Paolo Dall'Oglio - parrocchia stagno lombardo

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PADRE PAOLO DALL'OGLIO - GESUITA
MARTIRE IN SIRIA - 2013
DOSSIER ARTICOLI
IL MONASTERO
SOMMARIO

1) breve Bio  

2) Padre Paolo Dall’Oglio, scomparso cinque anni fa in Siria. Chi erano i suoi nemici? (Corriere - 28 luglio 2018 -  Lorenzo Cremonesi)

3) Pubblicato il libro (raccolta di testimonianze a cura di Cristiano Riccardo) Paolo Dall'Oglio. La profezia messa a tacere
L'ex portavoce vaticano firma la prefazione del volume sul gesuita rapito in Siria tre anni e mezzo fa. Padre Lombardi: “Grazie, Paolo, per le strade che hai aperto” (VATICAN INSIDER - 01/06/2017)

4) Il monastero siro-cattolico Deir Mar Musa El-Habashi. (JESUS - 7 LUGLIO 2003 - di Vittoria Prisciandaro)

5) Agli estremi confini. ABUNA PAOLO DEL DESERTO, il gesuita fondatore della comunità (Ibid.)

DUE INTERESSANTI INTERVISTE A DON PAOLO DALL'OGLIO:


LEGGI QUI L'INCHIESTA SULLA SCOMPARSA/MORTE
PADRE PAOLO DALL'OGLIO


Padre Paolo Dall’Oglio nasce a Roma il 17 novembre del 1954. Entra nella Compagnia di Gesù nel 1975, a 21 anni. Pratica il noviziato in Italia, si laurea in Lingue e Civiltà orientali all'Istituto Orientale di Napoli, ottiene un Dottorato in Dialogo con l'Islam alla Gregoriana di Roma, completa gli studi a Beirut, in Libano.

Nel 1982 scopre i ruderi del monastero cattolico siriaco Mar Musa, costruito nell’XI secolo attorno a un antico romitorio occupato nel VI secolo da San Mosè l’Etiope, e vi si insedia per un ritiro spirituale dal mondo. Nel 1984, Dall’Oglio è ordinato sacerdote del rito siriaco cattolico e decide di ricostruire le mura del monastero. Nel 1992 vi fonda una comunità spirituale ecumenica mista, la comunità al-Khalil che promuove il dialogo islamico-cristiano.

Dopo la “primavera araba” e l'inizio della rivolta contro Bashar Al Assad, Paolo Dall'Oglio in svariate occasioni sostiene la causa della lotta contro il regime di Damasco. Lo fa con appelli, incontri, conferenze, attraverso una rubrica sulla rivista dei gesuiti Popoli, con un blog sull'Huffington Post Italia e utilizzando Facebook e Twitter. Il regime, ai suoi occhi colpevole di una “repressione inumana e indiscriminata che speravo proprio di non vedere nel ventunesimo secolo”, minaccia di espellerlo nel novembre del 2011.

Paolo Dall'Oglio decide per qualche mese di mantenere un “basso profilo”, senza dichiarazioni pubbliche ostili al regime. Il 23 maggio del 2012 invia a Kofi Annan, allora inviato speciale dell'Onu per la crisi siriana, una lettera aperta nella quale chiede la creazione di una forza di interposizione di tremila caschi blu, per garantire il rispetto del cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile, accompagnati da trentamila volontari della società civile che sostengano la ripresa della vita democratica nel Paese. Il regime lo espelle il 12 giugno 2012 e lui parte “avvilito, ma non meravigliato”.

Tuttavia Paolo Dall'Oglio non rinuncia al suo impegno. Nel febbraio 2013 torna in Siria passando dal Kurdistan iracheno per un viaggio che definisce “un pellegrinaggio del dolore e della testimonianza”.

