindi predisposta a vivere quello stato di grazia, povertà e peccato, nel quale ricevere la fede, “dono di Dio, non è facile da comunicare al giovane comunista di Calenzano: “ ... Ma dimmi Pipetta, m'hai inteso davvero? E’ un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. San Paolo non faceva così. E quel caso è stato quel 18 aprile che ha sconfitto insieme ai tuoi torti anche le tue ragioni. E' solo perché ho avuto la disgrazia di vincere che...
... E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18... non m'avresti mai veduto scendere là in basso, a combattere i ricchi. ... Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò”.
Quando la Dc, forte della conquistata maggioranza assoluta, tradisce le promesse, fatte nella campagna elettorale, scriverà su Esperienze Pastorali: “ Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini ed umani raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti ”. Lorenzo, vedendo nel partito "cristiano" indifferenza verso il dolore e la collera dei poveri dà credito alle ragioni storiche e sociali del comunismo, ma non accetterà mai l'ideologia marxista. Considererà tale pensiero avanguardista e perciò elitario, guidato da intellettuali che non esprimevano le istanze dei poveri, ma semplicemente li comandavano: Partito Italiano Laureati. Profetiche e significative sono, a proposito, le lettere scritte al cugino Carlo.
Il 15 luglio 1949 l'Osservatore Romano pubblica il decreto della Congregazione del S.Uffizio, nel quale si stabilisce che i cattolici che in modo libero e consapevole s'iscrivono al partito comunista o lo sostengono non possono essere ammessi ai sacramenti, mentre i cattolici che professano la dottrina del comunismo incorrono automaticamente nella scomunica. Per questo motivo tre anni dopo, nelle elezioni amministrative del 1951, i vescovi toscani con un decreto invitano a votare per lo scudo crociato ed "in particolare per i candidati che avessero saputo difendere i diritti di Dio, della Chiesa e della Famiglia", e si proibiva di votare per i partiti contrari alla “santa religione”. Lorenzo obbedì. Sostenne tale tesi dall'altare dicendo che non si poteva votare ne per i partiti della sinistra perché vietato dai vescovi ne per i socialdemocratici e i liberali perché contrari alla religione. Quindi non restava altro che scegliere i candidati migliori della Dc e dava indicazioni di cancellare i candidati che non appartenevano allo scudo crociato, privilegiando i sindacalisti. Per questa affermazione, il cardinale Dalla Costa gli ordinò il silenzio. Per scrupolo di coscienza don Lorenzo salì su un treno e andò a trovare amici in Germania.
Alle politiche del 1953 il cappellano fa una distinzione tra gli obblighi dei parrocchiani praticanti e quelli cattolici solo perché battezzati. Anche solo per un problema di lealtà: “ Non si può imporre agli uni e agli altri la stessa legge. Non è corretto chiedere ai non cattolici di difendere diritti religiosi … nel gioco democratico non c'è posto per diritti considerati oggettivi da una minoranza” (6). Non si poteva chiedere, dopo 7 anni di malgoverno: “ … che i non cattolici votassero D.C. per la speranza di ottenere giustizia sociale cioè pane, casa, scuola, difesa dagli abusi padronali. … Al disoccupato o al senza tetto che non ha una fede non si può offrire riforme che lo raggiungeranno dopo la sua morte o dopo che i suoi figlioli saranno già stati marcati nella salute o nell'istruzione … non si poteva chiedere ai non cattolici che votassero D,C. per difendere l'ideale democratico … il povero non si batterebbe per difendere una “libertà” di cui non ha mai goduto se non in teoria e che comunque lo interessa logicamente meno del pane e della casa. E poi non si addice a noi cattolici erigerci a paladini del sistema democratico quando dichiariamo di essere indifferenti alla forma di governo e benediciamo Franco (il dittatore spagnolo) non meno di De Gasperi. E conclude dicendo che: “ ... non restava al povero nessun motivo razionale per votare D.C. Gli restava solo il motivo religioso: un atto di fede e di obbedienza alla Chiesa”.
Rivolgendosi poi a coloro: “ … che credessero di compiere quella santa pazzia restava loro ancora il grave dovere di attenuarla, preferendo i sindacalisti al candidato dell'A.C. che era notoriamente un uomo per il quale un povero non poteva votare … ma solo come un simbolico rifiuto dei poveri di votare per gli avvocati e i professori”.
Questa critica aperta nei confronti della Dc e della linea della Chiesa, erano gli anni della guerra fredda e dell'autoritarismo di Pio XII, fu una delle cause vere del suo trasferimento nel dicembre del 1954, sul monte Giovi. Pagava così lo scotto di avere detto, in qualunque circostanza piacevole o spiacevole, sempre la verità: “ Io al mio popolo gli ho tolto la pace, non ho seminato che contrasti... Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del mio popolo”. Infatti quando la Richard Ginori, la più importante azienda di Sesto Fiorentino, licenziò centinaia di lavoratori e si trasferì a Livorno, non perse l'occasione per testimoniare la sua avversione a ogni forma di compromesso e strumentalizzazione ipocrita: “ I partiti politici di Calenzano presero un'iniziativa unitaria per solidarizzare con le decine di concittadini licenziati. Convocarono una assemblea pubblica alla quale partecipò anche il cappellano. Quando arrivò don Lorenzo, io ero con lui, la saletta del circolo Acli della Concordia era già gremita. I responsabili politici che presiedevano la riunione notarono la sua presenza e lo chiamarono: “Oh, abbiamo anche il nostro cappellano, se ha qualcosa da dirci si accomodi pure”. E don Lorenzo accolse l'invito e andò al tavolo della presidenza e rivolto all'assemblea disse: “A dir la verità ero venuto per ascoltare, ma dal momento che m'invitate a esprimermi devo confessarvi che, in quanto cattolico, mi sento correo della vostra situazione perché ho votato per il partito che di fatto governa e consente ai padroni di licenziare impunemente” . In una situazione di clima unitario, dove i responsabili dei partiti evitavano scrupolosamente di pestarsi i piedi, questo tipo d'intervento pose fine all'ipocrisia e dette un taglio più vivace e veritiero alla discussione” (11).
Dietro alla durezza covava, però, un animo sensibile e delicato: “ A scuola aveva un rapporto collettivo coi ragazzi, ma c'era anche un intenso rapporto individuale con ciascun giovane. Appena c'era uno spazio di tempo libero si vedeva a colloquio con qualcuno. Ci pigliava uno per uno se non eravamo noi a cercarlo, per avere un dialogo continuo fino a scavare in fondo alle nostre coscienze; spesso non c'era un confine preciso tra questi colloqui e la confessione vera e propria ... . Praticamente c'eravamo poi abituati a confessarci in qualsiasi posto si fosse, non c'era un luogo preciso. Ci aveva abituato a confessarci ogni volta che ne avevamo bisogno e non secondo le scadenze del calendario, come era di abitudine. Il suo modo di porsi con noi, nonostante la sua attività frenetica che lo portava ad alzarsi molto presto e ad andare a dormire tardi, era questo che gli importava, non tanto quello che poteva aver fatto nella giornata, quanto il suo modo di essere di fronte agli altri. Diceva: “ Non do importanza a quello che fo, alla parola che dico, perché sul piano divino, per incidere, ci vuole la Grazia, e su quello umano ci vuole l'esempio ” (12).
Testimonia Luana: “Hanno scritto che era un misogino, che le ragazze non le voleva a scuola. Non è vero. A quell'epoca c'era la divisione tra maschi e femmine, e lui cercò di superarla. Ci faceva partecipare alle recite parrocchiali e poi cominciò a restaurare un vecchio locale al centro del paese per la scuola di noi ragazze, ma non fece in tempo perché venne trasferito a Barbiana”.
L’ESILIO
Il 12 settembre del 1954, alla morte del vecchio parroco don Pugi, il contrasto fra don Lorenzo e gli altri preti dei dintorni emerge in modo violento. La successione doveva essere automatica. Invece la curia fiorentina nominò proposto di san Donato don Antonio Santacatterina, già pievano di Legri, una frazione limitrofa a Calenzano. La nomina ufficiale avvenne dieci giorni dopo. Lo racconta lo stesso Santacatterina parlando del colloquio avvenuto con il cardinale Elia Dalla Costa in un articolo pubblicato dall' Osservatore Toscano il 30 gennaio del 1969: “ Chiesi al cardinale: "E don Lorenzo?". " Se vorrà stare con lei almeno per un pò, come coauditore, bene, altrimenti gli darò una parrocchia".” A causa dei rapporti che perduravano tra don Milani e i ragazzi di Calenzano, il contrasto e la tensione permarrà negli anni. Don Santacatterina in una lettera a Florit del 29.12.58 scriverà : “ ... Desidero esporre, per la prima volta, un mio desiderio: don Milani Lorenzo, lasciasse in pace la mia parrocchia di S. Donato. Egli mantiene sempre molte relazioni mediante lettere, e avvisi, raccomandazioni ecc, con quei pochi che mantengono relazioni con lui. Ad ogni festa speciale si raccomanda di andare molti da lui. Li riceve nello studio ad uno ad uno perché gli dicano che cosa si va dicendo di lui in parrocchia, dando così adito a chiacchericci ed invenzioni che non servano a nulla ” (13).
“ Di fatto c'era una differenza enorme e di conseguenza le difficoltà di convivenza erano oggettive. Fino a che ci fu il proposto, fece un po' da parafulmine a don Lorenzo, e riuscì a mantenerlo nella posizione in cui era. Dopo la morte del proposto la situazione precipitò. Fu presa quest'occasione per allontanare don Lorenzo da san Donato. La Curia, fra questi due modi di fare apostolato, scelse l'altro e mandò, diciamo, in esilio don Lorenzo. Questo nonostante che non fosse stato mai possibile a nessuno trovare in don Lorenzo, in quello che faceva, in quello che scriveva, degli errori dottrinali, perché non è mai stato condannato per questo. Casomai è stato ritenuto un prete che stava troppo sull'orlo del precipizio, che batteva strade pericolose, che non era prudente. Questo, secondo me e anche secondo gli altri che pure allora non erano dalla parte di don Lorenzo, è stato un grave errore storico fatto dalla Curia fiorentina" (12).
Quando il popolo si strinse intorno a lui per non farlo partire il cappellano spense ogni ardore e invitò i giovani della scuola a dialogare con il nuovo parroco. Una settimana prima della partenza per Barbiana Milani scrive a don Renzo Rossi: “ Mi raccomando a te che tu ti sforzi a predispormi bene i preti del vicariato. Dopo tutto non chiedo poi tanto: lasciarmi vivere, non riferire notizie di seconda mano, trattarmi con benevolo compatimento come si tratta il neofita e il convalescente. Non soffro tanto per il distacco dal popolo (distacco relativo, perché non ci eravamo mai voluti bene come dopo questa batosta) quanto per il fiasco clamoroso che ho fatto nell'intesa coi confratelli vicini ”.
L'amarezza per l'allontanamento da S. Donato e l'amore per i "figlioli" producono, però, un giudizio tagliente sui confratelli: “ Nove anni fa, dopo 7 anni di incensurato apostolato, don Biancalani, don Santacatterina ed altri preti della zona, vollero il mio allontanamento in modo e in circostanze infamanti e un assurdo esilio in una parrocchia disabitata... Ebbero facile gioco a calunniarmi in Curia e nel popolo perché non rispondevo” (14).
Due anni dopo il trasferimento a Barbiana ribadisce, a don Rossi, il contenuto della propria missione: “ Son giunto alla conclusione che sia mia specifica missione non il distribuire pensieri prefabbricati ai preti, ma solo turbarli e farli pensare. Questa missione di conturbatore di coscienze ha il vantaggio di comportare pochissime responsabilità e perciò ben si addice alla mia giovane età”.
In realtà, lasciare i ragazzi di san Donato e interrompere la Scuola popolare fu, per Lorenzo, una sofferenza indicibile: “ Questo mette in questione la cattolicità di tutto il mio lavoro perché io m'illudevo d'essere ancora un prete cattolico, ma ora che i preti più vicini in perfetto accordo m'hanno sbranato io appaio agli occhi della gente come un prete isolato e un prete cattolico isolato è inutile, è come farsi una sega. Non sta bene e non serve a niente e Dio non vuole” (15).
Sofferenze accentuate dall'incomprensione della Chiesa, a sentire il suo confessore: “ Veniva sempre da me quando stava male dentro e non ne poteva più. Era disperato come un bambino, qualche volta scoppiava a piangere a dirotto. La sua pena, la sua ostinazione era sempre la Chiesa. A nessuno chiedeva d'essere capito, ma alla Chiesa sì. Poi, quando si era sfogato e mi aveva pianto sulla spalla, tornava fiero, altero, sicuro. Dai suoi ragazzi non voleva farsi vedere che forte: di questa sua forza avevano bisogno come dell'ossigeno. Ma io solo forse, e pochissimi altri, sappiamo il prezzo che gli costava. Si confessava molto spesso, soprattutto quando era più vicino, a Calenzano. Certe volte, ricordo benissimo, preso dalla tenerezza, dimenticando che quel ragazzo inginocchiato davanti a me era il prete che stava lacerando la cattiva coscienza dell'Italia cattolica, chiudevo gli occhi e lo consideravo ancora il mio giovane seminarista. E anche lui, come tutti gli altri, chiamavo "passerottino mio". Non l'avessi mai fatto! Schizzava in piedi anche durante la confessione, stravolto. Non voleva tenerumi di nessun genere. Si arrabbiava e gridava: "Cosa crede, lei! Ha preso la Chiesa per una passeraia?"” (16) .
La morte di don Pugi non fu altro che l'occasione per l'attacco finale: “ Don Pugi, nonostante i suoi 78 anni, era l'unico che l'aveva capito e che l'aveva difeso. Quando si trattò di nominare un successore, fu scelto un altro prete dello stesso vicariato ma di parte avversa. A don Lorenzo veniva semmai lasciata la possibilità di restare come cappellano e di pensare alla scuola. Lui ne fece una questione di principio: la scuola non era un suo hobby particolare, era il suo modo di essere prete e di essere parroco. Disse che due preti giovani non potevano stare in una parrocchia piccola come quella di san Donato, quando ce n'è tante vuote senza prete. Voleva essere parroco, il riconoscimento di essere prete a tutti gli effetti, con piena autorità e responsabilità. Andò dal Cardinale e gli chiese una parrocchia. E il Cardinale gli rispose: "Dove la trovi una parrocchia adatta a te? Mi hai diviso il popolo in due" (1). ”
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NOTE
1. Testimonianza Michele Gesualdi, 5.6.77 Comunità e Storia
2. Lettera del 5 ottobre 1947
3. Lettera del 9 ottobre 1947
4. Lettera alla mamma
5. Villani
6. Esperienze Pastorali
7. Testimonianza Luigi Cerbai - Comunità e Storia 5.6.77
8. Testimonianza Giorgio Pelagatti
9. Lettera a un sacerdote - 1958 - Comunità e Storia 5.6.77
10. Lettera a G. P. Meucci 25.6.51
11.Testimonianza Giovanni Bellini - Intervista
12. Testimonianza Maresco Ballini - Comunità e Storia 5.6.77
13. ISR, Fondo Don Milani - Carte Florit.
14. Lettera al vicario generale 20 ottobre 1963
15. Lettera a don Renzo Rossi del 1.12.54
16. Testimonianza Don Raffaele Bensi
Barbiana " cattedra della Povertà "
Nel dicembre del 1954 Don Milani viene nominato priore della chiesa di S.Andrea a Barbiana, una piccolissima parrocchia sul monte Giovi, nel territorio del comune di Vicchio del Mugello. La chiesa del '300 e la canonica, situate a 475 metri di altitudine sopra il vasto paesaggio della valle della Sieve, erano, e lo sono ancora, circondate da poche case e dal minuscolo cimitero.
Racconta Gina Carotti, amica e popolana: " Barbiana era una parrocchia di montagna con pochi abitanti, sprovvista di luce e di acqua. Di sera e nel mese di dicembre che faceva buio presto, era piuttosto triste ". Era una località irraggiungibile da automezzi perché non vi era ancora la strada ed era abitata solo da cento contadini che resistevano all'esodo verso la città. Da tempo, il vecchio parroco don Mugnaini aveva annunciato la chiusura.
Per la curia fiorentina, isolare don Lorenzo Milani era la giusta punizione da dare a un sacerdote che non amava le processioni, le feste, che privilegiava i più poveri e più umili e che aveva creato una scuola dove erano ammessi gli operai comunisti. Un uomo che vede nel consumismo, e nelle sue attrattive alienanti, la causa dell'allontanamento del povero dalla Chiesa e dai valori cristiani. In questo modo il vescovo pensò di riconciliarsi con i cattolici benpensanti e anticomunisti di Calenzano che erano andati da lui a lamentarsi. Morto don Pugi, il vecchio parroco, bisognava mandarlo via da San Donato.
E fu così che don Lorenzo Milani giunse a Barbiana quel lunedì del 6 dicembre 1954: " un'esperienza così intima e sofferta che non è tutta traducibile in parole, qualcosa che parla alla coscienza prima ancora che all'intelligenza " (Gaetano Arfè').
Quei 7 chilometri tagliavano fuori dal mondo! Le lettere bisognava andarle a prendere a Vicchio. Ancora oggi, la stanza e il pergolato, nella quale e sotto il quale si svolgevano le lezioni, restano ancora là. A testimonianza di questo prete. Posto dalla Provvidenza in un angolo sperduto. L'unico che potesse accoglierlo.
Il giorno dopo il suo arrivo, aveva raggruppato i ragazzi delle famiglie attorno a sé e in una scuola. Li liberò subito dalla passività e li rese responsabili. In questa scelta si fonderannono la pedagogia e la pastorale, il prete e la scuola.
Nel 1965 è portato in tribunale, accusato per apologia di reato, per la "lettera ai cappellani militari" in congedo. La sua autodifesa, la "lettera ai giudici", sono tra le pagine più belle della sua letteratura. L'impatto con la cultura contadina e l'analfabetismo di noi montanari maturerà e radicalizzerà in lui la necessità di dare più centralità alla scuola. Ed è proprio qui, nell'isolamento più totale, che emerge la figura del maestro.
Dopo l'esperienza a san Donato capisce che non si può amare, concretamente, che un numero limitato di creature. Per pochi ragazzi, semianalfabeti, figli di pecorai e contadini oppure orfani, apre una scuola che inizia all'8 del mattino e termina a buio. Una scuola che non conosce vacanze e che rifiuta le metodologie e le tecniche d'insegnamento nozionistico e trasmissivo.
" Lettera a una professoressa " è il risultato di un anno di attività a Barbiana, con un maestro ormai nel pieno della sua maturità. Il maestro Milani trasforma il giornale in materia scolastica. Trasforma, in ricerca e produzione di materiale didattico, il lavoro d'équipe, da lui diretto, svolto con i ragazzi, gli abitanti e i numerosi visitatori. Una grande rivoluzione culturale, didattica e pedagogica che rifiuta l'indifferenza, la passività negativa e motiva fortemente l'allievo. Un libro, che pur essendo all'interno della premessa di quel grande movimento trasformativo quale fu il '68 italiano, andava oltre e avrà validità fino a che esisteranno sacche di povertà e selezione. Un libro che crede nell'evolversi della storia e obbliga l'educatore a usare un metodo formativo aderendo al mondo dell'allievo. il maestro " dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualcosa e così l'umanità va avanti ".
Don Lorenzo Milani fu un educatore esigentissimo. L'esperienza di Barbiana, non è ripetibile, infatti più che una scuola, lui aveva creato una comunità. Francuccio direbbe: una famiglia. Povero tra i poveri, tenne gli occhi sgranati su una realtà, all'interno della quale, visse con coerenza feroce. Tutti i suoi scritti, nel periodo in cui abitò Barbiana, nacquero per motivi pedagogici.
Nel dicembre del '60 si manifestano i sintomi del linfogranuloma e della leucemia.
Muore in casa della madre il 24 giugno 1967 all'età di 44 anni.
30 GIORNI / Giugno 2007
di Gianni Valente
DON MILANI
Il filo d’oro di Lorenzo
Storia di un curato di campagna che diceva di sé: «Delle mie idee non m’importa nulla.
Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee»
Quando nella casa fiorentina di sua madre in via Masaccio don Lorenzo Milani chiuse gli occhi per l’ultima volta, il 26 giugno di quarant’anni fa, l’anziana perpetua Eda, compagna discreta di tutta la sua vita di sacerdote, aveva già avuto istruzioni precise su come vestirlo per il suo ultimo viaggio verso il piccolo cimitero di Barbiana: i paramenti sacri per le liturgie solenni, ma ai piedi gli scarponi di montagna, lustrati dal fango e dalla polvere del monte Giovi.
Da otto lustri, sull’icona diafana di don Lorenzo, ammiratori devoti e irriducibili detrattori continuano a ritagliare altre impolverate divise d’epoca: l’utopista pacifista, il tribuno dei poveri, il castigatore delle ipocrisie clericali. Oppure, sull’altro fronte, il plagiatore di giovani, il piccolo despota giacobino, guastatore della scuola italiana, ispiratore di un classismo forsennato e miope. In un caso o nell’altro, un prete anomalo come tanti nell’Italia del dopoguerra, la cui vicenda si archivia tutta nelle controversie ecclesiastiche e politiche del tempo. Roba da reduci, da amarcord.
Eppure, dietro i fumi delle polemiche, non era difficile scorgere già allora qual era l’unico vestito che gli si attagliava. Quello che ha sempre portato. «Don Lorenzo» ha detto uno dei suoi ragazzi «non è che si mettesse la tuta d’operaio per stare vicino al popolo. Non ha mai messo tute da operaio. Ha sempre fatto il prete, e basta».