Il 24 luglio rivolge un appello personale al Pontefice: "Stimato e caro Papa Francesco, sapendola amante della pace nella giustizia, le chiediamo di promuovere personalmente un'iniziativa diplomatica urgente e inclusiva per la Siria, che assicuri la fine del regime torturatore e massacratore, salvaguardi l'unità nella molteplicità del paese e consenta, per mezzo dell'autodeterminazione democratica assistita internazionalmente, l'uscita dalla guerra tra estremismi armati. Chiediamo con fiducia al Papa Francesco d'informarsi personalmente sulla manipolazione sistematica dell'opinione cattolica nel mondo da parte dei complici del regime siriano, specie ecclesiastici, con l'intento di negare in essenza la rivoluzione democratica e giustificare, con la scusa del terrorismo, la repressione che sempre più acquista il carattere di genocidio".

Il 28 luglio 2013 si perdono le sue tracce a Raqqa, dove voleva incontrare rappresentanti dell'ISIS che in quella città siriana avevano installato la loro "capitale". Da allora i misteri sulla sorte di Padre Dall'Oglio si sono infittiti. Vivo, ancora non è stato trovato e nessun riscontro certo ne è mai stato dato; morto, neppure (sparito in una delle tante fosse comuni dell'ISIS?).
Corriere - 28 luglio 2018
di Lorenzo Cremonesi


Padre Paolo Dall’Oglio, scomparso cinque anni fa in Siria
Chi erano i suoi nemici?
L’integerrimo gesuita rapito il 29 luglio 2013, oggi vittima di una manipolazione della memoria



Sono trascorsi cinque anni dalla scomparsa di Paolo Dall’Oglio nella Raqqa del fine luglio 2013 controllata da Isis e lacerata dalla violenza della guerra civile siriana. Solo cinque anni, ma già la figura del gesuita scomodo per antonomasia viene stravolta e manipolata soprattutto, ma non solo, dai fautori della restaurazione imposta con il pugno di ferro dalla dittatura di Bashar Assad sostenuta da Iran, Russia e l’Hezbollah sciita libanese.
Padre, «Abuna», Paolo diventa in questa lettura semplificata, censurata e stravolta una delle tante vittime dei gruppi estremisti islamici, una sorta di sognatore naïf che nella vana e illusoria utopia di cercare un dialogo di pacificazione nazionale veniva barbaramente assassinato (ormai sono pochissimi a mettere in dubbio che sia morto) da quelle stesse forze del male che adesso i militari di Assad con i loro alleati hanno finalmente debellato. Ma per chiunque abbia avuto modo di incontrare e conoscere Paolo dall’Oglio è evidente che la realtà è molto diversa, se non addirittura opposta. Detto in modo brutale: sia il regime che larga parte della Chiesa locale siriana erano nemici acerrimi del gesuita italiano. Un’ostilità che era diventata totale negli ultimi mesi prima del suo viaggio fatale nel covo di Isis, ma che in forma meno acuta perdurava da anni. E ciò per il fatto che Paolo era un personaggio scomodo, ingombrante, troppo puro e desideroso di coerente verità per poter convivere con l’antica e organica alleanza tra la dittatura — i suoi apparati di sicurezza, la sua repressione organizzata — e la nomenklatura delle Chiese cristiane locali.