Un ribelle obbedientissimo
Già la cronista Neera Fallaci, che fu la sua prima appassionata biografa, registrava con la più scontata naturalezza: «È assai probabile che la conversione [di Milani] si sia stabilita sui sacramenti della confessione e dell’eucaristia: punto focale dello stesso suo sacerdozio». Quando, a vent’anni, dopo il liceo Berchet a Milano e un periodo passato a studiare da pittore, Lorenzo si converte e chiede di farsi prete, tutto accade in modo travolgente e impetuoso. Come raccontava il suo padre spirituale don Raffaele Bensi, «per lui il cristianesimo era una cosa nuovissima. Perché incontrare Cristo, impadronirsene, derubarlo, mangiarlo, fu tutt’uno, ecco. Fino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo». Alla madre ebrea agnostica, che manifesta tutti i suoi dubbi amari per la strada imboccata dal figlio, Lorenzo cerca di spiegare che essa non poggia su una sicurezza empia e presuntuosa, ma sulla grazia donata dai sacramenti. Scrive: «Te vuoi dire che è troppo presto per me per sapere se seguiterò tutta la vita a volere così. Io ti rispondo che è di fede (Concilio Tridentino) che nessuno può essere sicuro della propria perseveranza (eccetto naturalmente la signora Cesarina e tutte coloro che fanno la comunione per nove primi venerdì del mese). Ma ciò che non possiamo sperare dalle nostre forze lo possiamo sperare dal Signore che in fondo vuole così […]. Qui si vive di messa dal vestito che portiamo a tutti gli studi che facciamo, dal lavoro in sacrestia alle canzoni che cantiamo. […] E quando si è vissuto così non mi pare possibile che si possa rinunciare a celebrarla noi. Sarebbe come uno che ha visto il cielo e gli tocca stare in terra». Più tardi il suo sarcasmo corrosivo fulminerà anche «l’odor di moccolaia» del seminario, manifestando tutta la sua repulsione «per ogni discorsino ben fatto, per gli argomenti spirituali e “formativi”», per quel mondo «in cui le porcherie si chiamano finemente: mancanza contro la santissima purità, la vigliaccheria tiepidezza, l’odio poca carità, la bestemmia pratica un attimo di aridità spirituale». Ma la percezione di non poter vivere senza i sacramenti diventerà in lui sempre più acuta. In una sua celebre invettiva contro gli intellettuali laici borghesi, rimasta registrata su un nastro ai tempi di Barbiana, dice davanti ai suoi ragazzi: «Per me che l’ho accettata, questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso. L’assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dai peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. […] In questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo. Il più piccolo litigio che io avessi con la Chiesa, io perdo questo potere: di togliere i peccati agli altri e di farli togliere a me. E chi me lo rende questo potere? Arrigo Benedetti, oppure… Come si chiama quello là dell’Espresso… Falconi?».
Nei mille particolari raccontati dai testimoni a Neera Fallaci affiora il filo d’oro che attraversa la vita di Lorenzo, che già negli anni passati da giovane cappellano a San Donato di Calenzano non esitava a buttare fuori dalla pieve le signore abituate al chiacchiericcio dopo la messa, perché «in chiesa si andava a pregare, e basta». Quando la sua fama di piantagrane gli fa guadagnare il “trasferimento” a Barbiana, un grumo sperduto di case contadine sul monte Giovi, gli ex amici che salgono lassù a trovarlo non sono molti. Lorenzo dorme su un sacco di foglie di frumentone, ma, come nota il suo ex rettore al seminario don Giulio Lorini, «la chiesa era sempre così linda». «Un prete» raccontava l’altro suo amico don Brandani «non finiva di arrivare a Barbiana, che subito Milani gli diceva: “Vieni, vieni, adesso tu mi confessi!”». Mentre don Ermidio Corsinovi, che era il parroco di Vicchio, aggiunge di Milani che «se in una settimana scendeva in paese due volte, veniva a confessarsi due volte. Arrivava giù in archivio, e si buttava in ginocchio». E ai preti che attaccano don Lorenzo non trova di meglio da rispondere che «i ragazzi di don Milani son quelli che si confessano e si comunicano più di tutti». Alla stessa madre ebrea agnostica Lorenzo cercherà di far balenare il miracolo della confessione cristiana, «meravigliosa istituzione per cui il cristiano può vivere più sereno e ottimista degli altri: il male lo cancella con un colpo di spugna, il bene non lo cancella, anzi lo accumula». La stessa esperienza della necessità dei sacramenti ispirerà il suo atteggiamento ultimo davanti alle incomprensioni e ai provvedimenti subiti dall’autorità ecclesiastica: «Non si riuscirà a trovare in me la più piccola disubbidienza proprio perché, prima di ogni altra cosa, mi premono i sacramenti. E nessuno riuscirà a farmi disubbidire. Il primo ordine che il vescovo mi dà, se lui mi sospendesse eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee».
Un mondo che finisce
Negli anni del dopoguerra italiano, mentre l’altro grande “irregolare” Pier Paolo Pasolini coltiva il mito della vita contadina, sbirciato durante l’infanzia e l’adolescenza, Milani negli ambienti proletari e rurali in cui gli capita di vivere il suo sacerdozio registra invece, con lo sgomento del neofita, l’avvizzire della memoria cristiana e il dissiparsi del cristianesimo in abitudine borghese anche nei cuori degli operai e dei contadini. Le messe e le processioni sono ancora piene di gente, ma secondo lui anche per quelli che distrattamente affollano le chiese per le feste patronali «la religione è roba da ragazzi», «il peccato originale sull’anima fa meno male di un’infreddatura», e «lo stare in grazia di Dio non è un problema quotidiano. O meglio, non è il problema quotidiano fondamentale del cristiano». Nelle circostanze che si trova a vivere, prima a Calenzano («fame sicura, popolo comunista, industrie», come scrive in una lettera alla madre Alice) e poi tra i montanari di Barbiana, anche le sue scelte che oggi appaiono più discutibili e sguaiate nascevano come tentativi di rispondere al suo unico cruccio: «Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti». Per don Lorenzo la dottrina comunista non val nulla. È brutta. Imparagonabile con quella cristiana, che «ha portato per secoli migliaia di giovani al martirio e al chiostro, sorridenti». Ma dal suo punto d’osservazione, la peggiore sciagura è aver confermato gli operai socialisti e comunisti nel preconcetto che la Chiesa abbia fatto blocco comune coi ricchi e gli industriali.
Anche le sue talora sgangherate polemiche contro i preti della “ricreazione”, che in angosciata gara coi circoli comunisti passano il tempo a organizzare attività ludiche per attrarre i giovani, nascono dall’esperienza dei primi anni di San Donato: «Ogni poco compariva in paese qualche attrazione più grande, e allora bisognava buttarsi alla concorrenza: magline loro? Magline e scarpe noi. Tesserino in tasca loro? Tesserino e distintivo noi. Cinema, televisione, biliardo loro?…». Uno di questi preti arriverà a lamentarsi col vescovo che la battaglia è persa finché «i comunisti disporranno di campi regolamentari e noi di campi che al massimo arrivano a 70 metri di lunghezza». Sono gli anni in cui cominciano le «prove esibizionistiche dell’attivismo ecclesiastico» che solo nell’ultimo quarto di secolo hanno raggiunto il grado sommo. Ma è allora che cominciano a spuntare i preti chitarristi, cantanti, tuffatori. O quel parroco torinese che gira l’Italia organizzando sfilate di indossatrici per “cristianizzare” l’ambiente della moda. A Milani appaiono battaglie perse: «È scontato che lo svago del prete, per quanto sbrigliato, sia sempre meno divertente di quello sbrigliatissimo del mondo. O per essere più precisi, diciamo che lo svago del prete arriva a sbrigliatezze molto simili a quelle del mondo, ma con cinque anni di ritardo. […] E io dunque m’ero fatto prete per correre verso il male sulla stessa strada e un passo indietro a quel poverino di Giovanni, capo comunista del paese?». Ma in tutto questo Milani vede soprattutto il rischio di snaturare e dissipare l’unica missione che compete al prete: la cura d’anime attraverso i sacramenti. «Non si può esigere la supervisione su tutti gli aspetti della vita del nostro popolo […]. Che il prete sia l’uomo che ha avuto la missione più alta non significa che essa riassuma tutte le altre fino a potersi a tutte sostituire. Dire così non è fede nel sacerdozio, ma superbia volgare. Del sacerdote la fede ci dice solo che è latore dei sacramenti; solo per quelli è insostituibile». Il suo zelo fustigatore deraglierà nell’attaccare il conformismo meccanicistico di quelli che sgomitano per partecipare a feste tradizionali e pratiche devozionali per puro obbligo sociale. A San Donato se la prende impietosamente col suo parroco e con tutti i bravi prevosti che a ragione si guardano bene dallo spegnere i «lucignoli fumiganti», mostrando indulgenza davanti alle incoerenze dei miscredenti, pur di non spazzar via quello che resta («“un’Ave Maria la sera o sotto i bombardamenti la dicono ancora tutti”, dice lui»). Può non avere torto l’arcivescovo Ermenegildo Florit quando nel ’66 scrive al prete di Barbiana su cui imperversano veleni e polemiche: «Tu potrai magari scuotere le coscienze, ma resta vero che l’aceto converte pochi e una goccia di miele ogni tanto attirerebbe forse più anime a Dio. Papa Giovanni insegna […]. Tu, don Milani, sei per natura un assolutista, e rischi di produrre soprattutto tra i più sprovveduti di cultura e di fede dei veri classisti…». Eppure, anche le invettive più stonate sgorgano dallo spettacolo che vede, e che lo fa gridare: i preti non se ne sono ancora accorti, ma sta venendo meno la fede nel conforto ordinario della vita sacramentale, anche in tanti di quelli che pure prendono ancora parte a messe e processioni.
Insegnare agli ignoranti
La vicenda tumultuosa di don Lorenzo si fonde con quella dell’opera in cui egli rovescia tutta la sua arroventata sensibilità: la scuola popolare, tirata su prima per i figli degli operai e dei disoccupati analfabeti di Calenzano, e poi per quelli dei rozzi montanari e dei contadini di Barbiana. È facile oggi rintracciare e mettere alla gogna nella creatura tutti i difetti a essa trasmessi dalla personalità del suo fondatore: il classismo esasperato («si accettano forse i ricchi alle nostre distribuzioni gratuite di minestra? Il classismo in questo senso non è dunque una novità per la Chiesa»), l’autoritarismo («la scuola deve essere monarchica assolutista, ed è democratica solo nel fine, cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia»), l’accigliato rigorismo invasivo («noi si fa scuola dieci ore al giorno, sette giorni su sette»). Nelle aule in cui si fa scuola don Milani toglie il crocifisso, perché sia chiaro a tutti – genitori socialisti e comunisti in primis – che la “scuola del prete” non è una scuola confessionale. Ha una fiducia quasi fanatica nell’opera di emancipazione civile dell’istruzione. La sua denigrazione delle scuole di Stato è senza appello. Ma per Lorenzo non si tratta di trasformare tutti i ragazzi in soggetti antropologicamente cattolici attraverso l’educazione. Tutto si può dire di don Milani, ma gli è estraneo ogni tentativo di appiccicare la fede alla vita attraverso la cultura. Quella che lui chiama «educazione civile» si muove a livello della natura, non della grazia. Serve a far uscire i poveri e gli sfruttati dalla condizione subumana di sfruttamento in cui è relegato chi è stato espropriato anche degli strumenti minimi del linguaggio. Condizione in cui va evaporando ogni traccia della vecchia cultura contadina, irrorata di cristianesimo. Eppure, anche la foga unilaterale con cui si immerge nella sua opera ha come orizzonte ultimo la salvezza eterna delle anime dei ragazzi. «Da bestie si può diventar uomini e da uomini si può diventar santi. Ma da bestie santi d’un passo solo non si può diventare». Il suo libro Esperienze pastorali, su cui si abbatteranno le stroncature di Civiltà Cattolica e la disposizione di ritiro dal commercio comminata dal Sant’Uffizio, non è altro che un’apologia – a tratti segnata da un dogmatismo indigesto – della scuola popolare come strumento per ridestare nei «paria italiani» quel minimum di sensibilità umana senza cui ogni istruzione religiosa rischia di passare come acqua sui sassi. «Lasciatemi dunque il tempo di far le cose per benino, rifacendomi cioè dalla grammatica italiana e su su nel giro di vent’anni vi riempirò di nuovo la chiesa. Ma questa volta di uomini ardenti, preparati e coerenti. Capaci di risuscitare anche la festa del Titolare se occorrerà, ma incapaci di sdondellar campane e di ornar di lumiere un altare senza aver prima approfittato tutto l’anno del sacerdote per sgravarsi volta a volta dei loro peccati».
Al di là delle intenzioni e degli opinabili programmi, l’esaltazione della scuola popolare avviene perché è solo lì che il cuore inquieto di don Lorenzo trova indizi di conforto e di letizia. È lì che ogni giorno raccoglie tra i sui ragazzi «meteore di grazia a vagoni». Le statistiche ingenue di Esperienze pastorali sono in fondo un escamotage sociologico per mettere in rilievo che i ragazzi che frequentano la scuola sono gli unici che si comunicano e si confessano abitualmente. La scuola è «segreta fucina» di confessioni e comunioni. «Don Milani confessava tutti i giorni» racconterà Franco Gesualdi, uno dei ragazzi di Barbiana. L’educatore rigido e pieno di pretese si trasforma in un pastore discreto, che attende con pazienza le occasioni propizie quando vuole suggerire ai suoi studenti sui generis di approfittare delle pratiche della vita di grazia. Ai detrattori che lo criticano perché non costringe i suoi ragazzi ad ascoltare i predicatori forestieri che vengono in parrocchia nei tempi forti dell’anno liturgico, risponde che «non si accorgono che quei medesimi giovani vivono in Grazia di Dio sotto il loro stesso tetto e senza far pesare agli altri la loro giovane fede». A chi stigmatizza che nei suoi programmi fuori registro l’insegnamento religioso è poca cosa, risponde che non si diventa più cristiani moltiplicando chiacchiere sulla religione: «Dopotutto, l’istruzione religiosa che serve per vivere da buon cristiano è poca cosa».
La fredda cronaca dei Vangeli
Nelle lezioni di Milani i racconti del Vangelo entrano come un particolare della stessa realtà concreta di cui fanno parte i contratti di lavoro degli operai tessili di Calenzano o le lezioni di botanica. Concentra il suo insegnamento catechistico sul racconto storico della vita di Gesù, utilizzando la sinossi dei Vangeli del Lagrange e le carte storiche della Palestina. Anche le sue omelie a messa sono tutte costruite sugli episodi della vita di Gesù.
Una delle sue famose lettere esprime in maniera singolare questa sua attitudine verso Gesù. Il prete ventinovenne aveva scritto al regista francese Maurice Cloche, già autore del film Monsieur Vincent dedicato alla vita di san Vincenzo de’ Paoli, per suggerirgli di cimentarsi in una nuova pellicola incentrata sui racconti evangelici. Il regista aveva rilanciato, chiedendo a Milani di aiutarlo a stendere la sceneggiatura. Nella replica datata 15 febbraio 1952, don Lorenzo lo invita ad attenersi alla natura storica del fatto cristiano: «Per commentare il Vangelo non c’è poesia più alta che la scrupolosa ricerca scientifica del vero significato di ogni parola e atto del Signore… Faccia dunque un film che abbia l’austerità di un documentario scientifico […]. Guardi la crocifissione! I quattro evangelisti ci dedicano un mezzo versetto appena. Non una parola d’indignazione, d’amore, di pietà, di fede. E ciò nonostante, è la loro fredda cronaca che da duemila anni incendia il mondo». Poi, Milani introduce quasi en passant una considerazione lucida e penetrante sul cristianesimo moderno: «È strano, ma oggi è più facile che si creda Gesù Dio che Gesù uomo. Il film dovrà far capire a fondo che cosa significa in concreto “la Parola si è fatta carne”». Per sottrarre l’opera alla deriva spiritualista dominante, Milani suggerisce anche di girare il film nella terra stessa di Gesù: «Andare a fotografare dal vero la fame che tormenta oggi la Palestina ci darà il più giusto sfondo della vita del Signore. Un popolo di schiavi, folle senza pace, bambini rachitici… Il disoccupato e l’operaio d’oggi dovranno uscire dal cinema con la certezza che Gesù è vissuto in un mondo triste come il loro, che ha come loro sentito che l’ingiustizia sociale è una bestemmia». Poi, per far capire come il film dovrà far emergere l’umanità ordinaria di Gesù, il prete improvvisato cineasta si azzarda a tratteggiare alcuni bozzetti di sceneggiatura: «Suggerisco le scene seguenti: Gesù ragazzo a scuola. Dieci o venti ragazzi seduti per terra. Lo spettatore sa che uno di loro è Lui, ma non sa quale. La stessa scena sul Giordano. Il Battista punta il dito sulla folla: “Ecce Agnus Dei”… Anche l’obiettivo inquadra quel punto: nove o dieci visi di giovani pellegrini sorpresi. Quale sarà Lui? Non si sa, uno qualunque di loro, non ha importanza, ciò che ci interessa è che nel gruppo indicato dal Battista non si vede nulla di speciale. Gesù è là, ma è talmente uomo che non si può riconoscerlo fra gli altri».
Questo, secondo Milani, sarebbe stato il risultato più prezioso a cui puntare: «Impedire che il film dia l’impressione che questo invisibile Gesù abbia una carne diversa da quella degli altri personaggi».
AVVENIRE - 26 Agosto 2009
Don Milani e il genio femminile
Parlare del rapporto tra un uomo e le donne non è facile. Se poi l’uomo è un prete, le difficoltà aumentano. E se il reverendo si chiama don Lorenzo Milani, è come ritrovarsi in un tabù elevato al cubo. Perché su questo argomento, per quanto riguarda il sacerdote fiorentino si va davvero a tentoni: così scarsi risultano gli appigli biografici che qualcuno parlò nel suo caso di «misoginia» (l’accusa postuma è stata inopinatamente avanzata dalle cattoliche "di sinistra" Adriana Zarri e Lidia Menapace). Ma è una colpa se la prudenza del celibe don Milani era tale che, per esempio, non permetteva alle donne di dormire a Barbiana – così come agli allievi di entrare nella sua camera da letto? È rimasto celebre del resto il colloquio che, giovane vicario, tenne con una vedova che stava aiutando coi suoi ragazzi: lei alla finestra, lui in strada alla vista di tutti; e non per una sorta d’autotutela piccoloborghese, bensì per evitare ogni diceria che avrebbe potuto nuocere anzitutto alla donna.
Bisogna tuttavia ammettere che l’argomento «don Milani e le donne» non appaga soltanto la voglia di scoop dei soliti giornalisti, ovvero una curiosità pruriginosa intorno alla sessualità di colui che è ormai un vero mito moderno, oltreché un prete; si tratta invece d’un tema che molti particolari – dal fortissimo rapporto con la madre, testimoniato in lettere quasi quotidiane, al legame altrettanto forte con gli alunni («Ho amato più voi che Dio», dirà il sacerdote in punto di morte) – indicano come meritevole di analisi seria, approfondita, equilibrata.
Un buon apporto lo fornisce ora Rolando Perri – nella vita preside di un istituto tecnico, ma studioso milaniano di lunga navigazione – con Presenze femminili nella vita di don Lorenzo Milani. Tra misoginia e femminismo ante litteram (Società Editrice Fiorentina, pp. 132, euro 14). Il merito del libretto è anzitutto quello di mettere in luce l’esistenza di una folla femminile intorno al Priore, ridimensionandone alquanto una interpretazione individualistica e/o maschilista. In effetti, don Milani non si capisce senza il contorno di donne magari silenziose e poco appariscenti, ma comunque quotidiane e «importanti».
Una su tutte – ma è anche finora la più nota – «la Eda»: ovvero Eda Pelagatti, colei che conobbe don Lorenzo giovane prete alla sua prima destinazione e poi decise di seguirlo fino alla morte, per 13 anni di lavoro duro e preziosissimo a Barbiana. Giustamente Perri la chiama «sorella in terra e non perpetua», perché lo stesso sacerdote – pur tanto diverso per origine e cultura – ne riconobbe sia con l’affetto, sia con i fatti il ruolo insostituibile: «Verso l’Eda ho solo debiti e nessun credito», scrisse nel testamento impegnando moralmente i suoi ragazzi a un vitalizio nei confronti della anziana donna.
Tralasciando il rapporto con la madre Alice, già più volte indagato (il volume peraltro segnala pure i contrasti e non solo il forte legame tra i due), merita segnalare altre figure parentali femminili meno note al pubblico: la zia materna Silvia Just, ad esempio, ricca e colta, che tenne il luogo della sorella agnostica nell’appoggiare le scelte religiose del nipote; il quale peraltro le si rivolge con una confidenza addirittura meno «razionale» di quella usata con la madre. Oppure la balia Carola Galastri, che non fu un riferimento soltanto temporaneo, e la «nonna» Giulia Lastrucci (in realtà era la mamma della Eda e visse in canonica fino alla morte, avvenuta nel 1961).
Delle collaboratrici più colte del Priore, invece, il primo riferimento obbligato è ad Adele Corradi: docente delle medie che collaborò alla scuola di Milani tanto da farsi trasferire in una sede più vicina a Barbiana; sul letto di morte don Milani (era appena stata stampata la sua Lettera) la definì «una professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene». Meno noti gli influssi su don Lorenzo di Fioretta Mazzei, "segretaria" di Giorgio La Pira ma di suo eminente personalità del cattolicesimo fiorentino, che già nel 1961 invitò il sacerdote a parlare a un convegno nazionale dei direttori didattici, permettendo alla sua particolare pedagogia di farsi conoscere. Collaboratrici materiali preziose ma più estemporanee furono le milanesi Francesca Pellizzi Ichino e Elena Brambilla Pirelli; entrambe di famiglie alto-borghesi e cattoliche impegnate (la seconda negli anni tra Cinquanta e Sessanta fu riferimento imprescindibile per don Zeno di Nomadelfia e padre Turoldo), le due sostennero alcune iniziative del prete toscano attraverso un «mecenatismo sui generis e tutto al femminile».
In base a tali relazioni, ma anche considerando alcuni scritti del Priore in difesa della dignità della donna (dai giudizi in Esperienze pastorali alla condanna del ballo come strumento di asservimento culturale), Rolando Perri si spinge a teorizzare addirittura un «femminismo ante litteram» di don Milani: «La vita del sacerdote, dell’educatore e dell’uomo Milani si trova al centro di un mosaico, le cui tessere sono tutte o in prevalenza al genere femminile. Appare singolare che un religioso abbia fatto della collaborazione, della vicinanza, della comunanza e dell’affinità elettiva con non poche donne, la condizione essenziale per progettare e realizzare un disegno di vita tutto basato sull’alterità e non inclinato all’egoismo».
Forse una conclusione del genere è un po’ precipitata, ma certo l’argomento merita ulteriori approfondimenti. Ovviamente anche sul lato affettivo, coinvolgendo cioè lo studio del rapporto tra don Milani e la sua giovanile fidanzata, la milanese Carla Sborgi: una relazione intorno alla quale le «rivelazioni» hanno una certa ricorrenza e che ciò nonostante è tutt’altro che facile da analizzare. Una dozzina d’anni or sono Michele Ranchetti, storico della Chiesa e psicoanalista nonché amico giovanile sia di Milani che della Sborgi (defunta nel 1993), dava testimonianza in un libro della ferita che la donna diceva di aver conservato profonda dell’«abbandono» subìto da Lorenzo al momento di entrare in seminario.
Fu per la consapevolezza di quel procurato dolore e – forse – per lenirne le conseguenze che don Milani, pochi mesi prima della morte, volle riallacciare i rapporti con la donna, fino al punto da invitarla al suo capezzale e presentarla ai suoi ragazzi? Chissà. Di fatto, uno dei presenti ai funerali del sacerdote notò Carla Sborgi «proprio dietro» il carro funebre. Esattamente come s’addice a una delle misteriose, nascoste ma fondamentali «donne di don Milani».
Roberto Beretta
VATICAN INSIDER - 02/07/2014
giovanni gennari
Don Milani, Barbiana e la sua Scuola
In un volume curato da Gesualdi e Giorgi immagini dall’archivio della Fondazione dedicata al prete-insegnante-educatore-scrittore
Giugno 2014. Sono passati 47 anni – tre in più della lunghezza della sua vita intera – dalla sua morte allora apparentemente isolata, sia nel mondo che nella sua Chiesa – come cancellata dalla memoria di quasi tutti, ma don Lorenzo Milani (1923-1967) è più vivo che mai, come una nuova vita.
Le sue intuizioni sulla libertà di parola anche all’interno della obbedienza alla Chiesa, sulla necessità della liberazione dei poveri tali perché in possesso di poche “parole” rispetto a quelli ritenuti ricchi perché privilegiati, trovano riscontri sempre nuovi.
È stato autorevolmente ricordato, di recente, che non solo Lui non ha mai disonorato la sua Chiesa, ma che anch’essa, pur nei momenti del contrasto più duro per incomprensioni del suo vescovo, abissalmente lontano da Lui per cultura e modo di vivere nella Chiesa, e anche di molti ambienti cattolici, non ha mai negato di essere la sua Chiesa… Qui di recente ho documentato che già dieci anni dopo la sua morte, il 25 e 26 giugno 1977 Avvenire uscì con due pagine di elogio alla sua testimonianza di fede e di libertà cristiana e precisamente “cattolica”, da prete fino in fondo, anche come “maestro” originalmente inventore di una “scuola” dalle caratteristiche moderne e anticipatrici di mete che non si sono ancora raggiunte… Il tutto, già allora, con una coincidenza casuale, ma ricca di mistero, sulla stessa pagina dello stesso giornale dello stesso giorno: come una piccola rivincita curata dalla Provvidenza, che è capace anche di “giustizia” fin da questa parte della realtà…
Dunque sono arrivati nel corso degli anni libri, ricordi, commemorazioni, pagine di giornale. Oggi un aspetto particolare: l’arrivo di papa Francesco pare aver riportato in uso linguaggio di chiarezza, capacità di chiamare le cose con il loro nome, scelta degli ultimi e dei poveri come opzione fondamentale richiesta dal Vangelo, e non da mode ideologiche magari un tempo, anche solo apparentemente, vicine… E don Lorenzo aveva questo “registro” nella sua intera esperienza…
C’è altro di nuovo, oggi? Sì, e di grandissimo livello: cronaca viva, storia di una esperienza, lezione di professionalità, valore di memoria e di contagio liberatore e di forza espressiva. Ho tra le mani “Barbiana e la sua Scuola. Immagini dall’archivio della Fondazione Don Lorenzo Milani”, volume curato da Sandra Gesualdi e Pamela Giorgi, edizioni Aska, pagine 176. Libro da sfogliare, leggere, guardare con l’attenzione sui particolari, dai quali escono come in fila per uno le foto più belle, insieme intime e provocatoriamente pubbliche, di don Lorenzo uomo, prete, maestro di parole e di vita, innamorato di Dio e perciò anche degli ultimi, i suoi ragazzi che sono attorno a Lui come i pulcini avidi attorno alla chioccia. L’immagine non meravigli: l’ha usata anche Gesù “Maestro” per indicare il suo amore per gli uomini (Mt. 23, 37).
Difficile scegliere le immagini scrivendo, e non potendo a mia volta fotografare le… foto, ma vale la pena di cogliere, pagina dopo pagina, alcune parole di don Lorenzo, che come didascalie accompagnano le immagini cariche di forza e di evocazione del maestro, ma anche di un’epoca, di un’Italia che fu e che non è più non solo negli aspetti negativi, ma anche in alcuni del tutto positivi: la voglia dei ragazzi di apprendere la vita intera da quella “scuola” del tutto speciale, l’amore del “maestro” che si spende tutto per loro, ogni giorno, ogni ora, e chiede scusa persino a Dio se pare amare loro – i suoi “alunni” figli di fatiche e anche di dolori e di incomprensioni – più di quanto paia a molti che Egli ami Dio stesso…
Ecco allora alcune perle di Don Lorenzo che nel libro accompagnano le bellissime fotografie, ciascuna un gioiello doppio: difficile non scoprire in esse scintille non solo di acume psicologico e sociologico, ma anche di spirito evangelico e radicalmente cristologico…
“Non penso che al Giudizio la mia scuola mi verrà iscritta dalla parte dei meriti, ma son convinto invece che essa mi verrà iscritta dalla parte delle opere che hanno già avuto il loro premio. Immense gioie, amicizie, affetti duraturi. E anche se ogni giorno posso constatare coi miei occhi di uomo che i miei allievi hanno acquistato immensi beni proprio nel campo religioso, non posso esimermi neanche per un attimo da un senso di colpa per non saper compiere l’unico atto che considererei essenzialmente e indiscutibilmente religioso, e cioè la rinuncia alla scuola e il ritiro nella preghiera” (Da una lettera a Don Divo Barsotti, Barbiana, 17 settembre 1958).
“Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente. È razzismo anche questo”. (Dalla “Lettera a una professoressa”).
“I ragazzi qui studiano e pensano. Ma anche io studio e penso con loro (…) Normalmente arriviamo alla verità insieme. Quando rimane qualche divergenza, il bene che ci vogliamo ci aiuta a risolverla e a convivere senza tragedie. Perché questo bene è fatto di rispetto reciproco” (Da “Lettera a un amico”, Natale 1965).
“La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde” (Da “Lettera a una professoressa”).
“I giorni di scuola sono 365 l’anno, 366 negli anni bisestili. La domenica si distingue dagli altri giorni solo perché prendiamo messa” (Lettera dei ragazzi di Barbiana ai ragazzi di Piadena).
Metto per ultima, e per ultima è anche nel libro, a pagina 174, questa citazione, dove si vede come a dicembre del 1958, anno del passaggio da Pio XII a Giovanni XXIII e prima dell’annuncio della convocazione del Concilio, don Lorenzo declinava un linguaggio evangelico, alla radice strettamente cristologico e moderno, per nulla esclusivo e clericale, che oggi appare spesso anche nelle “parole del mattino”, e non solo, di Jorge Mario Bergoglio. Qualcuno – a cominciare da Giovanni Battista, vero? – può essere per gli altri un anticipo dei tempi futuri. Ecco la perla conclusiva del libro:
“Egli ci ha detto: ‘Andate e evangelizzate’ Non ha detto “andate e convertite’ Io non credo che nel mio libro (ovviamente parla di “Esperienze Pastorali”, che come noto ebbe accoglienza piuttosto travagliata, Ndr) mi sia scappato detto che possiedo la chiave della conversione del mio popolo. Della conversione del mio popolo non mi do invece nessun pensiero, è cosa di Dio e della libertà dei singoli e sulla quale non possiamo in nessun modo influire”.
Difficile, leggendo, pensare che Francesco abbia del tutto ignorato la vita e la lezione di don Lorenzo Milani… Se fosse così si dovrà pensare che “la colpa” è del modello, a scelta: da san Paolo in poi, tutta la schiera dei Santi veri….
“Barbiana e la sua Scuola. Immagini dall’archivio della Fondazione Don Lorenzo Milani”, a cura di Sandra Gesualdi e Pamela Giorgi, Aska, pagine 190, 2 euro.
VATICAN INSIDER - 18/06/2017
iacopo scaramuzzi
Don Milani, retroscena di un processo
Lo storico della Chiesa Sergio Tanzarella ha consultato gli atti processuali per ricostruire la vicenda della “Lettera ai cappellani militari”, un testo che rischia di essere più citato che letto
«Nel caso migliore c’è totale ignoranza, si parla di don Milani senza averlo letto, fino ad attribuirgli frasi che non ha mai pronunciato… Nel caso peggiore si tenta di normalizzare un personaggio così poco accettabile dai benpensanti del passato e del presente». Sergio Tanzarella è storico della Chiesa, ordinario presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e professore invitato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, ed ha consultato gli atti processuali per ricostruire la vicenda della “Lettera ai cappellani militari” di don Lorenzo Milani (1923-1967), uno dei testi più citati del sacerdote sulla cui tomba si recherà Papa Francesco martedì prossimo 20 giugno, a Barbiana.
La storia è lontana nel tempo. Nel febbraio del 1965 i cappellani militari in congedo della Toscana emanano un comunicato stampa accusando i giovani italiani obiettori di coscienza di essere dei vili. In loro difesa interviene don Lorenzo Milani con una riposta pubblica a quegli stessi cappellani nella quale chiede rispetto per chi accetta il carcere a causa dell’ideale della nonviolenza. La lettera viene volantinata tra comunità, associazioni e giornali ma a pubblicarla sarà soltanto il settimanale “Rinascita”, il 6 marzo 1965. Dieci giorni dopo, don Milani – assieme a Luca Pavolini, allora direttore del periodico comunista – viene denunciato da sei ex combattenti per incitamento alla diserzione e vilipendio alle Forze armate. Nell’impossibilità di partecipare al processo per l’aggravarsi del tumore che lo porterà, di lì a poco, alla morte, Milani scriverà una memoria difensiva, per certi versi ancora più sferzante della sua risposta ai cappellani, che invierà sotto forma di “Lettera ai giudici al Tribunale di Roma” il 18 ottobre 1965. Questa volta l’obiezione è lo spunto per un discorso più ampio, che diventa tributo altissimo all’impegno civile individuale, all’«I care» - il «mi importa» scritto sui muri della scuola di Barbiana – in antitesi al «me ne frego» fascista.
Il 15 febbraio 1966 don Milani è assolto «perché il fatto non costituisce reato». I giudici nella sentenza sottolineano il vuoto legislativo sull’obiezione. A seguito del ricorso dell’accusa, due anni dopo, il verdetto verrà ribaltato: cinque mesi a Pavolini, per don Milani, deceduto il 26 giugno 1967, il «reato (è) estinto per morte del reo». Pavolini sarà assolto nel 1969 dalla Cassazione in forza di un’amnistia del 1966 che cancellava il reato contestato per i giornalisti la cui testate era registrata, amnistia della quale i magistrati del grado inferiore non si erano accorti…
Il professor Tanzarella, ha mandato alle stampe per i tipi del Pozzo di Giacobbe edizioni, collana “Il pellicano”, una edizione critica di “Lettera ai cappellani militari e Lettera ai giudici» che inquadra storicamente le vicende e svela il retroscena di un passaggio nodale nella storia recente dell’Italia, in quei primi anni ’60 del Novecento segnati dalla crisi di Cuba, dal dirompente pontificato di Giovanni XXXIII, dalla fine del Concilio Vaticano II, dalla guerra in Vietnam, dall’insorgere dei movimenti pacifisti. Una ricostruzione fatta a partire dalla consultazione degli atti processuali.
«In realtà», racconta Tanzarella, che insieme a Anna Carfora, anch’essa docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale dei gesuiti, Federico Ruozzi e Valentina Oldano ha curato anche l’opera omnia di Don Milani per i Meridiani Mondadori diretta da Alberto Melloni, «ho avuto accesso agli atti del processo come qualsiasi cittadino che fa richiesta. Si è scritto molto su don Milani, centinaia di libri e migliaia di articoli, ma mi sono accorto di essere stata la quarta persona che ha preso visione degli atti del processo, dopo uno studente di dottorato, un magistrato e un altro studioso». Consultare il dossier – «un fascicolo non particolarmente grande» – ha permesso allo storico di scavare nella vicenda del processo, scoprendo dettagli e episodi che restituiscono tutto il peso della vicenda. Dalle carte, ad esempio, «emergono le contestazioni fatte dal pubblico ministero, le annotazioni che i magistrati fanno sui due documenti, la sottolineature di frasi di don Milani che considerano apologia di reato».
Il professore evidenzia infatti che «quello che molti dimenticano è che uno dei pilastri delle due lettere era una rilettura della storia nazionale, dall’unità d’Italia alla sua epoca, per mettere in luce che tutte le guerre erano state inutili e ingiuste, fatta eccezione per la guerra della resistenza. Si tratta di un vero e proprio excursus sugli ultimi cento anni di storia patria, densa di conflitti, colonialismo spietato e sistematica sopraffazione verso i ceti più deboli, un excursus scevro di qualunque retorica celebrativa. Che, oggi, non dovrebbe lasciare indifferente chi esalta don Milani e poi continua a partecipare non curante alla messa in scena del 2 giugno».
Per Tanzarella, «un altro elemento importante sono i certificati medici che vengono richiesti a don Milani, le indagini fatte per verificare se effettivamente era impedito, le risposte dei carabinieri che scrivono al Tribunale che il sacerdote non si alza più dal letto e non riesce a dire più messa». Atti dovuti, per un Tribunale, che però fanno intravedere una diffidenza di fondo nei confronti di un uomo che, invece, è «in lunga agonia, sottoposto a chemioterapie che gli lasciavano forti danni, sofferenze continue, notti insonne, una tosse incontrollabile, problemi neurologici seri, difficoltà alle gambe, eppure trattato da alcuni come se fosse un intellettuale che comodamente scriveva i suoi testi seduto alla scrivania».
«In quell’epoca, per dire, la madre gli chiede insistentemente di tornare a Firenze e farsi curare e lui è refrattario e rimane nella prima linea di Barbiana e continua a fare lezione dal letto». Peraltro, sottolinea ancora lo storico, «è interessante l’atteggiamento di Milani, come emerge da alcune lettere che invia ad Aldo Capitini: egli raccomanda di non far venire fuori la lettera ai giudici prima della data dell’udienza, perché, spiega, i giudici devono rimanere liberi. Don Milani chiede ai suoi sostenitori di essere semmai pronti a contestare la sentenza ma solo dopo che è stata pronunciata, non prima, perché, spiega, i giudici devono rimanere liberi dai condizionamenti dell’opinione pubblica».
Un altro elemento che emerge dalle carte, prosegue Tanzarella, «è il lavoro di don Milani a partire dall’estate del ’65, quando si convince sempre di più che sarà chiesto il rinvio a giudizio, poi confermato a luglio. Per la stesura della “Lettera ai giudici” il sacerdote consulta molte persone, anche figure di rilievo come Aldo Capitini e il professore Giorgio Peyrot, responsabile dell’ufficio legale della Tavola valdese a Roma, massimo esperto all’epoca dell’obiezione di coscienza. Quest’ultimo, come ho ricostruito da documenti che ho trovato negli archivi della stessa Tavola valdese, va a Barbiana e ha con Milani un lungo colloquio nella fase finale di stesura della lettera, episodio che mostra il sostegno che a don Milani arriva dal mondo protestante».
Allegate alla memoria difensiva, ancora, ci sono «alcune lettere inviate a sostengo della denuncia fatta contro don Milani , ad esempio una lettera di alti ufficiali e soldati. Questo significa che il fenomeno si allarga, e, letto insieme alle decine di lettere anonime, alle lettere di condanna, in qualche caso anche di minaccia, crea un po’ di preoccupazione in Milani e nei suoi amici. Preoccupazione anche che Barbiana venisse isolata. “Ti verremo a prendere”, “farai la stessa fine dei tuoi compagni”, sono alcune delle minacce contenute nelle lettere anonime, che danno l’idea del clima pesante». Il professor Tanzarella precisa, peraltro, che arrivano anche «numerose lettere di cattolici che danno sostegno a don Milani dopo la pubblicazione della lettera ai giudici: i tempi stanno cambiando, si è concluso il Concilio, e diversi cattolici da tutta Italia, anche alcuni preti, gli scrivono per sostenerlo».
Quel che emerge dalla ricostruzione storica e critica della sua figura e della sua opera è che don Milani è spesso più citato di quanto viene letto, elogiato senza che agli elogi seguano le logiche conseguenze. «Nel caso migliore», chiosa il professor Tanzarella, «c’è totale ignoranza, si parla di Milani senza le fonti, senza averlo letto, fino ad arrivare invenzione…». Lo storico cita l’esempio di quando una frase di don Primo Mazzolari – l’altro sacerdote che Papa Bergoglio martedì commemorerà, a Bozzolo (Mantova) prima di continuare per Barbiana – «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?», è stata attribuita a don Milani dapprima da Roberto Saviano, e poi, a cascata, da case editrici, giornalisti, anche cardinali, fino ad essere pronunciata, sempre attribuita a don Milani, da Massimo Cacciari ai funerali di don Luigi Verzè…
L’altro fenomeno, oltre all’ignoranza, è quello della «normalizzazione», non solo all’interno delle comunità ecclesiali, afferma Tanzarella: «È evidente che il personaggio è così poco accettabile dai benpensanti del passato e del presente che a volte si tenta di addomesticarlo, fino a dimenticarne le parole… un riduttivismo dove Milani diventa pedagogista, oppure si parla del “metodo di Milani”, quando egli stesso ha detto: “Non chiedetemi che cosa bisogna fare, ma come bisogna essere per fare quello che faccio io”».
Un personaggio, don Milani, a lungo incompreso, che ora Papa Francesco di fatto riabilita con il suo viaggio a Barbiana. Evento che il professor Tanzarella spera che avrà conseguenze anche il giorno dopo il viaggio: «Sarebbe bello che, a distanza di 50 anni, “Esperienze pastorali” (il testo del 1958 di don Milani che il Sant’Uffizio fece ritirare dal commercio giudicandolo inopportuno, ndr) venga messo nelle mani dei seminaristi».
IL LIBRO "ESPERIENZE PASTORALI"
Per capire il senso profetico di "esperienze pastorali", bisogna tenere conto della provenienza dell'autore. Senza esperienze religiose nell'infanzia, don Lorenzo Milani, era entrato subito in seminario, passando dall'agnosticismo più totale alla vita sacerdotale.
Il clima interno alla diocesi fiorentina, pensiamo solo a don Facibeni, al Bensi e a La Pira, consentivano di non allinearsi. Il comportamento inconsueto e il loro rigore, anche formale, gli fece accettare subito le dure regole della vita sacerdotale, esprimendo una vocazione particolare. L'acutezza, con cui individuava le linee di tendenza, nelle mode e nella cultura, gli consentirà di godere il privilegio della preveggenza e gli farà assumere un linguaggio diverso dall'usuale. La cartina della Palestina collocata sul muro della Chiesa, per dar valenza storica al messaggio evangelico attraverso il normale insegnamento, era molto più che la Messa in italiano. Giudicato come rivoluzionario, nel senso tradizionale e d'incerta dottrina, il suo libro "esperienze pastorali", edito nel '58, tratta della "pastorale" del cappellano di S. Donato:
la più originale e significativa esperienza religiosa di questo secolo, in Occidente.
Non è possibile, per chiunque, oggi, studi pastorale e teologia morale, prescindere da questo libro e dai metodi utilizzati. Infatti, non volendo accettare acriticamente verità precostituite, don Lorenzo Milani, imposta l'analisi conoscitiva delle cause che determinano il distacco della Chiesa istituzionale dai credenti, attraverso un metodo scientifico che produrrà le statistiche inquietanti che conosciamo. "esperienze pastorali" costituirà un'originalissima ricerca sociologica.
Per prevenire critiche e attacchi previsti cercò una prefazione "autorevole". Dapprima pensò a monsignor Montini ma poi finì per preferire monsignor Giuseppe D'Avack, arcivescovo di Camerino, lo scrive a Gianni Meucci il 12.12.56, un anno e mezzo prima che il libro venisse dato alla stampa:
(....) ieri ho consegnato il libro a don Bensi perché lo desse a La Pira perché La Pira ci aggiungesse una lettera di accompagnamento e lo mandasse al vescovo di Camerino per chiedergli possibilmente due righe di prefazione oppure almeno la permissione ecclesiastica per stamparlo a Camerino (edizione Fiorentina tipografia Camerino).
Questa complicata manovra è quella che mi avete consigliato te e padre David e che io ho modificato solo nel senso di affidarmi a don Bensi di cui stimo molto il giudizio, l'esperienza e la conoscenza dei miei personali problemi in rapporto alla curia fiorentina."