Nella primavera del 2012 incontrammo per due lunghi giorni Paolo Dall’Oglio nel suo eremo di Mar Musa in pieno deserto a oltre 100 chilometri da Damasco. Nelle chiacchierate serali ricordò la sua militanza giovanile nei circoli torinesi di Lotta Continua negli anni Settanta, la scelta di legarsi ai gesuiti, la prima fase del suo lavoro in Libano, il suo amore per l’Islam, la sua profonda conoscenza della lingua e cultura arabe, la sua difesa contro chi lo accusava di essere troppo sincretista nel promuovere il valore necessario del dialogo islamico-cristiano. E lui sulla questione siriana fu subito molto chiaro: i moti insurrezionali contro il regime erano legittimi, giusti e andavano sostenuti. Occorreva a quel fine smussare gli aspetti estremisti dei gruppi jihadisti che stavano crescendo tra le pieghe della rivolta popolare e degli scontri di piazza. Era ben consapevole dei timori crescenti tra la popolazione cristiana locale. E proprio per quel motivo occorreva il dialogo. In sintesi: si dovevano creare le basi di una nuova Siria tollerante e democratica destinata a sostituire gli orrori del regime. Temeva gli agenti e i sicari di Assad, tra loro anche cristiani. Parlava con disprezzo della famigerata «Shabiha», composta da squadracce di militanti che spesso si travestivano da jihadisti per eliminare brutalmente gli elementi moderati della rivoluzione.
Ma c’era di più. Padre Paolo da tempo era in scontro aperto con i vescovi siriani. La sua posizione era sostenuta da alcuni elementi del Vaticano. Se fosse stato per le gerarchie ecclesiastiche di Damasco, sarebbe stato espulso all’estero già da tempo. Lui non stava in silenzio. In Vaticano denunciava di continuo le corruzione e la dubbia moralità di alcuni alti prelati siriani. Per esempio, aveva denunciato la pedofilia di monsignor Isidore Battikha, nato ad Aleppo nel 1952 dove era stato ordinato sacerdote dell’ordine Basiliano Aleppino dei Melkiti e quindi arcivescovo emerito di Homs. Un’accusa che era stata recepita dalla Sacra Rota, tanto da spingere l’alto tribunale vaticano con l’assenso di Papa Benedetto XVI a trasferire in tutta fretta e segretezza il prelato in Venezuela.

Nel 2012 la rabbia covava nelle Chiese siriane. «Paolo è una spia del Mossad, un agente della Cia, un nemico della Siria e dei siriani», denunciavano apertamente, anche con l’inviato del Corriere della Sera. A Qamishli, nella regione semi-autonoma curda sui confini con la Turchia, al patriarcato armeno ci hanno persino fatto capire due anni fa che dopo il rapimento di Paolo i capi di Isis a Raqqa avrebbero offerto uno scambio di ostaggi con il regime. Ma non ci sarebbe stato alcun seguito, gli apparati del regime avrebbero subito rifiutato la proposta. In verità Damasco sarebbe stata ben contenta della sua eliminazione. Con un valore aggiunto: il nemico Paolo da morto avrebbe potuto paradossalmente servire per rilegittimare la causa di Assad agli occhi del mondo cristiano occidentale. Oltre il danno la beffa: l’integerrimo gesuita, vittima della manipolazione della sua memoria, diventa l’involontario complice della dittatura adesso tornata più vitale e aggressiva che mai.
RAQQA 2019:
NESSUNA TRACCIA DI PADRE PAOLO
Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera
(9 aprile 2019).


clicca sulla foto per leggere il reportage
VATICAN INSIDER - 01/06/2017

Pubblicato il libro
(raccolta di testimonianze a cura di Cristiano Riccardo)

“Paolo Dall'Oglio.
La profezia messa a tacere”





L'ex portavoce vaticano Padre Lombardi firma la prefazione
del volume sul gesuita rapito in Siria tre anni e mezzo fa
Grazie, Paolo, per le strade che hai aperto