Dopo il rumore provocato dalla stampa, nonostante il "nibil obstat" del revisore ecclesiastico, padre Reginaldo Santilli, l'imprimatur del cardinale Dalla Costa e la prefazione dell'arcivescovo di Camerino, "Esperienze pastorali" sarà ritirato dal commercio il 18 dicembre del 1958 perché dichiarato "inopportuno" con decreto del Santo Offizio. La Civiltà cattolica, con l'articolo di p. Perego, stroncò Esperienze pastorali. La nota de "L'Osservatore Romano" motiva tale decisione dicendo che "nella concessione dell'approvazione ecclesiastica è intervenuta una serie di equivoci, ai quali è completamente estranea l'autorità diocesana" e che considerate le "severe critiche della migliore stampa cattolica" e i consensi "accordati da certa stampa comunista" conveniva ritirare il libro. L'estraneità dell'autorità diocesana, dopo che l'ortodossia del libro era stata sottoposta al vaglio di ben due vescovi e di un revisore ecclesiastico è alquanto assurda. I giornali e i periodici cattolici favorevoli furono numerosi: "L'Italia", "L'Avvenire d'Italia", "Il Popolo", "I1 Giornale del Mattino" "I1 focolare" di don Facibeni, "Adesso" di don Mazzolari, "Politica" di Pistelli, "La SS. Annunziata" di padre Turoldo, "Questitalia" di Dorigo, e altri ancora. Don Lorenzo vive i suoi attimi di entusiasmo e solidarietà sacerdotale:
"Dopo avermi lasciato dedicare un numero intero del suo meraviglioso giornaletto ("Il focolare", 1 giugno 1958 con recensione tutta favorevole di don Rosadoni) e dopo aver detto a uno dei suoi collaboratori che voleva recensirmi anche di suo pugno ("Padre, si comprometterà". "Si e compromesso il cardinale, posso compromettermi io", rispose col suo riso sereno e felice), è morto il giorno dopo lasciando il mio libro aperto sul tavolo di lavoro".
Con poco entusiasmo, "povere voci", e molto realismo, don Primo Mazzolari scrive invece:
"Non mancheranno i lettori scandalizzati, reclutabili facilmente tra quelli che non hanno mai fatto cura di anime e tra quelli che di solito giudicano senza leggere o con le consuete pregiudiziali verso coloro che osano scrivere senza un titolo accademico. In genere, gli scritti dei parroci rurali fanno paura per la loro poco educazione nel dire le cose che vedono. Però, se qualche volta quel mondo poco commendevole della cosiddetta cultura pastorale cattolica badasse anche a queste povere voci, forse il problema della "cura d'anime nel mondo moderno" avrebbe camminato un po' più verso qualche soluzione meno inconsistente e balorda".
Don Lorenzo, a S. Donato di Calenzano, si trovò dinnanzi agli occhi un campione "privilegiato" per comprendere la grande tragedia storica della Chiesa cattolica che rischiava di rimanere culturalmente e sociologicamente tagliata fuori dai ritmi di una civiltà industriale. Era un campione che esprimeva bene i mutamenti etico-culturali degli anni '50. In collaborazione con contadini, disoccupati, giovani tessitori, casalinghe, muratori e zitelle, dirà parlando della religiosità trovata:
"... una religione così non vale quanto la piega dei pantaloni"
Gli episodi rigorosamente storici, le statistiche e i grafici prodotti, faranno dichiarare a monsignor D'Avack: " ... le conclusioni sono d'accordo col vero spirito della Chiesa ... ".
Sarà un punto di vista completamente innovativo rispetto alla pastorale tradizionale. Un'autocritica sugli atteggiamenti, i metodi, le cause che hanno impedito al prete di essere con il suo popolo. Parla della storia della parrocchia,dei metodi catechistici, dei Sacramenti, della frequenza nel riceverli, e della terapia (i brani sono tratti da "esperienze pastorali"):
La processione:
" Passa il Signore. Serenata di fiori, veli bianchi, festa di paese. Trionfo della fede? "
" Ma il gruppo d'uomini che segue il signore non è la parrocchia, è solo una chiesuola senza peso. La parrocchia si gode lo spettacolo e si tiene a dovuta distanza.
Proposto: Perdonali perché non sono qui con te.
Cappellano: Perdonaci perché non siamo là con loro ".
Fede e Sacramenti
" Tentiamo di riassumere ora il quadro delle idee base sulla religione che può farsi un nostro ragazzo non appena cominci a sgranare gli occhi sulla vita dei suoi genitori, dei vicini di casa della chiesa parrocchiale.
La religione è roba da ragazzi; la religione è roba da donne; il peccato originale sull'anima fa meno male d'una infreddatura; la Confessione serve per fare la Comunione; lo stare in grazia di Dio non è dunque un problema quotidiano; o meglio: non è il problema quotidiano fondamentale del cristiano; la Comunione non è un dono, ma un obbligo; la Comunione serve per celebrare le feste; la Presenza del Salvatore nell'Eucaristia non è dunque reale, se no nessuno aspetterebbe le feste per assicurarsi coll'Eucaristia la salvezza; la religione è solo adempimento di rito e non importa con se impegni di vita o di ideologia; la religione è nel suo complesso fatto di insignificante portata: non vale quanto la piega dei pantaloni, quanto una buona dormita, quanto l'opinione degli altri su di noi, quanto il denaro o il divertimento; l 'Olio Santo è un Sacramento spaventoso, il buon figliolo cura che i genitori non s'accorgano di riceverlo... Il rimedio è semplicissimo perché il ragionamento che abbiamo fatto fila. Basta dunque prender a petto questi uomini e dir loro queste cose. Non potranno che riconoscere l'illogicità del loro modo d'esser cristiani e decidersi a una scelta coraggiosa e coerente... Qui ricorderemo due rimedi provvisori e che si riferiscono più direttamente all'argomento del presente capitolo.
1. - Risanare con due o tre energici tagli ciò che è catechisticamente negativo nelle funzioni tradizionali (feste, processioni, ecc.). Su ciò che è catechismo positivo (prediche, catechismi, ecc.) non abbiamo riforme da proporre perché consideriamo tutto inutile finché perdura questo stato di inferiorità culturale negli uditori.
2. - Di fronte all'eccesso di esteriorità e collettivismo che caratterizza le attuali usanze parrocchiali, insistere provvisoriamente sull'aspetto interiore e personale della religione. A tesi estrema, antitesi estrema".
La ricreazione
Anno scolastico 1952-53, dopo aver "superato ogni interiore esitazione: la scuola è il bene della classe operaia, la ricreazione è la rovina della classe operaia. Con le buone o con le cattive bisogna dunque che tutti i giovani operai capiscano questo contrasto e si schierino dalla parte giusta".
" Mi perdoni dunque il lettore se non sono più capace di tornare indietro e se mi sono preclusa così anche la possibilità di formarmi un giudizio sereno sulla ricreazione "
L'istruzione civile
L'ignoranza impedisce la formazione religiosa del cristiano. Di qui la celebre scelta di don Milani:
" ... mi pare di poter dire che la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né meno di quel che non lo sia la parola per i missionari dell'Istituto Gualandi (istituto di sordomuti - n.d.r.) o la lingua per i missionari in Cina. Domani invece, quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un rettorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d'interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti. Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi e preclusa dall'abisso di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nel far scuola "." Non è esagerazione sostenere che l'operaio d'oggi col suo diploma di quinta elementare è in stato di maggior minorazione sociale che non il bracciante analfabeta del 1841 "" La libertà di stampa è un immenso bene. Ma quando s'è fatto solo la quinta non se ne gode piu in Italia che in Russia. Che meraviglia se il povero non vorrà battersi per ciò che non ha mai goduto? "
L'indirizzo politico
Don Milani ha un atteggiamento che si discosta, nel metodo applicato alla sua pastorale, dalle direttive della gerarchia ecclesiastica e dagli altri preti. Mentre tutte le forze dei confratelli erano concentrate sulle organizzazioni cattoliche (ACI, Comitati Civici, DC, CIF, ACLI, ecc. ) a difesa del Governo e della DC, il cappellano esprime contrarietà per ogni genere di associazionismo e concentra le proprie energie solo nella scuola serale e aconfessionale. Nella sua scuola denigra governo e partito cattolico. Proibisce solo ai cattolici, perché contro l'ideologia cristiana, una certa stampa! Il voto è un dovere di coscienza per i suoi effetti interiori, non si preoccupa di ottenere una "amministrazione e un governo cristiani". Considera sporca e contro i poveri l' alleanza con i marxisti democratici e con i liberali. Consiglia di votare solo per i candidati democristiani e di cancellare i nominativi degli alleati, l'unica cosa a cui è interessato è che gli elettori nel votare agiscano da cristiani: " Ai cattolici: voto DC con preferenza ai tre sindacalisti. Ai non cattolici: criteri strettamente classisti " Negli ultimi tre capitoli: "L'esodo e i suoi preliminari", "Le case", e "Il lavoro" esprime il suo punto di vista sociale, politico e religioso mettendo in risalto il fallimento della pastorale cattolica in un paese che era cristiano ormai solo d'anagrafe. Dopo aver trattato il fenomeno dello spopolamento della montagna e della campagna, conclude: "E' con angoscia che vediamo partire i nostri infelici figlioli verso la città dove sappiamo che i metodi di evangelizzazione sono ancora più arretrati che qui e dove la separazione del sacerdote dall'ambiente operaio è totale e lo sarà forse ancora per secoli... Il 99% dei suoi parrocchiani non sa nemmeno il suo nome. " Sottolinea lo stacco tra la gerarchia e i cristiani: "Se lo cercano è come si cerca un funzionario. Se per disgrazia non capita loro di averne bisogno le loro vite non si incrociano mai con la sua. Quei pochi che vanno in chiesa lo sentono parlare. Ma che cosa serve sentire delle parole quando non si sa se la bocca che le dice appartenga a una persona viva che vive quello che dice oppure a un anonimo incaricato? Non sono più tempi in cui la gente credeva alla parola solo perché la sentiva infocata e rotta dal pianto. Nessuno si fida più di nulla che non sia vissuto prima che detto. Ed è giusto. E Gesù stesso ha molto più vissuto che parlato. E molto più insegnato col nascere in una stalla e col morire su una croce che col parlare di povertà e di sacrificio".
In Don Lorenzo Milani esisteva sempre "uno spiraglio di consolazione" di tipo provvidenziale: " Certo Dio che ha guidato gli uomini verso la città non negherà a situazione nuova la grazia di nuovi preti e nuovi metodi. Per ora ci si vede molto buio e non si può assistere a queste partenze senza un brivido... Una popolazione come la nostra, di cui una parte si dice cristiana pur mostrando, come abbiamo visto, la più assoluta indifferenza per la Grazia e un'altra grossa parte si dice comunista e non è riuscita ancora a esprimere neanche un trasporto civile, è malata innanzi tutto di incoerenza. La città le potrà dunque far bene. Come il formalismo incoerente dei montanari s'è attenuato qui a S. Donato così sparirà del tutto a contatto del mondo aperto e generoso degli operai cittadini. Quando le loro menti saranno aperte sarà più facile riparlar loro del Signore. Da un lato dunque vanno verso la mancanza di sacerdote, dall'altro vanno verso l'apertura interiore. Guai a chi si rallegra, guai a chi si dispera. Signore perdonaci per l'occasione che abbiamo sprecata".
L'ultima pagina della trattazione si chiude con una visione di sangue: si scatena l'ira dei poveri contro un clero e una Chiesa che non ha capito e soprattutto non ha praticato: la povertà e lo spirito del Vangelo:
"LETTERA DALL’ OLTRETOMBA"
Riservata e segretissima ai missionari cinesi
CARI E VENERATI FRATELLI,
VOI CERTO NON Vl SAPRETE CAPACITARE COME PRIMA Dl CADERE NOI NON ABBIAMO MESSA LA SCURE ALLA RADICE DELL' INGIUSTIZIA SOCIALE. E' STATO L' AMORE DELL "ORDINE" CHE Cl HA ACCECATO.
SULLA SOGLIA DEL DISORDINE ESTREMO MANDIAMO A VOI QUEST'ULTIMA NOSTRA DEBOLE SCUSA SUPPLICANDOVI Dl CREDERE NELLA NOSTRA INVEROSIMILE BUONA FEDE.
(MA SE NON AVETE COME NOI PROVATO A SUCCHIARE COL LATTE ERRORI SECOLARI NON Cl POTRETE CAPIRE).
NON ABBIAMO ODIATO I POVERI COME LA STORIA DIRA' Dl NOI. ABBIAMO SOLO DORMITO. E' NEL DORMIVEGLIA CHE ABBIAMO FORNICATO COL LIBERALISMO Dl DE GASPERI, COI CONGRESSI EUCARISTICI Dl FRANCO. Cl PAREVA CHE LA LORO PRUDENZA Cl POTESSE SALVARE. VEDETE DUNQUE CHE C' E' MANCATA LA PIENA AVVERTENZA E LA DELIBERATA VOLONTA'.
QUANDO Cl SIAMO SVEGLIATI ERA TROPPO TARDI. I POVERI ERANO GIA' PARTITI SENZA Dl NOI. INVANO AVREMMO BUSSATO ALLA PORTA DELLA SALA DEL CONVITO. INSEGNANDO AI PICCOLI CATECUMENI BIANCHI LA STORIA DEL LONTANO 2000 NON PARLATE LORO DUNQUE DEL NOSTRO MARTIRIO.
DITE LORO SOLO CHE SIAMO MORTI E CHE NE RINGRAZINO DIO. TROPPE ESTRANEE CAUSE CON QUELLA DEL CRISTO ABBIAMO MESCOLATO. ESSERE UCCISI DAI POVERI NON E' UN GLORIOSO MARTIRIO. SAPRA' IL CRISTO RIMEDIARE ALLA NOSTRA INETTITUDINE. E' LUI CHE HA POSTO NEL CUORE DEI POVERI LA SETE DELLA GIUSTIZIA. LUI DUNQUE DOVRANNO BEN RITROVARE INSIEME CON LEI QUANDO AVRANNO DISTRUTTO I SUOI TEMPLI, SBUGIARDATI SUOI ASSONNATI SACERDOTI .
A VOI MISSIONARI CINESI FIGLIOLI DEI MARTIRI IL NOSTRO AUGURIO AFFETTUOSO.
UN POVERO SACERDOTE BIANCO DELLA FINE DEL II° MILLENNIO "
Il provvedimento contro "Esperienze Pastorali" fu emanato durante il pontificato di Giovanni XXIII, don Lorenzo, in una intervista del 1965, così commenta:
"Giovanni XXIII per prima cosa dette l'autonomia ai vescovi e il cardinale Ottaviani condannò il mio libro, però Giovanni XXIII non permise che fosse messo all'Indice perché a lui gli andava molto bene".
Il decreto è del 15 dicembre, ma che la decisione era attesa lo si deduce dalla lettera del 10 ottobre scritta dal Priore di Barbiana al padre domenicano Santilli: " Mi metto nei suoi panni e capisco la sua preoccupazione e le sono vicino sia per la gratitudine che le devo sia perché so che lei ha qualcosa di caro in pericolo."
Il giovane sacerdote, neofita e convertito, aveva rischiato tutto, lo dice lui stesso, per amore di poche creature: "Io ci avevo rischiato tutto, non parlo di trasferimenti perché sono già quattro anni che mi hanno trasferito dalle 1200 anime di San Donato a queste 85 anime qui in vetta al Monte Giovi e siccome sto buono e non do noia a nessuno, nessuno, per grazia di Dio, mi potrà più levare di qui, ma parlo del rischio di trovarmi di fronte a una condanna del libro e questa sarebbe una tragedia, non tanto per me, che sono pronto a cedere in tutto, quanto per i miei infelici giovani di San Donato." (Lettera del 7 settembre 1958 ad Arturo Carlo Jemolo)
Del resto, questa, era la posizione dell'episcopato del tempo. Nella lettera del 19 dicembre 1958, il card. Ermenegildo Florit scrive a don Milani per avvertirlo del ritiro del libro: " Molto Rev.do e caro don Milani, da Roma sono stato incaricato di comunicarLe quanto segue: La S.Sacra Congregazione del S. Offizio ha disposto, dopo aver sottoposto ad accurato esame la sua recente pubblicazione "Esperienze Pastorali" che essa venga ritirata dal commercio". Ho già avvisato l'Editore a mettere ciò in esecuzione. Quanto sopra potrà recarLe qualche amarezza. Sono tuttavia sicuro che la sua pietà sacerdotale l'aiuterà ad accettare con docilità filiale la disposizione della Santa Sede. Il Signore non mancherà di venirLe incontro con i suoi Lumi e la sua grazia confortatrice. Augurandole un santo Natale, le invio paterni saluti, benedicendoLa".Suo rev.mo nel SignoreErmenegildo Florit Arciv. Coad.
La motivazione del provvedimento, come abbiamo già detto, non fu teologica, ma solo di opportunità politica. Papa Roncalli, pontifice da pochi mesi, non aveva ancora espresso la sua linea pastorale, nella quale, distingueva tra l' "errore" da condannare e l'"errante" con cui dialogare. Le encicliche Mater et magistra e Pacem in terris verranno enunciate alcuni anni dopo. La profonda passione per l'uomo che don Lorenzo aveva lo metteva in contrasto con gli ordinamenti della società e della Chiesa mentre per lui la riforma sociale era un mezzo, uno strumento per elevare l'uomo e renderlo libero, perciò vicino a Dio.
Questa dimensione profonda e impostata sull'elevazione dell'uomo diventa una modalità educativa della scuola popolare di San Donato e di Barbiana al punto che non doveva: " ... richiedere nemmeno un'adesione preventiva al cattolicesimo, né ai suoi ragazzi né agli ospiti della Scuola popolare". Gaetano Arfè Pubblico Dibattito 16/17 dicembre 1988 Calenzano
Queste riflessioni fanno capire la serie di anacronismi che lo metteranno in contrasto con la mentalità del suo tempo. Il libro pur inquadrato e collocato storicamente dovrebbe essere, dalla Chiesa di oggi, restituito a quella dignità che deve a don Milani per averla così ben servita.
L'OBIEZIONE DI COSCIENZA: LA LETTERA AI GIUDICI
1) Ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana, in congedo. LA NAZIONE 12.2.652) La Risposta ai cappellani militari di don Milani 23.2.19653) La Lettera ai giudici - Autodifesa del priore di Barbiana dopo una denuncia per apologia di reato, presentata da un gruppo d’ex combattenti. 18.10.19654) Lettera di Don Lorenzo Milani e Don Bruno Borghi al Clero fiorentino 1.10.1964
Febbraio 1965: introduzione.
Un gruppetto di cappellani militari in congedo, vota un ordine del giorno in cui dichiara di considerare: " un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta obiezione di coscienza, che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà"
L'ordine del giorno fu pubblicato dal quotidiano "La Nazione" di Firenze. La domenica successiva fu portato a Barbiana dal professor Agostino Ammannati. Il Priore lo lesse. Ci fu una lunga discussione. Era ancora frizzante la ferita, dopo la risposta di Florit alla "Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina" scritta con don Bruno Borghi amico e compagno di seminario. In tale occasione i due sacerdoti si erano schierati al fianco di padre Balducci. Denunciato per vilipendio alla religione per aver definito la Chiesa " corpo di peccatori " e per aver accennato a Pio XII, in modo da avallare la ben nota tesi della sua inerzia dinanzi ai crimini bellici nazisti, fu processato per apologia di reato per aver difeso l'obiettore di coscienza Giuseppe Gozzini nel '63. A quei tempi la Chiesa era contraria all'obiezione di coscienza. Scrive "di getto" la prima lettera ai Cappellani militari. L'obiezione di coscienza è solo uno spunto per aprire un discorso molto più ampio sulla disobbedienza. Un'occasione per rileggere tutte le manifestazioni d'intolleranza e di violenza nella storia. Sotto forma di volantino il documento viene dato alla stampa. Riprodotto parzialmente da alcuni giornali fu, grazie al settimanale comunista " Rinascita ", pubblicato per intero. L'opinione pubblica reagisce violentissima sia quando è a favore che quando é contraria. Mentre il Parlamento stava per legiferare un riconoscimento all'obiezione di coscienza, a Barbiana arrivano decine di lettere anonime, firmate con la svastica o col fascio oppure piene d'insulti, oscenità e minacce. Tutte le forze conservatrici (liberali, fasciste e religiose) si erano compattate contro Don Milani. Un gruppo di ex combattenti lo denuncia al procuratore della Repubblica di Firenze. Il documento è incriminato e l’autore inviato a giudizio. Comincia la lunga e operosa ricerca insieme ai suoi ragazzi attraverso i libri e i documenti storici per ricostruire una verità dimenticata o nascosta. Scrive la sua "Autodifesa", un documento scritto interagendo con il popolo e i suoi ragazzi e coinvolgendo, con il metodo "umile" della scrittura collettiva, anche i numerosi visitatori. La "Lettera ai cappellani" e la "Lettera ai giudici" non sono, principalmente, una difesa dell'obiezione di coscienza o una condanna all'esercito, ma una lezione impartita agli allievi su una giusta interpretazione del concetto di libertà e obbedienza.
Quando Aldo Capitini gli propone di organizzare, durante il processo, una manifestazione di non-violenti davanti al tribunale, lui evita il rischio di disturbi diseducativi: "Le sarò molto grato se si adoprerà per impedire qualsiasi manifestazione prima del processo (per es. manifestazioni, sedute, cartelli ecc.) riservando invece tutte le vostre forze per dopo la sentenza. Sono il primo io a desiderare la massima pubblicità del processo e della mia lettera al presidente, ma vorrei organizzare le cose in modo che il baccano si scatenasse un minuto dopo la sentenza. Mi pare che questo sia un dovere verso il tribunale e il miglior modo d'educare la gente a un serio dibattito di idee."
Vuole essere "isolato" dall'opinione pubblica "colta", anche quella di sinistra e lo dice poco prima del processo al suo avvocato: "Ci ho messo ventidue anni, per uscire dalla classe sociale che scrive e legge "L'Espresso" e "Il Mondo". Non devo farmene ricatturare nemmeno per un giorno solo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono. Io da diciotto anni in qua non ho più letto un libro né un giornale se non ad alta voce con dei piccoli uditori. Nella chiesuola dell'élite intellettuale tutti hanno letto tutto e quel che non han letto fingono d'averlo letto."
Questo isolamento gli consentirà di individuare, senza condizionamenti, le insolvenze storiche e culturali di tutti gli schieramenti politici e essere oggettivamente educativo: " E' per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch'io trovo incriminata con me una rivista comunista. Non ci troverei nulla da ridire se si trattasse d'altri argomenti. Ma essa non meritava l'onore d'essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non-violenza. Il fatto non giova alla chiarezza cioè all'educazione dei giovani che guardano a questo processo."
E' sempre nella veste di educatore che rivendica l'assoluzione da un'accusa che lo definisce cattivo maestro. Parole come libertà di stampa, responsabilità e obbedienza trovano nel suo vocabolario significati diversi: " Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Dovevo ben insegnare come un cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande: I care. E' il motto intraducibile dei giovani americani migliori. "Me ne importa, mi sta a cuore".E' il contrario esatto del motto fascista "Me ne frego"."
Il maestro deve anche sapere disobbedire e pagare di persona: "Non posso dire ai miei giovani, che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. Quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco perché qualcuno possa confonderlo con l'anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto... ....Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l'ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l'Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l'autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima...."
Parla dell'amore ed esalta il primato della coscienza: "....l'ho applicata, nel mio piccolo, anche a tutta la mia vita di cristiano nei confronti delle leggi e delle autorità della Chiesa. Severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno d'aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime! Del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli. Ottimi cittadini e ottimi cristiani. Nessuno di loro è venuto su anarchico. Nessuno è venuto su conformista. Informatevi su di loro. Essi testimoniano a mio favore."
La critica non risparmia chi da sempre detiene il potere: " In Italia fino al 1880 aveva diritto di voto solo il 2% della popolazione. Fino al 1909 il 7%. Nel 1913 ebbe diritto di voto il 23%, ma solo la metà lo seppe e lo volle usare. Dal '22 al '45 il certificato elettorale non arrivò più a nessuno, ma arrivarono a tutti le cartoline di chiamata per tre guerre spaventose. Oggi il diritto al suffragio è universale, ma la Costituzione ( articolo 3 ) ci avvertiva nel '47 con sconcertante sincerità che i lavoratori erano di fatto esclusi dalle leve del potere. Siccome non è stata chiesta la revisione di quell'articolo è lecito pensare (e io lo penso) che esso descriva una situazione non ancora superata. Allora è ufficialmente riconosciuto che i contadini e gli operai, cioè la gran massa del popolo italiano, non è mai stata al potere. Allora l'esercito ha marciato solo agli ordini di una classe ristretta... ... l'esercito non ha mai o quasi mai rappresentato la Patria nella sua totalità"
"Ho a scuola, esclusivamente figlioli di contadini e di operai. La luce elettrica a Barbiana è stata portata quindici giorni fa, ma le cartoline di precetto hanno cominciato a portarle a domicilio fin dal 1861. Non posso non avvertire i miei ragazzi che i loro infelici babbi han sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gl'interessi di una classe ristretta (di cui non facevano nemmeno parte!), non gli interessi della Patria. Anche la Patria è una creatura cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. Io penso che non si può dar la vita per qualcosa di meno di Dio. Ma se anche si dovesse concedere che si può dar la vita per l'idolo buono (la Patria), certo non si potrà concedere che si possa dar la vita per l'idolo cattivo (le speculazioni degli industriali). Dar la vita per nulla è peggio ancora."
Il desiderio di cambiare la figura dell'educatore è implicita nel raffronto che fa tra lui e i volgari mistificatori che insegnavano alla scuola fascista: "Dopo essere stato così volgarmente mistifìcato dai miei maestri quando avevo 13 anni, ora che sono maestro io e ho davanti questi figlioli di 13 anni che amo, vorreste che non sentissi l'obbligo non solo morale (come dicevo nella prima parte di questa lettera), ma anche civico di demistificare tutto, compresa l'obbedienza militare come ce la insegnavano allora? Perseguite i maestri che dicono ancora le bugie di allora, quelli che da allora a oggi non hanno più studiato né pensato, non me."
La demistificazione, investendo l'obbedienza, la sottopone al primato della coscienza facendo appello a una legge che tutti abbiamo scritto nel nostro cuore. Una legge che crede nel cambiamento e rende traballanti le istituzioni perché vede e agevola le dinamicità della storia. Avendo questo sguardo lungimirante, soffre per le miopie del suo vescovo: "Il nostro Arcivescovo card. Florit ha scritto che è praticamente impossibile all'individuo singolo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini che riceve" (lettera al clero, 14-4-1965). Certo non voleva riferirsi all'ordine che hanno ricevuto le infermiere tedesche di uccidere i loro malati. E neppure a quello che ricevette Badoglio e trasmise ai suoi soldati di mirare anche agli ospedali (telegramma di Mussolini, 28-3-1936). E neppure all'uso dei gas. Quegli ufficiali e quei soldati obbedienti che buttavano barili d'iprite sono criminali di guerra e non sono stati ancora processati(.....) A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra la chiama legge della Coscienza."
La responsabilità è di tutti e l' "obbedienza" non è più una virtù, ma una tentazione per chi è passivo: " Siamo giunti a quest'assurdo, che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente. A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è mai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano l'unico responsabile di tutto. A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionato al suo progresso tecnico. "
Nel processo, tenutosi a Roma il 15 febbraio 1966, il priore viene assolto, ma su ricorso del pubblico ministero il 28 ottobre 1968 la Corte d'appello, modificando la sentenza di primo grado, condanna il sacerdote e il maestro!
Ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana in congedo.
Erano presenti alla riunione solo 20 cappellani militari su un totale di 120.
NB: L’introduzione è stata scritta da Edoardo Martinelli, Allievo di don Lorenzo Milani
1) Ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana, in congedo.
I cappellani militari e l'obiezione di coscienza
Nell'anniversario della Conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l'Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana. Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione don Alberto Cambi, è stato votato il seguente ordine del giorno: "I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello spirito del recente congresso nazionale dell'associazione, svoltosi a Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti d'Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà".L'assemblea ha avuto termine con una preghiera di suffragio per tutti i caduti.
(Comunicato pubblicato dal giornale, La Nazione - 12.2.1965)
2) La Risposta ai cappellani militari di don Milani (23.2.1965)
Ai Cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell'11 febbraio 1965
Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.
Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola. Io l'avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.
PRIMO perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch'io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.
SECONDO perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi. Nel rispondermi badate che l'opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né d'un vostro silenzio, né d'una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste. Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.
Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. E troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione. Articolo 11 "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...". Articolo 52 "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino".Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, I'esecuzione sommaria dei partigiani, I'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, I'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, I'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri "superiori" sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati èsegno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza. Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati.
Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l'anno) I'esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all'obiezione che all'obbedienza. L'obiezione in questi 100 anni di storia l'han conosciuta troppo poco. L'obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, I'han conosciuta anche troppo. Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.
1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell'idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c'erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l'appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d'Italia un monumento come eroe della Patria. A 100 anni di distanza la storia si ripete: I'Europa è alle porte. La Costituzione è pronta a riceverla: "L'ltalia consente alle limitazioni di sovranità necessarie...". I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell'Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei. La guerra seguente 1866 fu un'altra aggressione. Anzi c'era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l'Austria insieme.
Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria tant'è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant'é vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: "L'insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia".Nel 1898 il Re "Buono" onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L'avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata. Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare "Savoia" anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l'unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo. Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d'un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l'uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa? Idem per la guerra di Libia.
Poi siamo al '14. L'Italia aggredì l'Austria con cui questa volta era alleata. Battisti era un Patriota o un disertore? E un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una "inutile strage"? (I'espressione non è d'un vile obiettore di coscienza ma d'un Papa canonizzato).
Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l'Obbediena "cieca, pronta, assoluta" quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra "Patria", quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa). Nel '36 50.000 soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar "volontari" a aggredire l'infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto d'un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll'aiuto italiano e al prezzo d'un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d'ogni libertà civile e religiosa. Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d'aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi.
Senza l'obbedienza dei "volontari" italiani tutto questo non sarebbe successo. Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall'altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l'appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato. Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire? Poi dal '39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l'altra altre sei Patrie che non avevano certo attentatoalla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l'Italia due fronti. L'uno contro il sistema democratico. L'altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l'umanità si sia data. L'uno rappresenta il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L'altro il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri. Non vi affannate a rispondere accusando l'uno o l'altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c'era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d'ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d'ogni giustizia e d'ogni religione. Propaganda dell'odio e sterminio d'innocenti. Fra gli altri lo sterminia degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente).
Che c'entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l'ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie? Ma in questi cento anni di storia italiana c'è stata anche una guerra "giusta" (se guerra giusta esiste). L'unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.
Da un lato c'erano dei civili, dall'altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall'altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i "ribelli", quali i "regolari"? E una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i "ribelli"? Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l'ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall'obbedienza militare. Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un "distinguo" che vi riallacci alla parola di San Pietro: "Si deve obbedire agli uomini o a Dio?". E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che on finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro. In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora perrnettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri, non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione. Del resto anche in Italia c'è una legge che riconosce un'obiezione di coscienza. E proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti. In quanto li altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s'è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, I'eroismo patrimonio dei più? Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene. Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l'ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita? Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è "estraneo al comandamento cristiano dell'amore" allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son saorificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.
Se volete diciamo:.preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.
Lorenzo Milani sac.
3) La Lettera ai giudici
Autodifesa del priore di Barbiana dopo una denuncia per apologia di reato, presentata da un gruppo di ex combattenti (18.10.1965)
Barbiana 18 ottobre 1965
la mia assenza
Signori Giudici,
vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà infatti facile ch'io possa venire a Roma perché sono da tempo malato.
Allego un certificato medico e vi prego di procedere in mia assenza.
nessun sottinteso
La malattia è l'unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l'accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini.
il difensore
Una precisazione a proposito del difensore. Le cose che ho voluto dire con la lettera incriminata toccano da vicino la mia persona di maestro e di sacerdote. In queste due vesti so parlare da me. Avevo perciò chiesto al mio difensore d'ufficio di non prendere la parola. Ma egli mi ha spiegato che non me lo può promettere né come avvocato né come uomo.
Ho capito le sue ragioni e non ho insistito.
troppo onore a Rinascita
Un'altra precisazione a proposito della rivista che è coimputata per avermi gentilmente ospitato. Io avevo diffuso per conto mio la lettera incriminata fin dal 23 Febbraio. Solo successivamente (6 Marzo) I'ha ripubblicata Rinascita e poi altri giornali. E' dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch'io trovo incriminata con me una rivista comunista.
Non ci troverei nulla da ridire se si trattasse d'altri argomeni. Ma essa non meritava l'onore d'essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza. Il fatto non giova alla chiarezza cioè all'educazione dei giovani che guardano a questo processo.
Verrò ora ai motivi per cui ho sentito il dovere di scrivere la lettera incriminata. Ma vi occorrerà prima sapere come mai oltre che parroco io sia anche maestro.
l'ambiente
La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati.
Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico.
viviamo insieme
La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme.
COME MAESTRO
Il motivo occasionale
la provocazione
Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un "Comunicato dei cappellani militari in congedo della regione toscana". Più tardi abbiamo saputo che già questa dizione è scorretta. Solo 20 di essi erano presenti alla riunione su un totale di 120. Non ho potuto appurare quanti fossero stati avvertiti. Personalmente ne conosco uno solo: don Vittorio Vacchiano pievano di Vicchio.Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato. Il testo è infatti gratuitamente provocatorio.
espressione di viltà
Basti pensare alla parola "espressione di viltà". Il prof. Giorgio Peyrot dell'Università di Roma sta curando la raccolta di tutte le sentenze contro obiettori italiani. Mi dice che dalla liberazione in qua ne son state pronunciate più di 200. Di 186 ha notizia sicura, di l00 il testo. Mi assicura che in nessuna ha trovato la parola viltà o altra equivalente. In alcune anzi ha trovato espressioni di rispetto per la figura morale dell'imputato. Per esempio:"Da tutto il comportamento dell'imputato si deve ritenere che egli sia incorso nei rigori della legge per amor di fede" (2 sentenze del T.M.T. di Torino l9 Dicembre1963 imputato Scherillo, 3 Giugno 1964 imputato Fiorenza). In tre sentenze del T.M.T. di Verona ha trovato il riconoscimento del motivo di particolare valore morale e sociale (19 Ottobre 1953 imputato Valente, 11 Gennaio 1957 imputato Perotto, 7 Maggio 1957 imputato Perotto). Allego il testo completo dei risultati della ricerca che il prof. Peyrot ha avuto la bontà di fare per me.
i ragazzi sdegnati
Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati.
Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto.Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnatoa dar loro una lezine di vita.
non potevo tacere
Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande "I care". E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. "Me ne importa, mi sta a cuore". E il contrario esatto del motto fascista "Me ne frego".
il silenzio di chi doveva parlare
Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. E l'unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi.
cercasi guerra giusta
Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d'una "guerra giusta". D'una guerra cioè che fosse in regola con l'articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l'abbiamo trovata.
dispiaceri
Da quel giorno a oggi abbiamo avuto molti dispiaceri: Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio.Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con "interviste" piene di falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle "interviste" senza curarsi di controllarne la serietà. Siamo stati poco compresi dal nostro stesso Arcivescovo (Lettera al Clero 14-4-1965). La nostra lettera è stata incriminata.
quei 31 nostri fratelli
Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Così diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione.
il loro censore invece
Un mio figliolo ha per professore di religione all'Istituto Tecnico il capo di quei militari cappellani che han scritto il comunicato.
Mi dice di lui che in classe parla spesso di sport. Che racconta di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l'automobile.
Non toccava a lui chiamare "vili e estranei al comandamento cristiano dell'amore" quei 31 giovani. I miei figlioli voglio che somiglino più a loro che a lui. E ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici.
Il motivo profondo
che cos'è la scuola
A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona.
arte delicata
La scuola è diversa dall'aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E' l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione).
il giudice
La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste. Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto perfino sentenziare condanne a morte. Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva. Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico.
il ragazzo
Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall'altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i "segni dei tempi", indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.
il maestro
Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al progresso legislativo. In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla.
il vero amore alla legge
Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.
la leva delle leve
La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. E' scuola per esempio la nostra lettera sul banco dell'imputato e è scuola la testimonianza di quei 31 giovani che sono a Gaeta. Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l'anuchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto.
le nostre letture
Questa tecnica di amore costrutivo per la legge l'ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, I'Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattroVangeli, l'autobiografia di Gandhi,le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l'ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore.
il mio esempio
L'ho applicata, nel mio piccolo, anche a tutta la mia vita di cristiano nei confronti delle leggi e delle autorità della Chiesa.
Severarmente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusumi di eresia o di indisciplina. Nessuno d'aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime!
i nostri frutti
Del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli. Ottimi cittadini e ottimi cristiani. Nessuno di loro è venuto su anarchico.
Nessuno è venuto su conformista. Informatevi su di loro. Essi testimoniano a mio favore.
Ma è poi reato?
Vi ho dunque dichiarato fin qui che se anche la lettera incriminata costituisse reato era mio dovere morale di maestro scriverla egualmente. Vi ho fatto notare che togliendomi questa libertà attentereste alla scuola cioè al progresso legislativo. Ma è poi reato?
la Costituzione nella scuola
L'Assemblea Costituente ci ha invitati a dar posto nella scuola alla Carta Costituzionale "al fine di rendere consapevole la nuova generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali"(ordine del giorno approvato all'unanimità nella seduta, dell'11 Dicembre 1947).
l'Italia ripudia
Una di queste conquiste morali e sociali è l'articolo 11: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli". Voi giuristi dite che le leggi si riferiscono solo al futuro, ma noi gente della strada diciamo che la parola ripudia è molto più ricca di significato, abbraccia il passato e il futuro, E' un invito a buttar tutto all'aria: all'aria buona. La storia come la insegnavano a noi e il concetto di obbedienza militare assoluta come la insegnano ancora. Mi scuserete se su questo punto mi devo dilungare, ma il Pubblico Ministero ha interpretato come apologia della disobbedienza una lettera che è una scorsa su cento anni di storia alla luce del verbo ripudia..
ci mistificavano tutto
E' dalla premessa di come si giudicano qelle guerre che segue se si dovrà o no obbedire nelle guerre future. Quando andavamo a scuola noi i nostri maestri, Dio li perdoni, ci avevano così bassamente ingannati. Alcuni poverini ci credevano davvero: ci ingannavano perché erano a loro volta ingannati. Altri sapevano di ingannarci, ma avevano paura. I più erano forse solo dei superficiali. A sentir loro tutte le guerre erano "per la Patria". Esaminiamo ora quattro tipi di guerra che "per la Patria" non erano.
1. per la classe dominante
I nostri maestri sí dimenticavano di farci notare una cosa lapalissiana e cioè che gli eserciti marciano agli ordini della classe dominante. In Italia fino al 1880 aveva diritto di voto solo il 2% della popolazione. Fino al 1909 il 7%. Nel 1913 ebbe diritto di voto il 23%, ma solo la metà lo seppe o lo volle usare. Dal '22 al '45 il certificato elettorale non arrivò più a nessuno, ma arrivarono a tutti le cartolie di chiamata per tre guerre spaventose. Oggi di diritto il suffragio è universale ma la Costituzione (aticolo 3) ci avvertiva nel '47 con sconcertante sincerità che i lavoratori erano di fatto esclusi dalle leve del potere. Siccome non è stata chiesta la revisione di quell'articolo è lecito pensare (e io lo penso) che esso descriva una situazione non ancora superata. Allora è ufficialmente riconosciuto che i contadini e gli operai, cioè la gran massa del popolo italiano non è mai stata al potere.
esercito classista
Allora l'esercito ha marciato solo agli ordini di una classe ristretta. Del resto ne porta ancora il marchio: il servizio di leva è compensato con 93.000 al mese per i figli dei ricchi e con 4.500 Iire al mese per i figli dei poveri, essi non mangiano lo stesso rancio alla stessa mensa, i figli dei ricchi sono serviti da un attendente figlio dei poveri. Allora l'esercito non ha mai o quasi mai rappresentato la Patria nella sua totalità e nella sua eguaglianza.
difese di popolo aggressione di classe
Del resto in quante guerre della storia gli eserciti han rappresentato la Patria? Forse quello che difese la Francia durante la Rivoluzione. Ma non certo quello di Napoleone in Russia. Forse l'esercito inglese dopo Dunkerque. Ma non certo l'esercito inglese a Suez. Forse l'esercito russo a Stalingrado. Ma non certo l'esercito russo in Polonia. Forse l'esercito italiano al Piave. Ma non certo l'esercito italiano il 24 Maggio. Ho a scuola esclusivamente figlioli di contadini e di operai. La luce elettrica a Barbiana è stata portata quindici giorni fa, ma le cartoline di precetto hanno cominciato a portarle a domicilio fin dal 1861. Non posso non avvertire i miei ragazzi che i loro infelici babbi han sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gli interessi di una classe ristretta (di cui non facevano nemmeno parte) non gli interessi della Patria.
idolatria
Anche la Patria è una creatura cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. Io penso che non si può dar la vita per qualcosa di meno di Dio. Ma se anche si dovesse concedere che si può dar la vita per l'idolo buono (la Patria), certo non si potrà concedere che si possa dar la vita per l'idolo cattivo (le speculazioni degli industriali).
2. dar la vita per nulla
Dar la vita per nulla è peggio ancora. I nostri maestri non ci dissero che nel '866 l'Austria ci aveva offerto il Veneto gratis.
Cioè che quei morti erano morti senza scopo. Che è mostruoso andare a morire e uccidere senza scopo. Se ci avessero detto meno bugie avremmo intravisto com'è complessa la verità. Come anche quella guerra, come ogni guerra, era composita dell'entusiasmo eroico di alcuni, dello sdegno eroico di altri, della delinquenza di altri ancora.
rispetto per i caduti
Lo dico perché alcuni mi accusan di aver mancato di rispetto ai caduti. Non è vero. Ho rispetto per quelle infelici vittime. Proprio per questa mi parrebbe di offenderli se lodassi chi le ha mandate a morire e poi si è messo in salvo. Per esempio quel re che scappò a Brindisi con Badoglio e molti generali e nella fretta si dimenticò perfino di lasciar gli ordini. Del resto il rispetto per i morti non può farmi dimenticare i miei figlioli vivi. Io non voglio che essi facciano quella tragica fine. Se un giorno sapranno offrire la loro vita in sacrificio ne sarò orgoglioso, ma che sia por la causa di Dio e dei poveri, non per il signor Savoia o il signor Krupp. Bisognerà ricordare anche le guerre per allargare i confini oltre il territorio nazionale.
3. dar la vita per la strategia
Ci sono ancora dei fascisti poveretti che mi scrivono lettere patetiche per dirmi che prima di pronunciare il nome santo di Battisti devo sciacquarmi la bocca.
Battisti
E' perché i nostri maestri ce 1'avevano presentato come un eroe fascista. Si erano dimenticati di dirci che era un socialista. Che se fosse stato vivo il 4 novembre quando gli italiani entrarono nel Sud Tirolo avrebbe obiettato. Non avrebbe mosso un passo di là da Salorno per lo stessissimo motivo per cui quattro anni prima aveva obiettato alla presenza degli austriaci di qua da Salorno e s'era buttato disertore, come dico appunto nella mia lettera. "Riterremmo stoltezza vantar diritti su Merano e Bolzano" (Scrtti politici di Cesare Battisti, vol. II pag.96-97). "Certi italiani confondono troppo facilmente il Tirolo col Trentino e con poca logica vog1iono i confini d'Italia estesi fino al Brennero" (ivi).