In questi anni cruciali della storia del mondo, quando i popoli occidentali non capiscono e non sanno che cosa significa la venuta tra loro di altre genti e in particolare di innumerevoli musulmani, si chiudono e si spaventano; quando i musulmani faticano a fare i conti con le sfide della modernità e si combattono crudelmente uccidendosi tra loro nelle loro stesse terre con la complicità odiosa di grandi poteri e grandi potenze, e scorrono fiumi di sangue...  
In questi anni in cui Papa Francesco ci parla con lungimiranza di una “guerra mondiale a pezzi”, Paolo ci invita a riaprire le pagine antiche del libro della Genesi e rileggere la storia di Abramo, per ascoltare il grido della sete di Ismaele, il pianto di sua madre Agar – la ripudiata, la madre dei musulmani – e vedere anche noi la fonte dell’acqua che le viene indicata da Dio nel deserto. Intitolando «La sete di Ismaele» la sua rubrica regolare sul dialogo islamo-cristiano, e ricordando il grido di Gesù in croce: «Ho sete!», Paolo ci invita a «riconoscere il valore cristologico ed ecclesiologico del grido degli esclusi: un grido qualche volta scomposto o addirittura terrificante, ma un grido che la Chiesa non può non riconoscere come pertinente la storia della salvezza».
Riusciremo a risalire così indietro verso le origini e a scendere così in profondità? Riusciremo a riconoscere le divisioni antiche per poterle risanare, a intuire e far nostro il desiderio di pace universale del Padre creatore di tutti e del suo Figlio che muore per riconciliare tutti i suoi figli? Ma se non ci proviamo neppure come potremo sperare di trovare luoghi spirituali solidi e veri di incontro e dialogo tra le culture e le loro dimensioni religiose, come potremo sperare di sfuggire alle tentazioni e agli inganni continui delle divisioni e dell’odio omicida? «Ponti e non muri», dice Francesco e prega con gli occhi chiusi e il capo poggiato in silenzio sul muro che attraversa Betlemme, aspettando, sognando e sperando un mondo fraterno senza muri.  
Deir Mar Musa, sulla riva del deserto, rinato dal cuore di Paolo, è un ponte. La sua piccola e fragile comunità, che ho potuto accompagnare qualche mese fa da Papa Francesco, continua la sua esistenza di testimonianza con la forza della speranza e della fede. La piccola icona che ha donato a Francesco – Mosè davanti al roveto ardente – è appesa nella sua stanza, sempre davanti ai suoi occhi, nel cuore della Chiesa universale. Mosè incontra il mistero di Dio: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (non possiamo aggiungere anche: il Dio di Ismaele, che ne ha dissetato la sete?) chiama e manda il suo profeta per liberare il suo popolo, nel qua- le devono essere benedette tutte le genti della Terra.  
Il suo popolo è in ogni angolo del mondo, ma Paolo, concretamente, lo incontra nel popolo della Siria che aspira a crescere nella libertà. Nella sua lettera alla vigilia del diaconato Paolo scriveva ancora: «Il dialogo è anche il mio impegno “politico” perché porta alla pace e alla giustizia, ma allora è evidente che non deve esse- re un dialogo di chiacchiere ma di segni e fatti concreti. La mia esperienza mediorientale mi insegna che tutti i livelli dell’esistenza sono coinvolti nel conflitto dalla religione fino all’economia ed il dialogo si deve fare a tutti i livelli nella loro interdipendenza. Concludendo, è questo servizio [diaconia] del dialogo per la pace con Dio e tra noi che vorrei fosse il senso di questa mia ordinazione diaconale; servizio sempre necessario, e par- te già di quell’azione sacerdotale che è la celebrazione del mistero di Gesù nostra pace».  
I segni e fatti concreti per un uomo dedicato e coraggioso come Paolo arrivano fino a mettere in gioco la vita. I figli del suo popolo gliene sono grati. In queste pagine arriviamo a leggere: «Padre Paolo è il simbolo della nostra speranza nella pace, una forza di ispirazione alla quale rivolgerci nelle ore difficili. Spesso mi sono chiesto: “Cosa farebbe Paolo al mio posto?”. Oggi so solo che lo aspettiamo, attendendo di avere risposte ai nostri dubbi e consapevoli che Dall’Oglio è la Siria e noi siamo figli suoi».  
Grazie, Paolo, per le strade che hai aperto, i ponti che hai costruito, le speranze che hai fatto germogliare e continui ad alimentare. Tutti crediamo che l’incontro con te – quando? dove? come? lo sa Dio – sia davanti a noi.  

FEDERICO LOMBARDI*
*Direttore della Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, ex direttore della Sala Stampa vaticana
DEIR MAR MUSA AL-HABASHI

JESUS - 7 LUGLIO 2003
di Vittoria Prisciandaro - foto di Ivo Saglietti

Il monastero siro-cattolico
Deir Mar Musa El-Habashi.