Sotto il fascismo la mistificazione fu scientificamente organizzata. E non solo sui libri, ma perfino sul Paesaggio. L'Alto Adige, dove nessun soldato italiano era mai morto, ebbe tre cimiteri di guerra finti (Colle Isarco, Passo Resia, S. Candido) con caduti veri disseppelliti a Caporetto.
il Mondo unito
Parlo di confini per chi crede ancora, come credeva Battisti, che i confini debbano tagliare preciso tra nazione e nazione.
Non certo per dar soddisfazione a quei nazisti da museo che sparano a carabinieri di 20 anni. In quanto a me, io ai miei ragazzi insegno che le frontiere son concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può essere dogma di fede né civile né religiosa.
4. dar la vita oltremare
Ci presentavano l'Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l'Impero. I nostri maestri s'erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti.
obbligo civico di demistificare
E dopo esser stato così volgarmente mistificato dai miei maestri quando avevo 13 anni, ora che sono maestro io e ho davanti questi figlioli di 13 anni che amo, vorreste che non sentissi l'obbligo non solo morale (come dicevo nella prima parte di questa lettera), ma anche civico di demistificare tutto, compresa l'obbedienza militare come ce la insegnavano allora? Perseguite i maestri che dicono ancora le bugie di allora, quelli che da allora a oggi non hanno più studiato né pensato, non me.
anche il soldato ha una coscienza
Abbiamo voluto scrivere questa lettera senza l'aiuto d'un giurista. Ma a scuola una copia dei Codici l'abbiamo. Nel testo stesso dell'art. 40 c.p.m.p. e nella giurisprudenza all'art. 51 de c.p. abbiamo trovato che il soldato non deve obbedire quando l'atto comandato è manifestamente delittuoso. Che l'ordine deve avere un minimo d'apparenza di legittimità. Una sentenza del T.S.M. condanna un soldato che ha obbedito a un ordine di strage di civili (13-12-1949 imputato Struch). Allora anche il Vostro ordinamento riconosce che perfino il soldato ha una coscienza e deve saperla usare quando è l'ora. Come potrebbe avere un minimo di parvenza di legittimità una decimazione, una rappresaglia su ostaggi, la deportazione degli ebrei, la tortura, una guerra coloniale?
il diritto internazionale
Oppure, può avere un minimo di parvenza di legittimità un atto condannato dagli accordi internazionali che l'Italia ha sottoscritto?
Il nostro Arcivescovo Card. Florit ha scritto che "è praticamente impossibile all'individuo singolo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini che riceve" (Lettera al Clero 14-4-1965). Certo non voleva riferirsi all'ordine che hanno ricevuto le infermiere tedesche di uccidere i loro malati. E neppure a quello che ricevette Badoglio e trasmise ai suoi soldati di mirare anche agli ospedali (telegramma di Mussolini 28-3-1936).
i gas in Etiopia
E neppure alI'uso dei gas. Che gli italiani in Etiopia abbiano usato gas è un fatto su cui è inutile chiuder gli occhi. Il Protocollo di Ginevra del 17-5-1925 rattificato dall'Italia il 3-4-1928 fu violato dall'Italia per prima il 23-12-1935 sulTacazzé. L'Enciclopedia Britannica lo da per pacifico.Lo denunciano oramai anche i giornali cattolici. L'Avvenire d'ltalia articoli di Angelo del Boca dal 13-5-1965 al 15-7-1965). Abbiamo letto i telegrammi di Mussolini a Graziani: "autorizzo impiego gas" (telegramma numero 12409 del 27-10- 1935) di Mussolini a Badoglio: "rinnovo autorizzazione impiego gas qualunque specie e su qualunque scala". Hailè Selassiè l'ha confermato autorevolmente e circostanziatamente'(intervista per l'Espresso 29-9-1965 e sg.). Quegli ufficiali e quei soldati obbedienti che buttavano barili d'iprite sono criminali di guerra e non son ancora stati processati. Son processato invece io perché ho scritto una lettera che molti considerano nobile(carissime fra le tante le lettere di affettuosa solidarietà delle Commissioni Interne delle princípali fabbriche fiorentine, quelle dei dirigenti e attivisti della C.I.S.L. di Milano e della C.I.S.L. di Firenze e quella dei Valdesi). Che idea si potranno fare i giovani di ciò che è crimine? Oggi poi le convenzioni internazionali son state accolte nella Costituzione (art. 10). Ai miei montanari insegno a avere più in onore la Costituzione e i patti che la loro Patria ha firmato che gli ordini opposti d'un generale.
il buon senso dei poveri
Io non li credo dei minorati incapaci di distinguere se sia lecito o no bruciar vivo un bambino. Ma dei cittadini sovrani e coscienti. Ricchi del buon senso dei poveri. Immuni da certe perversioni intellettuali di cui soffrono talvolta i figli della borghesia. Quelli per esempio che leggevano D'Annunzio e ci han regalato il fascismo e le sue guerre.
Norimberga
A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito. L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, pèrché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran Parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.
Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà condannatì. E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire,non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era un'bravo ragazzo, un soldato disciplinato" (secondo la definizione dei suoi superiori) "un povero imbecille irresponsabile" (secondo la definizione che dà lui di sé ora) (carteggio di Claude Eatherly e Gunter Anders - Einaudi / 1962).
la responsabilità in solido
Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della responsabiIità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio:"Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco".Quando si tratta di due persone che compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per due.
responsabilità in frazioni
Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scieriziati? tecnici, operai, aviatori. Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi. E così siamo giunti a quest'assurdo che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente. A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà soloHitler. Ma Hitler era irresponsabilè perché pazzo.Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole.
l'obbedienza non è più una virtù
Avere il coraggio di dire ai giovaní che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto. A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico.
COME SACERDOTE
se è reato perseguiteci tutti
Fin qui ho parlato come un cittadino e un maestro che crede con la sua scuola e la sua lettera di aver reso un servizio alla società civile, non di aver compiuto un reato. Ma poniamo di nuovo che voi lo consideriate reato. Quest'accusa se fatta a me solo e non anche a tutti i miei confratelli mette in dubbio la mia ortodossia di cattolico e di sacerdote. Sembrerà infatti che condanniate le idee persorali di un prete strano. Ma io son parte viva della Chiesa anzi suo ministro. Se avessi detto cose estranee al suo insegnamento essa mi avrebbe condannato. Non l'ha fatto perché la mia lettera dice cose elementari di dottrina cristiana che tutti i preti insegnano da 2000 anni. Se ho commesso reato perseguiteci tutti. Ho evitato apposta di parlare da non violento.
la non-violenza
Personalmente lo sono: Ho tentato di educare i miei ragazzi così. Li ho indirizzati per quanto ho potuto verso i sindacati (le uniche organizzazioni che applichino su larga scala le tecniche nonviolente). Ma la non violenza non è ancora la dottrina ufficiale di tutta la Chiesa. Mentre la dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato lo è certamente.
Mi sarà facile dimostrarvi che nella mia lettera ho parlato da cattolico integrale, anzi spesso da cattolico conservatore.
storia codina
Cominciamo dalla storia. La storia d'Italiá fino al 1929 nella mia lettera è identica a come la raccontavano i preti in seminario prima di quella data. Il mio vecchio parroco mi diceva che La Squilla, il giornale cattolico di Firenze, aveva in vetta e in fondo uno striscione nero.Portava il lutto del Risorgimeto!
tutti antifascisti
In quanto alla storia più recente cioè al giudizio sulle guerre fasciste, può anche darsi che qualche mio confratello sia intimamente un nostalgico, ma è notorio che la maggioranza dei preti sostiene un partito democratico che fu il principale autore della Costituzione (dunque anche della parola ripudia).
dottrina elementare
Veniamo alla dottrina. La dottrina del primato della legge di Dio sulla legge degli uomini è condivisa, anzi glorificata, da tutta la Chiesa. Non andrò a cercare teologi moderni e difficili per dimostrarlo. Si può domandarlo a un bambino che si prepara alla Prima Comunione: "Se il padre o la,madre comanda una cosa cattiva bisogna obbedirlo? I martiri disobbedirono alle leggi dello Stato. Fecero bene o male?"
C'è chi cita a sproposito il detto di S. Pietro: "Obbedite ai vostri superiori anche se son cattivi". Infatti. Non ha nessuna importanza se chi comanda è personalmente buono o cattivo. Delle sue azioni risponderà davanti a Dio. Ha però importanza se ci comanda cose buone o cattive perché delle nostre azioni risponderemo noi davanti a Dio.Tant'è vero che Pietro scriveva quelle sagge raccomandazioni all'obbedienza dal carcere dove era chiuso per aver solennemente disobbedito.
il Concilio di Trento
Il Concilio di Trento è esplicito su questo punto (Catechismo III parte, IV precetto, 16° paragrafo): "Se le autorità politiche comanderanno qualcosa di iniquo non sono assolutamente da ascoltare. Nello spiegare questa cosa al popolo il parroco faccia notare che premio grande e proporzionato è riservato in cielo a coloro che obbediscono a questo precetto divino" cioè di disobbedire allo Stato!
la Chiesa del silenzio
Certi cattolici di estrema destra (forse gli stessi che mi hanno denunciato) ammirano la Mostra della Chiesa del Silenzio. Quella mostra è l'esaltazione di cittadini che per motivo di coscienza si ribellano allo Stato. Allora anche i miei superficialissimi accusatori la pensan come me. Hanno il solo difetto di ricordarsi di quella legge eterna quando lo Stato è comunista e le vittime son cattoliche e di dimenticarla nei casi (come in Spagna) dove lo Stato si dichiara cattolico e le vittime sono comuniste. Son cose penose, ma le ho ricordate per mostrarvi che su questo punto l'arco dei cattolici che la pensano come me è completo.
le persecuzioni
Tutti sanno che la Chiesa onora i suoi martiri. Poco lontano dal vostro Tribunale essa ha eretto una basilica per onorare l'umile pescatore che ha pagato con la vita il contrasto fra la sua coscienza e l'ordinamento vigente. S. Pietro era un "cattivo cittadino". I vostri predecessori del Tribunale di Roma non ebbero tutti i torti a condannarlo. Eppure essi non erano intolleranti verso le religioni. Avevano costruito a Roma i templi di tutti gli dei e avevano cura di offrir sacrifici ad ogni altare. In una sola religione il loro profondo senso del diritto ravvisò un pericolo mortale per le loro istituzioni. Quella il cui primo comandamento dice: "lo sono un Dio geloso. Non avere altro Dio fuori che me".
le vostre leggi progrediscono
A quei tempi pareva dunque inevitabile che i buoni ebrei e i buoni cristiani paressero cattivi cittadini. Poi le leggi dello Stata progredirono. Lasciatemi dire, con buona pace dei laicisti, che esse vennero man mano avvicinandosi alla legge di Dio. Così va diventando ogni giorno più facile per noi esser riconosciuti buoni cittadini. Ma è per coincidenza e non per sua natura che questo avviene. Non meravigliatevi dunque se ancora non possiamo obbedire tutte le leggi degli uomini. Miglioriamole ancora e un giorno le obbediremo tutte. Vi ho detto che come maestro civile sto dando una mano anch'io a migliorarle. Perché io ho fiducia nelle leggi degli uomini. Nel breve corso della mia vita mi pare che abbiano progredito a vista d'occhio. Condannano oggi tante cose cattive che ieri sancivano. Oggi condannano la pena di morte, l'assolutismo, la monarchia, la censura, le colonie, il razzismo, l'inferiorità della donna, la prostituzione, il lavoro dei ragazzi. Onorano lo sciopero, i sindacati, i partiti.
quasi coincidono
Tutto questo è un irreversibile avvicinarsi alla legge di Dio. Già oggi la coincidenza è così grande che normalmente un buon cristiano può passare anche l'intera vita senza mai essere costretto dalla coscienza a violare una legge dello Stato.
Io per esempio fino a questo momento sono incensurato. E spero di esserlo anche alla fine di questo processo E' un augurio che faccio ai patrioti. Chissà come patirebbero se potessero leggere le tante lettere che ricevo dall'estero. Da paesi che non hanno il servizio di leva o riconoscono l'obiezione. Quelli che le scrivono sono convinti di scrivere a un paese di selvaggi. Qualcuno mi domanda quanto dovrà ancora stare in prigione il povero padre Balducci.
ma non sempre
Dicevamo dunque che oggi le nostre due leggi quasi coincidono. Ci sono però dei casi eccezionali nei quali vige l'antica divergenza e l'antico comandamento della Chiesa di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Ho elencato nella lettera incriminata alcuni di questi casi. Posso aggiungere altre considerazioni.
l'obiezione di coscienza e il Concilio
Cominciamo dall'obiezione di coscienza in senso stretto. Proprio in questi giorni ho avuto conforto dalla Chiesa anche su questo punto speciflco. Il Concilio invita i legislatori a avere rispetto (respicere) per coloro i quali "o per testimoniare della mitezza cristiana, o per reverenza alla vita, o per orrore di esercitare qualsiasi violenza, ricusano per motivo di coscienza o il servizio militare o alcuni singoli atti di immane crudeltà cui conduce la guerra". (Schema 13 paragrafo' 101). Questo è il testo proposto dalla apposita Commissione la quale rispecchia tutte le correnti del Concilio. Ha quindi tutte le probabilità d'essere quello definitivo). Quei 20 militari di Firenze han detto che l'obiettore è un vile. Io ho detto soltanto che forse è un profeta. Mi pare che i Vescovi stiano dicendo molto più di me.
tre fatti sintomatici
Ricorderò altri tre fatti sintomatici. Nel '18 i seminaristi reduci di guerra, se vollero diventare preti, dovettero chiedere alla Santa Sede una sanatoria per le irregolarità canoniche in cui potevano essere incorsi nell'obbedire ai loro ufficiali.
Nel '29 la Chiesa chiedeva allo Stato di dispensare i seminaristi, i preti, i vescovi dal servizio militare. Il canone 141 proibisce ai chierici di andare volontari a meno che lo facciano per sortirne prima (ut citius liberi evadant)! Chi disobbedisce è automaticamente ridotto allo stato laicale. La Chiesa considera dunque a dir poco indecorosa per un sacerdote l'attività militare presa del suo complesso. Con le sue ombre e le sue luci. Quella che lo Stato onora con medaglie e monumenti.
l'uccisione dei civili
E infine affrontiamo il problema più cocente delle ultime guerre e di quelle future: l'uccisione dei civili. La Chiesa non ha mai ammesso che in guerra fosse lecito uccidere civili, a meno che la cosa avvenisse incidentalmenle cioè nel tentare di colpire un obiettivo militare. Ora abbiamo letto a scuola su segnalazione del Giorno un articolo del premio Nobel Max Born (Bullettin of the Atomic Scientists, aprile 1964). Dice che nella prima guerra mondiale i morti furono 5% civili 95% militari (si poteva ancora sostenere che i civili erano morti "incidentalmente").
nelle ultime tre guerre
Nella seconda 48% civili 52% militari (non si poteva più sostenere che i civili fossero morti "incidentalmente").
In quella di Corea 84% civili 16% militari (si può ormai sostenere che i militari "muoiono incidentalmente").
la strategia d'oggi
Sappiamo tutti che i generali studiano la strategia d'oggi con l'unità di misura del megadeath (un milione di morti) cioè che le armi attuali mirano direttamente ai civili e che si salveranno forse solo i militari.
Gandhi
Che io sappia nessun teologo ammette che un soldato possa mirare direttamente (si può ormai dire esclusivamente) ai civili. Dunque in casi del genere il cristiano deve obiettare anche a costo della vita. Io aggiungerei che mi pare coerente dire che a una guerra simile il cristiano non potrà partecipare nemmeno come cuciniere. Gandhi l'aveva già capito quando ancora non si parlava di armi atomiche. "Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra (Non-violence in peace and war.Ahmedabad 14 vol. 1).
A questo punto mi domando se non sia accademia seguitare a discutere di guerra con termini che servivano già male per la seconda guerra mondiale.
la guerra futura
Eppure mi tocca parlare anche della guerra futura perché accusandomi di apologia di reato ci si riferisce appunto a quel che dovranno fare o non fare i nostri ragazzi domani. Ma nella guerra futura l'inadeguatezza dei termini della nostra teologia e della vostra legislazione è ancora più evidente.
sparare per primi
E' noto che l'unica "difesa" possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa 20 minuti prima del "aggressore".
Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa.
vendicarsi
Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che per sua "difesa" spari 20 minuti dopo. Cioè che sparino i suoi sommergibili unici superstiti d'un paese ormai cancellato dalla geografia. Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta non difesa. Mi dispiace se il discorso prende un tono di fantascienza, ma Kennedy e Krusciov (i due artefici della distensione!) si sono lanciati l'un l'altro pubblicamente minacce del genere. "Siamo pienamente conspevoli del fatto che questa guerra se viene scatenata, diventerà sin dalla primissima ora una guerra termonucleare e una guerra mondiale. Ciò per noi è perfettamente ovvio" (lettera di Krusciov a B. Russell, 23-10-19C23). Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una "guerra giusta" né per la Chiesa né per la Costituzione.
sopravvivenza della specie umana
A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana. (Per esempio Linus 'Pauling premio Nobel per la chimica e per la pace). E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?
Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di andare a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura.
Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità.
salvarsi l'anima
Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci salveremo almeno l'anima.
4) Lettera di Don Lorenzo Milani e Don Bruno Borghi a tutti i sacerdoti della diocesi Fiorentina e per conoscenza all'arc. mons. FLORIT (1.10.1964)
Caro confratello,
abbiamo sentito da più parti un coro di rammarico alla notizia che monsignor Bonanni non è più rettore. L'argomento non può non interessarci: il Seminario è un fatto di tutti noi, non un fatto privato del Vescovo. E non solo di noi sacerdoti, è anche un fatto di tutto il popolo cristiano che chiamiamo a contribuire al mantenimento dei seminaristi, che dovrà domani accettarli come padri e maestri, che porterà le conseguenze di un migliore o peggiore sistema educativo in Seminario.
Probabilmente tutti i sacerdoti fiorentini in questi giorni hanno parlato del problema del rettore con qualche confratello. Molti avranno sentito il desiderio di parlarne anche col Vescovo e se poi non ne hanno trovato il modo, I'occasione o il coraggio, hanno sentito il disagio di aver parlato alle spalle di un assente e d'aver taciuto con lui. Siamo stati abituati a considerare il silenzio in casi simili come un segno di rispettosa sottomissione all'autorità. Ma sotto sotto sappiamo che è più comodo tacere che parlare e forse il silenzio non è che un sistema per scaricare sul Vescovo il barile della nostra responsabilità.
L'episodio Bonanni non è che uno fra tanti. Forse quello che ha colpito un maggior numero di sacerdoti. Un altro, sicuramente più grave, è quello del padre Balducci: l'Acivescovo ha posto i cattolici fiorentini nella condizione di doversi regolare con la sola coscienza in materia di teologia come se fossero protestanti. Non ha risposto alle loro precise domande scritte, mentre i due giornali fiorentini sostenevano due oppostissime opinioni teologiche e due giudici laici si permettevano di sentenziare in materia di dottrina cattolica e perfino di mettere in dubbio la buona fede di un sacerdote e di un maestro di ineccepibile dottrina e rettitudine quale padre Balducci. Che si sappia noi due, in quell'occasione, scrissero all'Arcivescovo i parroci d'un solo vicariato.
Un terzo episodio, quello che all'annuncio ci aveva dato la speranza di un primo tentativo di dialogo tra l'Arcivescovo e noi, cioè la riunione preconciliare, si risolse in un monologo e non ci fu data la possibilità di parlare. Purtroppo anche quella volta non abbiamo reagito.
Ma questi non sono che tre episodí di un problema molto più generale: il problema del dialogo. Il Papa ha chiamato i Vescovi a dialogo, perché il Vescovo chiamasse a dialogo i parroci, il parroco i parrocchiani lontani e vicini. Se manca un solo anello di questa catena il messaggio di Giovanni XXIII e il Concilio non raggiungono il loro scopo. A Firenze un anello manca certamente: il dialogo tra il Vescovo e i parroci e questo proprio nel momento in cui maturava l'esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti. Abbiamo da parlare con tutti e non parliamo al Vescovo e il Vescovo non parla a noi! Il 90% dei Vescovi e due Papi hanno scelto la via dell'apertura e del dialogo. E’ l'ora di svegliarsi e d'accorgersi che la Chiesa fiorentina col suo muro tra Vescovi e preti è ormai al margine della Chiesa cattolica. Ma è anche al margine del mondo d'oggi. Quel mondo d'oggi cui Giovanni XXIII guardava con tanta affettuosa stima in cerca delle verità che Dio vi ha certamente nascoste, perché anche noi le trovassimo e le facessimo nostre. Quel mondo ci guarda con giusto disprezzo e si allontana sempre più da noi e dalle tante verità che a nostra volta potremmo offrirgli.
Per esempio un episodio come quello Bonanni in cui un rettore dopo sei anni di servizio viene sostituito per motivi che non sono stati comunicati, urta la sensibilità del mondo d'oggi di cui facciamo parte e che è ormai abituato a non accettare provvedimenti non motivati. Perché un importante provvedimento che non sia stato pubblicamente motivato è infamante per chi ne è l'oggetto. Offende poi la dignità di quanti sono direttamente o indirettamente interessati al problema. Li tratta come animali inferiori cui non si deve spiegazione e da cui non s'accetta consiglio. Dare, togliere, accettare e tenere le cariche come se le cariche fossero solo onori alla persona, problemi di carriera e non luoghi di servizio per i quali non si può pensare di servire senza una specifica competenza! I laici d'oggi restano a bocca aperta di fronte a questo settecentesco modo di concepire l'autorità. La possibilità di ricorrere contro le decisioni dell'amministrazione è stata introdotta in Italia da quasi un secolo, la motivazione obbligatoria delle sentenze, il diritto di difesa ecc. appartengono ormai al patrimonio di tutta l'umanità civile. Possiamo rinunciarci noi sacerdoti per una esigenza di ascetica personale, ma i laici d'oggi, cristiani e non cristiani, non possono capire perché solo noi non vogliamo tendere l'orecchio ai " segni dei tempi ", adeguarci a esigenze così universalmente accettate.