Il monastero siro-cattolico Deir Mar Musa El-Habashi è stato costruito intorno al 1058 nel deserto della Siria, nei pressi della città di Nebek. Una targa sulle mura ricorda, «nel nome di Dio grande e misericordioso...», che la costruzione risale all’anno 450 del calendario islamico.
In Siria la comunità cristiana conta tra 1 milione e 1 milione e mezzo di persone, vale a dire dal 10 al 15 per cento della popolazione del Paese. L’islam sunnita è la religione prevalente. Sei sono le Chiese particolari cattoliche: melkita o greco cattolica, siriaca, armena, maronita, latina, caldea. Quattro quelle ortodosse: greca, siriaca, armena e assira. Presente anche una piccola e frastagliata comunità protestante.
Nella chiesa del monastero di Mar Musa l’èquipe di restauratori italiani e siriani, al lavoro ormai da anni, ha rivenuto tre serie di affreschi.
I primi risalgono all’XI secolo, quelli più recenti all’inizio del XIII. Tra le scene bibliche rappresentate, spiccano i frammenti sull’iconostasi che ritraggono la parabola delle vergini savie e di quelle stolte.
I lavori sono eseguiti all’interno di un programma di cooperazione europea.

Agli estremi confini
ABUNA PAOLO DEL DESERTO
il gesuita fondatore della comunità


Romano di nascita, padre Dall’Oglio si è presto "fidanzato" con la Siria e il mondo arabo. Membro della Compagnia di Gesù ma prete della Chiesa sirocattolica, ha rifondato un antico monastero che scommette sulla fraternità con l’islam.
 
Il fresco della sera accarezza la pelle. I clacson di Damasco sono lontani, ottanta chilometri e novanta minuti. Ha attraversato il tramonto, il taxi che ora fa strada verso le colline di Nebek. Le rocce del deserto passano dal rosso al blu. Ora è la luna protagonista in cielo. Le stelle, inutile dirlo, sembrano a portata di mano.
I pon-pon appesi al tettuccio del pulmino rallentano l’allegro ciondolare. «Welcome», siamo arrivati, fa capire l’autista con un gran sorriso. Un ampio piazzale e una struttura in pietra, coperta, con panchine. Un’area di sosta, da cui si diparte un sentiero e poi una lunga scala scavata nella roccia. Da giù non vedi altro che scalini e rocce. Nessuna luce, nessuna casa, nessuno. Inizia l’ascesa verso Deir Mar Musa el-Habashi, il monastero dedicato a San Mosè l’Abissino, figlio di un re etiope che agli sfarzi della corona e all’esercizio del potere preferì l’eremitaggio, finendo martirizzato dai soldati bizantini.
Scalini, silenzio e la luce della luna. Inutile affrettarsi. Meglio prendersela comoda, ritmare fiato e passo, alternare la concentrazione, dal peso del bagaglio all’odore della notte. A metà del percorso, dopo una curva tra le rocce, appare il monastero, come fortezza scavata nella pietra. Ancora poco e saremo a quota 1.320 metri. Alla fine delle scale una luce fioca sulla destra fa sperare in qualche presenza. Pochi metri ed è chiaro che nelle costruzioni in pietra, in alto, non c’è nessuno e sotto, a piano terra, il neon illumina il laboratorio del formaggio, il recinto delle capre e quello dei polli. Non resta che provare l’altra strada, a sinistra. Il sentiero si rivela più agevole e conduce a un varco nella massiccia costruzione: sarà alto un metro o poco più. È la porta del monastero. Bisogna farsi piccoli per entrare: la fecero così, gli antichi, per motivi di sicurezza, ma anche perché chiunque, persino il re, abbassasse il capo varcando la soglia del luogo sacro.
Sull’ampio terrazzo sotto le stelle le uniche luci sono quelle delle candele che filtrano da una grande tenda beduina. Fuori sono raccolte alcune paia di scarpe. La tenda è aperta sul davanti, guarda ad Est, e ha come orizzonte le colline del deserto. Tappeti, cuscini, un leggìo di legno per la Parola e un tavolinetto per il tabernacolo. Una ventina di persone sono raccolte in preghiera. Si celebra la messa seduti a terra, gambe incrociate, in arabo. Nella chiesa, che ricorda tanto una moschea, si usa «la lingua liturgica del Corano, la lingua della cattolicità musulmana», mi verrà poi spiegato. Su una lavagna le indicazioni dei passi della Scrittura, in un angolo le bibbie in varie lingue. Questa sera la liturgia parla anche inglese, francese e italiano.
Dal quartiere Salario di Roma a Mar Musa ci vuole meno di una giornata. Paolo Dall’Oglio ci è arrivato 12 anni fa seguendo i tempi della sua coscienza, passando dalla Gregoriana all’Orientale di Napoli, dalla Magliana alla Terra santa, dalle Filippine all’India. «Oggi sono metà monaco e metà gesuita, ho 48 anni e mi ritengo invecchiato anzitempo». È lui che presiede quest’Eucaristia, celebrata secondo il rito siro-cattolico. È lui che ha dato inizio alla risurrezione di queste pietre, rimettendole materialmente una sull’altra e cercando uno spazio, dentro di sé e poi nella Chiesa, per definire questa vocazione "complicata" in terra siriana. È lui che, innamorato di Cristo e affascinato dal Corano, dall’estate dell’82 in cui visitò per la prima volta Mar Musa, suscita amori e simpatie, avversioni e perplessità tra cristiani e musulmani, in Siria e in Italia.
Ha voce possente, che serve bene a questa liturgia in cui predomina il canto. Risonanze e preghiere di intercessione arrivano senza imbarazzi, come consuetudine condivisa. Ci sono dei musulmani che ascoltano e guardano. Ci sono i turisti giunti per trascorrere una notte. Ci sono quelli che partecipano alla vita della comunità in attesa di capire bene quale sarà la loro strada. Ci sono giovani siriani, di tutte le Chiese cristiane, che arrivano qui per passare qualche giorno. Ci sono i novizi: Ramona, melkita del Golan; Dimha, greco-ortodossa di Damasco, e Frédéric, cattolico latino, dalla Francia. Vengono ricordati i monaci che studiano a Roma: Jensen, svizzero, battezzato da pochi anni con il rito siriaco; Huda, melkita; Jihad, maronita. Si prega per Jak Murac, monaco di Mar Musa, compagno sin dagli inizi e parroco in un paesino a 50 chilometri. Ci sono i viandanti di un giorno e quelli che si fermeranno a lungo, per lavoro, come le équipe di restauratori italiani e siriani, che si stanno occupando degli affreschi della chiesa.
Ci ritroviamo tutti insieme, dopo la messa, accanto alla tenda, sotto una tettoia di cotone che fa da salotto all’aperto, mensa, stanza di lavoro. Sgabelli e tavoli bassi: pane arabo e piatti grandi dove si attinge formaggio, uova, olio e timo, pomodori e olive, marmellata e albicocche. Stasera c’è anche il dolce, con i pistacchi, in onore di un compleanno. Per l’intervista c’è tempo. «Respira prima un po’ l’aria del monastero», suggerisce abuna Paolo, come lo chiamano ospiti e novizi.