Veniamo al pratico: Non scriviamo con l'intento di far recedere l'Arcivescovo dalla sua decisione sul Seminario. Quel che ci proponiamo è solo di creare una qualsiasi forma di dialogo tra noi e lui, un'usanza di parlargli, un nuovo stile di rapporto. Non è con i telegrammi d'auguri, il regalo di una croce pettorale e le genuflessioni che si mostra l'amore al Vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sagrestia.
Perciò, prendendo spunto dal caso Bonanni, abbiamo pensato di proporre a tutti i sacerdoti fiorentini l'inizio in concreto del dialogo: chiediamo all'Arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato ormai anche dal Papa e perfino dai comunisti. Chiediamogli di parlare anche con noi dei motivi della sostituzione del rettore. La nostra qualità di figli maggiorenni e di corresponsabili ce ne darebbe quasi un diritto. Ma non lo avanziamo. Lo chiediamo per piacere.
Può darsi benissimo che la tecnica del dialogo che abbiamo scelta sia sbagliata. Ce ne suggerisca lei una migliore per la prossima volta. Ma non rinunciamo per un puntiglio formale all'idea di creare un nuovo rapporto finalmente filiale tra noi e il Vescovo. Se si pretende che l'iniziativa risponda perfettamente ai gusti d'ognuno succederà che non se ne farà di nulla . Abbiamo preparato l'accluso cartoncino (nota). Come vede il testo che le proponiamo è volutamente contenuto nella forma più attenuata e rispettosa proprio per venir incontro al maggior numero di sacerdoti. Se le va bene, la preghiamo di firmarlo e di inviarlo all'indirizzo di don Borghi. Se preferisce un altro testo, un po' diverso oppure anche di opposto contenuto, lo invii egualmente, e don Borghi sarà ben lieto di consegnarlo personalmente all'Arcivescovo insieme agli altri.
Fraterni saluti
Bruno Borghi sac. Lorenzo Milani sac.
Nota: Il cartoncino allegato diceva:
“Eccellenza, la notizia che mons. Bonanni ha lasciato il Seminario mi ha dolorosamente impressionato. Pur accettando con assoluta disciplina la sua decisione, le sarò filialmente grato se vorrà parlare anche con noi dei motivi che l'hanno indotta a questa decisione. Vorrei anche che questo fosse il primo passo verso un dialogo tra Vostra Eccellenza e noi almeno sui problemi più gravi che via via si presenteranno nella nostra Diocesi”
L’arcivescovo non si fa attendere e la settimana dopo invia la seguente circolare datata 11 ottobre 1964:
" all'Ecc.mo Vescovo Ausiliare, ai Camarlinghi del Capitolo Metropolitano, ai Rettori dei Seminari fiorentini, ai Vicari urbani e foranei, per conoscenza di tutti i sacerdoti dell'Arcidiocesi: " Desidero, per loro tramite, far pervenire il mio paterno ringraziamento ai sacerdoti che, per iscritto o a voce, singolarmente o a gruppi, hanno voluto rinnovare al loro Arcivescovo la riverenza ed obbedienza promesse nel giorno della loro ordinazione. E’ motivo di conforto per me vedere rinsaldarsi nei miei preti la fede soprannaturale nei princìpi gerarchici sui quali, per volontà di Cristo, si regge la Chiesa. " Quanto al "dialogo", penso che sia necessario ricercarne l'ispirazione anzitutto nel colloquio intenso e perenne con Dio, senza del quale i fermenti del tempo potrebbero inquinare o rendere meno genuino il nostro rapporto con la Chiesa e con gli uomini, e meditare la recente enciclica Ecclesiam suam del Santo Padre Paolo VI che con sereno equilibrio ed apostolica apertura ci reca l'autentica e sola direttiva della Chiesa in materia, manifestando così la volontà del Signore a nostro riguardo. “Né possiamo dimenticare la lettera dell'Episcopato italiano ai sacerdoti del 25 marzo 1960, con particolare riferimento al n. 13, che tratta l'argomento "Il Laicismo e il Clero”. Certe manifestazioni a tutti note, mentre attestano l'attualità di quel documento, non possono spiegarsi che con la penetrazione anche fra noi di princìpi e di atteggiamenti già ivi riprovati, e certo non conformi allo spirito sacerdotale.
"In Diocesi sono in atto da tempo iniziative utili e feconde; saranno proseguite, nello spirito di carità e di collaborazione fraterna fra sacerdoti che è alla base della vera "pastorale d'insieme". Il senso della Redenzione, fondamento del nostro sacerdozio, ci insegnerà a valorizzare in una luce soprannaturale anche le carenze, i difetti, le stesse eventuali delusioni che possono provenire dalla nostra comune umana limitatezza e dal difficile e pur fecondo processo di transizione che la Chiesa e il mondo oggi attraversano. Forse ciò richiederà a ciascuno di noi d'accogliere con fede più profonda la propria croce che rimane, anche nel mondo moderno, la più sicura e consolante certezza.
Per i due sacerdoti che in questi giorni, tanto avventatamente e nella forma più inopportuna, hanno dato a me, loro Vescovo, pubblico motivo di sofferenza ed alla Comunità diocesana ragione di frattura e di dissenso, chiedo al Signore che non venga meno la loro fede. Tengo a rilevare che essi potranno ottenere da me, in ogni momento, le lettere di escardinazione e procurarsi così quella libertà e serenità che è da loro richiesta, scegliendosi una Diocesi che sia in grado di corrispondere alle loro esigenze. Il Vescovo non porrà alcun ostacolo alle loro eventuali decisioni.
Tutti benedico, con cuore paterno. Ermenegildo Florit, arc.
LIBRI E ARTICOLI
Maurizio di Giacomo,
“Don Milani tra solitudine e Vangelo”,
2001, Roma, Borla, pagine 416.
2001, Roma, Borla, pagine 416.
Don Milani privato. Nuove carte.
Pasolini lo definì: «una figura disperata e consolatrice».
Nel libro di Di Giacomo, documenti inediti sul prete di Barbiana
Una nuova biografia integrata con numerosi documenti inediti arricchisce la conoscenza della figura e dell’opera di don Lorenzo Milani, scomparso a 44 anni nel 1967. Questo libro di Maurizio Di Giacomo, collaboratore dell’Ansa, rilegge don Milani in “chiave esistenziale”, quasi saldando in un’unica trama il contesto socio religioso, i suoi scritti pubblici e privati e portando alla luce aspetti poco noti della sua dimensione privata.
Il parroco di Barbiana da quest’opera emerge come un anticipatore dell’alfabetizzazione quale via per accedere al Vangelo: il suo libro “Esperienze Pastorali” nel 1958 fu fatto ritirare dal commercio dal Sant’Uffizio perché troppo all’avanguardia sui suoi tempi. Maestro tra i “montanari” del Mugello, Don Milani ha innovato anche nella scuola: la “Lettera a una professoressa” ha influenzato il ‘68 italiano, ha lasciato traccia negli studi di linguistica ed è tuttora presente nei dibattiti sulla scuola.
Don Milani ha difeso gli obiettori di coscienza al servizio militare, nel 1965, sette anni prima che fossero legalizzati, e per le sue prese di posizioni non violente ha subito un processo presso il Tribunale di Roma. Nel libro spiccano due lettere inedite di don Milani a Giuseppe Gozzini, il primo obiettore al servizio militare con motivazioni religiose in Italia, e le famose lettere aperte a un gruppo di ex cappellani militari e ai giudici, che, da tempo, sono studiate in alcune università degli Stati Uniti come un “classico” della letteratura italiana. Nella prima lettera a Gozzini, tra l’altro, don Milani svela un errore di citazione da lui compiuto nella foga di scrivere quella lettera aperta in difesa degli obiettori di coscienza: anziché citare Benedetto XV, il papa che definì la prima guerra mondiale «un’inutile strage», assegna quella definizione a un altro pontefice.
Questo sacerdote, strenuamente ortodosso, ha aperto anche la strada al dialogo ecumenico: a Barbiana ha insegnato un pastore valdese, Roberto Nisbet (del quale il volume riporta la corrispondenza inedita con don Milani) e rapporti epistolari sono esistiti con un altro noto pastore protestante: Giorgio Girardet. Tra gli altri documenti inediti spiccano una lettera del gennaio 1959, dopo le sanzioni per “Esperienze Pastorali”, di uno dei maestri del giornalismo nazionale: Indro Montanelli, e una lettera a don Milani di don Primo Mazzolari, una delle voci più profetiche negli anni Cinquanta del cattolicesimo italiano.
A completare la chiave esistenziale di questa biografia, infine, due documenti inediti. Un colloquio con don Raffaele Bensi, il principale confessore di don Milani, nel dicembre 1967, pochi mesi dopo la morte del priore di Barbiana. Il secondo e ultimo documento aggiunge nuovi dettagli all’itinerario umano di Carla Sborgi, la “quasi fidanzata” di Lorenzo Milani prima del suo ingresso in seminario e rimasta in amicizia con lui, tanto da essere invitata, a Firenze, al suo capezzale durante la fase terminale della malattia.
Questo libro viene pubblicato mentre i riferimenti a don Milani tramite Internet sono in crescita costante e allorché, nel capoluogo toscano, sta per decollare, entro la fine del 2001, una “Fondazione” su scala nazionale a lui dedicata.
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Adista > Archivio anno 2007 > Adista Documenti N°46
IL DON MILANI "INEDITO" DI "ESPERIENZE PASTORALI".
UN LIBRO DI SERGIO TANZARELLA
DOC-1874. ROMA-ADISTA. Il suo nome è legato soprattutto a Lettera a una professoressa e a L’obbedienza non è più una virtù, ma il testo fondamentale per comprendere in profondità la vita e la vicenda di don Lorenzo Milani - di cui, il prossimo 26 giugno, ricorreranno i quarant’anni dalla morte - è Esperienze pastorali. Iniziato negli anni in cui don Milani era cappellano, cioè viceparroco, a San Donato di Calenzano (fra il ‘47 e il ‘54), il libro - un’analisi della società e della prassi ecclesiale del tempo a partire dalla sua ‘esperienza pastorale’ nella parrocchia di San Donato - venne pubblicato nell’aprile 1958, quando Milani era già stato ‘esiliato’ a Barbiana, nel Mugello. A settembre, però, La Civiltà Cattolica pubblicò una severa stroncatura del testo (firmata dal gesuita p. Angelo Perego) che precedette di tre mesi la condanna del Sant’Uffizio: il libro venne “ritirato dal commercio” poiché conteneva “ardite e pericolose novità” in campo sociale. Un giudizio formalmente mai corretto, tanto che la scorsa settimana gli ex allievi di don Milani hanno chiesto alla Congregazione per la Dottrina della Fede, e allo stesso Benedetto XVI, di cancellare una ‘condanna’ nei confronti di un libro che aveva le sole colpe di anticipare quello che poi avrebbe detto il Concilio e di puntare il dito contro le ingiustizie sociali che affliggevano l’Italia degli anni Cinquanta.
Esce in libreria in questi giorni il primo studio storico, nella sterminata bibliografia milaniana, dedicato esclusivamente ad Esperienze pastorali: Gli anni difficili. Lorenzo Milani, Tommaso Fiore e le Esperienze pastorali (Il Pozzo di Giacobbe, pp. 278, euro 20; per ordinazioni: tel.0923/540339, e-mail: info@ilpozzodigiacobbe.com), di Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Il volume, oltre ad una accurata ricostruzione storico-sociale dell’Italia e della Chiesa degli anni ‘50 – dalla mancata attuazione della Costituzione alle difficili condizioni dei lavoratori, dal collateralismo Chiesa-Dc alla vicenda del vescovo di Prato e dei “pubblici concubini” fino al caso del ‘banchiere di Dio” Giuffrè e della sua “usura alla rovescia” – presenta alcune importanti novità arricchite da inediti significativi: le pagine della versione originale di Esperienze Pastorali con le varianti; le correzioni proposte dal revisore ecclesiastico, il domenicano p. Reginaldo Santilli; e le scelte definitive di don Milani; e il carteggio, mai pubblicato fino ad ora, fra don Milani e l’intellettuale meridionalista Tommaso Fiore.
Il libro, scrive Tanzarella nell’introduzione, vorrebbe incoraggiare “ad accostarsi direttamente alla fonte primaria e insostituibile degli scritti di don Milani”, il quale “mal si adatta a taluni recuperi di agiografia spicciola idealizzante che, cancellando l’identità di una fede indisponibile al compromesso e alla sonnolenza, lo vorrebbero ridurre ad innocuo santino o a certa banale appropriazione partitica che desidera porre la sua immagine a servizio della propria causa”, “fino alla sfrontatezza di utilizzare un motto che era oggetto di ispirazione della sua scuola – I care – come logo di un Congresso di partito” (i Ds, nel gennaio 2000, ndr).
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OGGI
intervista di Neera Fallaci
al pittore Hans Joachim Staude
Fu il pittore Hans Joachim Staude a indirizzare Lorenzo Milani, con i suoi insegnamenti sull'arte, alla ricerca di un "assoluto spirituale". Lo si deduce chiaramente dai ricordi di Staude stesso registrati non molto tempo prima che l'artista morisse.
Lo andammo a trovare nel padiglione dell'ospedale di Firenze dov'era ricoverato. Aveva pudore a lasciar ascoltare i suoi discorsi al compagno di camera. Preferì alzarsi dal letto su cui stava disteso e, camminando con una lentezza che accentuava la sensazione di fragilità della sua persona alta e magra, si diresse in una stanza vuota con degli attrezzi per la fisioterapia. E lì ci parlò di Lorenzo Milani, delle idee sulla pittura che gli aveva comunicato, esprimendosi in un curioso italiano dalla cadenza tedesca, e le "c" e le "p" aspirate alla fiorentina.
Parlò a lungo, con garbo da gran signore, spesso indugiando su una frase, su un pensiero: pareva dargli noia, soprattutto con certe riflessioni sull'arte, uscire dal suo guscio di riservatezza. D'un tratto, fece: "Io devo essere con lei molto scortese, ma mi sento debole". Si alzò e si allontanò. Camminando ancora più lentamente, diafano e fragile. Un cancro ai polmoni gli avrebbe concesso altri tre mesi di vita soltanto.
Signor Staude, come conobbe Lorenzo Milani?
"Lo accompagnò nel mio studio in via dei Serragli, a Firenze, il professor Giorgio Pasquali: un uomo famoso che mi onorava della sua amicizia. Eravamo stati qualche volta insieme anche a passeggiare su Monte Morello. Aveva questa curiosità verso di me, forse perché sono tedesco e lui parlava tedesco. Poi conosceva la mia pittura, sapeva che insegnavo. E mi offrì una vera prova di fiducia accompagnando da me, come scolalro il figlio di un amico. Mi presentò Lorenzo Milani: un ragazzo con una bella figura slanciata, simpatico, cortese con grande naturalezza, l'aria tipica del giovane di famiglia benestante. Pasquali spiegò che era figlio di un suo amico carissimo, e pronipote del grande umanista Comparetti. Aggiunse che il ragazzo aveva detto di voler fare il pittore, appena ottenuta la maturità classica, con grande sorpresa dei genitori a cui prima non aveva mai accennato nulla del genere".
Lorenzo Milani non le disse che gli piaceva dipingere da ragazzino?
"No. Trovai in questo scolaro una completa non preparazione. Fui io a fargli fare il primo, vero disegno della sua vita. Mi resi subito conto che era un giovane dotato di grande intelligenza. Così, invece di limitarmi a correggere i suoi disegni, gli spiegai da che cosa doveva partire: gli parlai della scelta di tutto ciò che è essenziale; gli parlai della semplificazione; gli parlai della unità che deve regnare in ogni lavoro, disegno o pittura che sia. E lui capì al volo queste cose. Si mise subito, con moltissimo impegno, a tentare di metterle in pratica. "Per me, una cosa memorabile è proprio lo slancio con cui si mise all'opera per realizzare quanto gli avevo comunicato. Mai avevo trovato tanta veemenza in uno scolaro. Mentre fuori era il più bel maggio del mondo, si chiuse in questo studio polveroso che prendeva luce da nord. E rimase lì, per cinque o sei ore, a disegnare un manichino di legno che gli avevo dato come soggetto. La sera, tornando nello studio, trovai che aveva coperto di disegni un mucchio di fogli. Mi sentii molto soddisfatto: aveva capito bene la lezione. Però non mi convinse. Aveva capito tutto quanto gli avevo detto, ma rimaneva in quei disegni una sorta di freddezza. La sua era semplicemente una severa applicazione di regole che aveva sentito. E' importante che, nel lavoro dello scolaro, ci sia qualcosa di inatteso, che non gli hai dato te, che viene fuori da una sua interpretazione. In quei disegni non c'era. Non ho mai creduto, neanche per un momento, che la pittura fosse la strada di Lorenzo Milani: mai.
Quell'estate, venne con me e la mia famiglia sul Lago Maggiore. L'osservavo mentre dipingeva. Metteva sempre il cavalletto accanto al mio. Tentavo di allontanarlo: "Cerca da solo il tuo soggetto. Voglio che tu parta da una sensazione tua, non che ti imbarchi sulla mia barca". Girava per una mezz’ora, e poi finiva per tornarmi vicino. Eppure doveva aver capito abbastanza, per prendere quanto aveva capito e adoperarlo con un soggetto suo. In quel periodo non riusciva a scegliere un soggetto da sé ".
Copiava lei?
" No! Questo non è vero. Per esempio, standomi al fianco col cavalletto, Lorenzo dipinse un quadro: una cosa molto semplice ma dove c'è una forza tutta sua. L'ho in casa io quel quadro. E' uno scorcio di via delle Campora, la strada dove abitavo anche allora. Si vedono dei muri fiorentini con degli olivi, un cipresso, nessuna ombra... Poi ho visto, in casa della madre, dei paesaggi che Lorenzo Milani dipinse quando aveva uno studio a Milano. Anche lì ci ho trovato della personalità. Era un ragazzo capace di avvertire un godimento sensuale per il colore. Invece, come disegno di figura umana, non ricordo di aver visto qual cosa che mi avesse impressionato. Cominciò a disegnare figura quando era ancora con me. Uno dei suoi primi soggetti fu il ragazzo del macellaio che aveva una bella testa, con un profilo perfetto".
Un sacerdote catalano ha scritto che lei, signor Staude, è "un uomo profondamente credente" e che, a Lorenzo Milani, "sottolineava sempre l'importanza dello spirito religioso nella pittura".
" Veramente sono un uomo che è molto lontano dal cristianesimo. Sempre più lontano. Sono un simpatizzante del pensiero dell'oriente; buddismo, insomma. In un momento di grande difficoltà e di smarrimento, ho ricavato un aiuto enorme da un libro che parlava di esercizi spirituali orientali: esercizi di respirazione, di autotranquillizzazione... Sono díventati una parte importante della mia esistenza. Mi mettono in contatto con ciò che è essenziale. Non so se lei conosce una frase di Eckhart, il mistico tedesco del Trecento, che dice: "Non pregare. Ascoltare". Comprende il significato di quell'"ascoltare?" Ma questi sono pensieri che ho chiarito molto più tardi. Con Lorenzo parlavo del senso sacrale della vita. Perché il mio scopo di pittore è di far diventare sacra la realtà che mi circonda, è di esprimere "il santo" che è nel profondo di tutti noi... E' la prima volta che dico queste cose. Le dimentichi".
Lei ha una scuola Signor Staude?
"No, una scuola no. Ho uno studio in via dei Serragli, sull'angolo di via Serumido, dove ammetto dei giovani a lavorare con me. L'insegnamento è un fattore molto importante della mia vita. Direi che il comunicare le mie esperienze a degli scolari è quasi importante, per me, quanto la pittura stessa. L'essere continuamente circondato da gente che vuole imparare, mi toglie quel senso di solitudine che spesso un artista può sentire. Non mi sento affatto un isolato. Lorenzo Milani è stato uno dei primi scolari a farmi comprendere come l'insegnamento sia una cosa degna. Anche se non ho mai creduto, ripeto, che la pittura fosse la sua strada".
E quale pensava fosse la strada di Lorenzo Milani?
" A me sembrava un ragazzo più portato per la letteratura. Quell'estate sul Lago Maggiore, ricordo con quale entusiasmo leggesse D'Annunzio. Ma non aveva gusti estetizzanti, come altri giovani intellettuali della sua generazione. Approfondiva sempre tutto. Non parlava per esprimere un pensiero con eleganza. Parlava per capire meglio le cose. Voleva capire sempre più a fondo, chiarirsi bene le idee ".
Con lei ascoltava o discuteva?
"Ascoltava molto. Molto. Non ho mai avuto discussioni con lui. Avrebbe dovuto insistere più a lungo con la pittura per arrivare al punto di potermi dar battaglia, non le pare? Nel tempo che è rimasto con me, mi sono sempre sentito il maestro".
Quanto tempo studiò pittura con lei?
" Non molto. Da maggio a settembre, se la memoria non mi tradisce. Poi tornò a Milano. Mi meravigliai che non continuasse a studiare con me: l'avevo sentito affezionato, molto interessato... Era nata anche una buona amicizia tra noi, tanto che ci davamo del "tu". Per questo mi chiedevo: "Ma perché torna a Milano?" Mi accorgo però, ora che lei mi sta interrogando, come in fondo sapessi poco di Lorenzo. Ero sempre troppo preso dal mio lavoro, per provare curiosità verso lo scolaro. Mi vengono in mente soltanto alcune cose. Che era uno sportivo... Uno sportivo strano che giocava anche agli scacchi e che amava discutere della Divina Commedia con persone competenti.
A Milano sarà tornato semplicemente perché la sua famiglia, a quel tempo, viveva lì.
O, forse, perché stando nel mio studio gli mancava l'eco dei suoi amici. Sentivo qualche volta, mentre lavorava con me, che aveva bisogno di quegli interlocutori. Si vedeva che stava volentieri in mezzo ai giovani, e che c'era in lui questo desiderio di vivere in una comunità. Secondo me, era predestinato a finire in un convento o in un esercito. Insomma era un uomo che doveva stare tra gli uomini. Anche a Barbiana le sue scolare non avevano mai con lui quella vicinanza che potevano avere i ragazzi. Barbiana era una comunità maschile; come Calenzano, del resto".
Le ha mai scritto dopo aver smesso di studiare con lei?
" Ricordo due lettere che mi scrisse a non più di cinque settimane di distanza. Era passato molto tempo dalla sua partenza per Milano. La prima di quelle due lettere era piena di notizie. Tra l'altro, Lorenzo mi scriveva che aveva conosciuto Bruno Cassinari: " Ho incontrato un pittore che mi interessa abbastanza come individuo. Fa una pittura strana. Ci vediamo qualche volta ". Ne parlava come di una conoscenza occasionale, non come una amicizia.
Nella stessa lettera accennava a una ragazza di Milano con la quale discuteva molto di liturgia. E, nel postcriptum, diceva queste parole:
" Tra poco, mi farò frate ". Proprio: frate. Io la presi per una boutade, per uno scherzo, tanto che non toccai neanche quell'argomento nella risposta. La presi per uno scherzo, perché sapevo come la pensasse sui preti e sulla chiesa quando era mio scolaro. Nella lettera che mi scrisse dopo non più di cinque settimane, mi comunicava che era deciso a farsi prete e a entrare in seminario".
E' sicuro che le lettere venissero da Milano?
" Sì. Ma non so precisare che date avessero, perché è passato troppo tempo. Dopo non ci siamo più sentiti, se non quando lui era già in seminario... Le racconto volentieri questo. Lorenzo era già in seminario a Cestello, qui a Firenze. Venne a trovarmi in via delle Campora. Stava molto bene col nero ma, personalmente, non lo vedevo volentieri con quel vcstito nero. E colsi l’occasione per chiedergli: " Ma Lorenzo, dimmi un pò, come mai questo cambiamento? " Perché, ripeto, prima era stato molto lontano da preti e chiesa, diciamo così. Dette una risposta per me indimenticabile: "E’ tutta colpa tua. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un'unità dove ogni parte dipende dall'altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un'altra strada ". " Ebbi un sussulto. Ero molto contento, perché aveva ascoltato quanto avevo cercato di comunicargli. Anzi, mi sentii battuto: compresi che aveva fatto un passo più grande del mio... anche se non ci tenevo affatto a imitarlo. Poi Lorenzo ha avuto quella magnifica vita. Lo dimostra il fatto che, dopo tanti anni, è una figura talmente presente, talmente vibrante, che ancora porta all'entusiasmo molte persone. E che arricchimento hanno avuto da un simile incontro i suoi scolari! In questo c'è la gloria di Lorenzo ".
Seguitò a vederlo quando divenne prete?
" Nei tempi in cui era in seminario ci siamo veduti pochissimo. Tenga presente che c'era anche la guerra. E poi ci fu il passaggio del fronte dalla città. Eravamo in ottimi rapporti quando Lorenzo era cappellano a San Donato, dove aveva aperto una scuola popolare per giovani operai e contadini. Una volta mi chiese di tenere una conferenza su Bach alla sua scuola, perché io amo molto la musica. Mi chiese, in particolare, di suonare al pianoforte brani di Bach spiegandoli. Mi piacque l'idea di collaborare con lui: lo trovavo originalissimo, lo ammiravo. Fu una serata indimenticabile. C'era una curiosità, un'avidità di sapere in quei giovani. Un contatto davvero molto vivo. Poi suonai anche delle canzoni francesi e le cantammo tutti insieme..
" A Barbiana le cose cambiarono. Era ammirevole osservarlo circondato dai suoi ragazzi. C'era intorno a lui una calda atmosfera d'amore: perché era veramente amore quello che ogni ragazzo gli dimostrava, e che lui dimostrava a ognuno di loro. Ma c'erano cose che non mi piacevano. Per esempio trovavo che esagerava quando, per rimproverare i bambini, usava espressioni tipo " bischeraccio ". Mi dava noia. Naturalmente non fu per quello che mi allontanai, che gli facevo solo qualche visita ogni tanto... Lo vedevano molto di più amici come Giorgio Falossi, che erano diventati fervidi ammiratori e seguaci di Lorenzo Milani proprio ai tempi di Barbiana. Mi allontanai in quanto ero abituato a essere io quello che comunicava a lui. Ma non era più curioso di quello che potevo comunicargli ".
Era diventato lui il maestro.
" Sì, ma non per me. Io non lo volevo affatto come maestro! Aveva da insegnare qualcosa che non mi toccava. Perché ora le parlo molto liberamente. Io non l'ho mai visto volentieri con quel vestito nero. Mi dispiaceva che fosse entrato nella Chiesa cattolica dove, tra l'altro, ha dovuto urtarsi e soffrire parecchio. E mi ha sempre meravigliato quel suo volerci restare dentro, nonostante le vessazioni che aveva ricevuto e riceveva. Ma chi glielo faceva fare? Per me era, ed è, una cosa difficile da capire. Addirittura incomprensibile".
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LA REPUBBLICA (11 marzo 2010)
Lettera di una professoressa a don Milani
di Mila Spicola *
Caro don Lorenzo,
sono passati quanti anni dalla lettera che mi hai inviato? 42? 43? Il mondo è cambiato mille volte da allora. E’ cambiato il mondo, sono cambiata io, anche se ho esattamente gli stessi anni di quella lettera che tengo sul comodino e conosco a memoria. Eppure io mi ritrovo a insegnare incredibilmente nella scuola dei tuoi poveri Giovanni, sempre più distinti dai ricchi Pierini. Non a Barbiana, bensì in una periferia palermitana, in Sicilia, nella regione più povera d’Italia. Quella che avrebbe bisogno di attenzioni e aiuti e invece ha avuto, indistintamente, gli stessi identici tagli che si sono verificati altrove. Solo che qui un taglio è la decapitazione. “Non si divide una torta in parti uguali tra diseguali”, così mi hai spiegato e mi avevi convinta. 40 anni fa, ci avevi convinti tutti. Noi insegnanti e quelli che decidono. Avevamo capito la tua lezione. Ci abbiamo provato a fare una scuola migliore. E l’avevamo fatta, lasciamelo dire, prima che arrivasse questo disastro.
I tuoi erano altri tempi e altre anime. Da un lato c’era l’ignoranza, quella vera, quella che vivevi come un onta e dall’altra, come un sole, come una promessa di progresso, la cultura. I pochi che sapevano guidavano dall’alto lo sterminato numero di quanti non sapevano. Io ero tra quelli che sapevano, e me ne vantavo, nel bene e nel male. Ero una professoressa e persino don Milani, tu, mi temevi, mi rispettavi, riconoscevi un valore in quello che facevo. Oggi è il contrario. Sembra quasi che la cultura sia un’onta e che tutto sia riducibile a quantità. Tutto, ogni cosa. Non solo la cultura dobbiamo difendere, ahinoi. Dobbiamo rispiegare da zero alcune cose che avevamo assunto per fondamenta: il valore delle regole, dell’onestà, della legalità, della dignità, della coesione sociale. Si sono sfaldate mentre stavamo nelle classi: senza accorgercene ce le siamo fatte levare una ad una quelle certezze. Siamo rimaste così: oltre ai gessetti ci hanno tolto la terra da sotto i piedi. La terra delle quantità al posto dell’humus delle qualità.
Tutto è quantificabile, solo quantificabile. E se è quantificabile, allora ha un prezzo. Persino la scuola. Ci hanno costretto a fare questo. Soldi che sono “sprecati”, soldi che servono ad altro (che altro può esserci di più importante mi chiedo), soldi che non servono, e intanto le nostre scuole crollano a pezzi. Mentre a noi tolgono soldi, tantissimi, altrettanti direi, vengono assegnati a mille altre cose che non sto nemmeno a dirti. Il che la dice lunga su quale sia la scala delle priorità di chi governa oggi. “Piano casa”? Perché non un “piano scuole”? Se volessimo davvero rilanciare il comparto edilizio e non invece favorire l’edificazione selvaggia ne avrebbero di lavoro le imprese edili a sistemare tetti umidi e mura ammuffite.
Sono una professoressa e molti mi disprezzano. Forse anche tu mi disprezzavi, non certo per il mio mestiere, che hai scelto anche tu di fare: insegnare. Mi disprezzavi perché insegnavo solo ai Pierini, i figli dei ricchi e lasciavo indietro i tuoi Giovanni, poveri e malandati e mi dimenticavo che la Costituzione recita che tutti hanno diritto a un’istruzione pubblica di qualità. Io ti ho ascoltata eccome e oggi insegno in una scuola di tanti piccoli Giovanni. Accade esattamente la stessa cosa: i miei Giovanni sono nuovamente distinti dai Pierini. Si è però verificato uno scambio curioso. Siamo solo noi da dentro quelle aule sporche e fredde a difendere il diritto a un futuro migliore per i Giovanni di oggi. Noi professoresse. E lo facciamo adesso perché stanno mettendo in pericolo quella possibilità.
Oggi le scuole migliori si pagano, è sempre stato così mi dirai. Ma non da far diventare sempre peggiori quelle destinate ai più. Quasi fossero anch’esse ad esaurimento, come le graduatorie dei miei colleghi precari, senza che nessuno dica o faccia nulla. Ad esaurimento come la coesione sociale che noi, soli, dentro le aule, possiamo ripristinare. Sono altri i nemici che allontanano i miei ragazzi dal proseguire gli studi. Non certo io. Sono i ritorni ai “5 in condotta”, sono il ripristino di parole vetuste come “apprendistato”. L’Italia è cambiata, caro don Lorenzo, ma è cambiata perché sta tornando indietro. In ogni casa c’è una tv, ogni mio alunno ha un cellulare ma spesso non ha i libri. E perché mai un libro dovrebbe essere più importante di un cellulare per una mamma di periferia? Per un ragazzo che vive a Ciaculli a Palermo, in Sicilia, nel 2010? Perché mai?
La scuola dove insegno ha la muffa nei tetti, i riscaldamenti spesso non funzionano, in alcune aule ci piove dentro, ogni tanto qualche idiota distrugge i vetri e i ragazzi si ritrovano a vagare per i corridoi, trasportandosi dietro le sedie, quando le hanno, divisi in altre classi, seduti ammassati, con i loro giubbottini e per loro è la normalità. Non hanno mai visto che potrebbe essere diverso. L’80% delle scuole palermitane è fuori norma per un motivo o per un altro. Nella patria dell’antimafia, lo stato si fa garante dell’illegalità in cui vivono i ragazzi.
Mi monta la rabbia perché penso a quel tuo alunno che mi scrisse: “andare a scuola è sempre meglio che spalare la merda” e sono passati 40 anni. Mi chiedo cosa siano le magnifiche sorti e progressive se il progresso ha condotto a questo. Il progresso o gli uomini? Abbiamo un ministro che ci ha tagliato i fondi. Non solo quelli che hanno buttato per strada migliaia di colleghi, ma ha tagliato i fondi per evitare che i miei Giovanni sia curati uno ad uno, che siano rimessi nelle stesse identiche condizioni dei Pierini più fortunati per operare una scelta.
Ti dico di più: come faccio a convincerli che solo la conoscenza li salverà? Solo la conoscenza li farà padroni del mondo? Solo la conoscenza ne farà adulti consapevoli? Come faccio a convincerli che la scuola non è un “servizio” ma un diritto alto? Se poi i loro fratelli più grandi, che faticosamente arrivano alla laurea e sono più bravi degli altri perché hanno studiato sodo e da soli, e poi magari decidono di accedere alle cariche o alle carriere che meriterebbero, cioè le migliori, beh, per quei ragazzi qua a Palermo, non c’è altra via che andarsene?... a Palermo? Correggo: in Italia. E allora a che serve battersi per una scuola pubblica? Per la diffusione della conoscenza, per la promozione del merito? A che serve scendere in piazza a scioperare il 12 marzo se non per testimoniare che quello che si sta verificando nelle scuole di ogni ordine e grado è la vera emergenza democratica del nostro paese? A che serve se non è un pensiero condiviso?
A che serve se nessuno si rende conto che quella ad essere davvero messa in discussione, con la distruzione della scuola pubblica italiana, è la natura stessa della democrazia? Chi vuole veramente assicurare ai nostri figli oggi quel pensiero critico e libero che solo una scuola pubblica sana e voluta da tutti potrebbe ottenere? Chi? Mi giro intorno e vedo solo qualcun altro come me, qualche altro professore. E nemmeno tutti.
Non vedo classi dirigenti che gridano allo scandalo. No. Non vedo intellettuali. Non vedo scrittori, artisti, giornalisti. Non ne vedo nessuno che sia sceso con me a darmi forza e a sostenermi. Nemmeno quelli che hanno denunziato altri fatti terribili, ma, lasciamelo dire, meno gravi. Perché che senso ha denunziare la criminalità e l’illegalità e il non rispetto delle regole se poi si tace di fronte alle cause primarie della criminalità diffusa e dell’assenza di valori sani e di cultura? Valori e cultura che da sempre sono stati trasmessi tra le generazioni attraverso la scuola? Dove sono oggi Pasolini e Sciascia? Cosa farebbero oggi di fronte a tale scempio silenzioso?
Anzi, quegli stessi intellettuali, da una lontananza ben più siderale di quella di cui tu, caro don Lorenzo, accusavi me, professoressa, quasi quasi, mi additano sospettosi. Non sei brava, hai due mesi di vacanze, hai tanti privilegi, siete troppi. E non sono mai entrati in una mia aula. Non hanno mai visto in che condizioni lavoro, in che condizioni costringo i miei ragazzi alla disciplina, quando vorrei che spaccassero quelle pareti sporche e facessero la rivoluzione anche contro di me, che non ho la forza che hai avuto tu, caro don Lorenzo, di spiegarglielo a tutti gli italiani cosa voglia dire fare scuola.
Il valore di un popolo è direttamente proporzionale al valore che attribuisce alla scuola e alla conoscenza. E mi rattrista riconoscere che il valore del nostro popolo si sta frantumando come la mappa di Borges proprio mentre da più parti per molto meno le folle si riuniscono chiamate dal piffero della telecrazia imperante. Tutte le mattine mi siedo alla mia cattedra, faccio l’appello, inizio la mia lezione restituendo il sorriso della vita che mi regalano i ragazzi e mi ripeto che quella forza la devo ritrovare intera. Perché io non rimango muta di fronte a questa ignobile distruzione: io non ne sarò complice. Siatelo voi, complici. Io no. E da quando mi sveglierò la mattina a quando andrò a letto la sera, in ogni angolo e con tutta la voce che ho lo ripeterò fino a quando non mi ascolteranno: stanno distruggendo la scuola, evitiamolo.
*Mila Spicola
Laurea in Architettura, già ricercatrice precaria in Storia dell’Architettura alla Sapienza di Roma, nel luglio del 2007 accetta la cattedra di ruolo in una scuola media di periferia a Palermo. Eletta negli organi di partito alle primarie del 2007, rieletta nel 2009, è stata responsabile scuola del PD a Palermo fino al luglio 2010. Organizzatrice e ideatrice insieme a Emma Dante degli incontri di teatro civile “Cu arriva ietta vuci”. Autrice di “La scuola s’è rotta”, Einaudi,2010, collabora con diverse riviste tra cui Micromega e L’Unità.
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Adista Segni nuovi n. 15 – aprile 2012
Don Lorenzo Milani - Il racconto della “professoressa di Barbiana”
Gli amanti del genere agiografico probabilmente non apprezzeranno il libro di Adele Corradi su don Lorenzo Milani. Chi invece vuole conoscere, o approfondire, la vita quotidiana degli ultimi anni della scuola di Barbiana e la profonda umanità, anche nei suoi tratti più urticanti, del prete fiorentino che l’ha fondata nel 1954 e animata fino alla sua morte (1967), senza accontentarsi del “santino” raffigurato da qualche biografo dell’ultima ora, troverà nel volume (Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 174, euro 14) non informazioni inedite o riservate, ma un ritratto senza reticenze e censure di un uomo che ha fatto la scelta radicale e appassionata del Vangelo, degli emarginati – i piccoli e giovani montanari del Monte Giovi, nel Mugello – e della scuola in quanto strumento di liberazione degli oppressi, perché in grado di “dare la parola” a chi non ce l’ha, come viene raccontato in un piccolo episodio collocato significativamente all’inizio del libro. «Eravamo noi tre soli, dopo cena, tranquilli. Si stava bene: l’Eda seduta al tavolo (Eda Pelagatti, la “perpetua” di don Milani nella parrocchia di Calenzano, che lo seguì anche a Barbiana, dove è sepolta, ndr), io di fronte a lei, don Lorenzo sulla poltrona di vimini, vicino alla cappa del camino. L’Eda aveva una voce bellissima, di contralto credo, profonda e intonata. Chiesi che mi cantasse In Paradisum deducant te Angeli e lei si mise a cantare. Io ascoltavo “incantata” da quella voce e da quelle parole “... in tuo adventu suscipiant te martires...”. Ma don Lorenzo a un tratto, bruscamente: “Smetta Eda!”, la interruppe... era quasi un grido... Mi voltai stupita. Ma non era arrabbiato. La guardava addolorato. E infatti: “Mi fa pena”, disse, “non capisce... canta senza capire...”».
Adele Corradi, oggi 88enne insegnante in pensione, è una delle persone che ha conosciuto meglio don Milani e quella che più di ogni altra ha condiviso l’esperienza di Barbiana, dove è arrivata per curiosità nel 1963 e dove è rimasta fino alla morte del priore, prendendo anche una stanza in affitto in una casa non lontana dalla canonica, per poter fare scuola a tempo pieno. Tanto che lo stesso don Lorenzo, regalandole una copia di Lettera a una professoressa fresca di stampa, le scrisse come dedica: «Parte quarta (il libro è diviso in tre parti, ndr): poi finalmente trovammo una professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene».
Ed era rimasta in silenzio Adele, fino ad ora, quando ha deciso di mettere per iscritto i suoi ricordi e di raccontare don Milani e Barbiana, anche per rispondere alle sollecitazioni di molti, fra cui Maurizio Di Giacomo, collaboratore di Adista e studioso di Milani (su cui ha scritto uno dei migliori testi mai pubblicati: Don Milani. Tra solitudine e Vangelo, Borla, 2001, v. Adista n. 71/01), morto quattro anni fa: «La esorto a mettere su nastro con persona o istituzione di sua fiducia i suoi ricordi degli anni da lei vissuti con don Lorenzo Milani», scrisse Di Giacomo in una lettera ad Adele Corradi. «Quello che lei sa non sono banali “ricordini” o “episodiucci”. Se non parlano coloro che hanno conosciuto di persona il priore di Barbiana finirà che la sua storia la scriveranno i ricercatori storici, quelli con cravatta Yves Saint-Laurent, oppure gli agiografi dei tribunali ecclesiastici delle cause di beatificazione, e l’umanità profonda così come la solitudine indicibile di quel prete-maestro-testimone-polemista finirà dimenticata o neutralizzata del tutto».
Le parole di Adele Corradi ci restituiscono un don Milani non segreto ma autentico, liberato da molti luoghi comuni di segno sia negativo che positivo, talvolta cari anche all’intellighentia progressista, vivo come non mai: diretto e lontano da ogni galateo ipocrita, perbenista, politicamente o ecclesialmente corretto; continuamente preoccupato, quasi ossessionato, dal voler fare scuola in ogni momento e in ogni occasione ai “suoi” ragazzi, a cui era legato in modo possessivo e geloso («don Lorenzo, se qui vicino venisse a stare un altro prete e i ragazzi incominciassero ad andare da lui invece che venir qui, cosa farebbe lei?», gli chiese un giorno Adele. «Farei alle fucilate! I ragazzi son miei», rispose); ansioso, soprattutto alla fine dei suoi giorni, quando il linfoma di Hodgkin lo stava uccidendo lentamente ma inesorabilmente, di gridare la sua idea di scuola di tutti e per tutti, il suo atto di accusa contro la scuola di classe, consumando i suoi residui momenti di vita per portare a termine, insieme ai ragazzi di Barbiana – e Adele Corradi racconta come realmente venne elaborato e redatto il testo, sfatando i falsi miti del libro scritto solo dai ragazzi o solo da Milani – Lettera a una professoressa. E poi la fede evangelica di don Milani, radicale ma non settario – le persone settarie «hanno radici poco profonde e si aggrappano a regole e dogmi», i radicali invece «hanno radici profonde e non hanno paura della libertà», diceva il pedagogista brasiliano Paulo Freire – anche nei rapporti con le gerarchie ecclesiastiche, consapevole di vivere sul filo dell’eresia: «Crede che sia facile vivere sempre sul filo del rasoio, sempre col rischio di cadere nell’eresia?», disse una sera ad Adele Corradi.
«Con la semplice tecnica di dire la verità, senza mitizzazioni e senza enfasi, Adele ci consegna un don Milani straordinariamente umano, allo stesso tempo distante e vicinissimo a noi», scrive Beniamino Deidda in una delle due testimonianza finali (l’altra è di Giorgio Pecorini). «Un prete singolarissimo e isolato, profeticamente al servizio dei più umili, capace di mettere la Chiesa e la società di fronte alle loro macroscopiche contraddizioni (...). Adele, con la grazia che può avere solo chi racconta la verità, ci fa intravedere questa grandezza, senza nascondere le durezze, gli umori, la malattia e la fragilità di don Lorenzo».