Respiriamo, allora. È il profumo del cibo genuino, mediterraneo, consumato insieme, con le mani nello stesso piatto. È il sottofondo delle chiacchiere al chiaro di luna, dell’ultima sigaretta prima del riposo notturno, gli uomini nelle stanze sulla sinistra e le ragazze più in alto, nel monastero costruito con le pietre delle antiche case di Nebek, dall’altro lato della montagna, collegato con un ponte in ferro sospeso sulle rocce. È il fascino di pietre secolari, risalenti al 1058, che raccontano di ascesi antiche e sognano convivenze rinnovate. È la preghiera laica del lavoro certosino, che scopre in punta di lama il mistero cristiano raccontato attraverso tre strati di affreschi, che vanno dall’inizio dell’XI secolo al XIII. È il suono di lingue liturgiche quasi perdute, che esprimono identità lontane, preziose, minoritarie. È l’odore della fatica, quella dei muratori che in kuffeyya palestinese o giordana, bianca e nera o bianca e rossa, rimettono a posto il tetto e filtrano la terra alla ricerca delle tracce dei primi abitanti del monastero. Ma è anche il sudore che nasce dallo sforzo dello stare insieme, dalla ricerca di un costante equilibrio tra l’accoglienza dell’ospite, dell’altro e di sé stesso.
Contemplazione, lavoro manuale, ospitalità: «Queste tre priorità le ricevetti nell’82, quando trascorsi qui dieci giorni di esercizi spirituali», racconta padre Dall’Oglio. «Sentii che la contemplazione era la priorità apostolica assoluta, da vivere nel linguaggio spirituale del cristianesimo orientale e dell’islam». Privilegiare l’attività agricola e quella artigianale per mantenersi significava uscire dalla logica del profitto, «radicarsi su un territorio, contrastare la migrazione dei cristiani, esercitare quindi una responsabilità sociale ma anche ecologica». Infine l’ospitalità di Abramo: «Per Louis Massignon gli arabi hanno unito tutta la legge in una sola parola perché nel prossimo riconoscono Dio che ci visita, è Lui il vero ospite». Siamo nella biblioteca del monastero e alle nostre spalle sono disposti centinaia di volumi dedicati al tema del dialogo interreligioso.
«In generale, non accettiamo musulmani in comunità, neanche quelli convertiti», precisa il gesuita. Dal punto di vista della società musulmana la conversione non è accettabile. «Non neghiamo in nessun modo il diritto alla libertà di scelta», spiega Dall’Oglio,«ma crediamo che la nostra sia una vocazione al dialogo e all’armonia, più che all’evangelizzazione diretta. Altre realtà di Chiesa possono rispondere a questo bisogno». Il rapporto con i musulmani si realizza attraverso l’accoglienza, soprattutto il venerdì quando le famiglie si recano in gita al monastero; con incontri culturali e seminari; e anche grazie a momenti di preghiera. Non ci si limita a essere spettatori gli uni degli altri: «Qualche volta creiamo occasioni di preghiera comune, nella forma dell’intercessione e dello zhikr, il ricordo di Dio. Qualche volta si mettono le due tradizioni una accanto all’altra, qualche altra lo Spirito fa meglio».
Fratel Jensen lavora al sito Internet del monastero.
Accusata di troppa apertura all’islam, di ecumenismo poco ortodosso e di eccessiva convivialità tra uomini e donne, alla comunità di Mar Musa è anche stata appioppata l’etichetta New Age. «Certamente rispondiamo a un’esigenza analoga», risponde Dall’Oglio. «I giovani che vengono al monastero portano quelle domande universali che sono presenti anche tra i musulmani. Ma se c’è tendenza al sincretismo, resta intatta come un filo teso la fedeltà al mistero di Cristo».
Quando venti anni fa padre Paolo raggiunse Mar Musa, la realtà di oggi, allora solo sperata, poteva essere letta come una velleità giovanile. Dell’antico monastero restava ben poco e la Chiesa siriaca, alla quale il giovane gesuita aveva scelto di appartenere, stava pensando di donare il rudere allo Stato. «La cappella non aveva tetto, ho dormito sotto le stelle. Ma ho capito che era questo il posto che cercavo».
La ricerca era partita da Roma. Una prima tappa è a pochi chilometri dalla casa di famiglia, nell’allora periferia della Magliana, laboratorio dei sogni di un mondo nuovo. «La mia vocazione è maturata con una sensibilità da una parte missionaria cattolica e dall’altra internazionale socialista», dice Dall’Oglio, che a vent’anni partecipa al Movimento dei cristiani per il socialismo. Fa il servizio militare negli alpini, «ero contro il regime concordatario e per la difesa democratica delle istituzioni», studia legge, lavora un anno e poi, il 12 maggio del ’74 – tralascia di spiegare le circostanze – «mi arriva una parola chiara del Signore, che mi chiede di essere con lui».
Sceglie i gesuiti, «per poter essere in un luogo particolare ma con lo spirito di chi desidera servire dappertutto». Durante il noviziato fa un pellegrinaggio a piedi in Terra santa, poi un viaggio in Medio oriente e torna con la consapevolezza che l’islam sia la strada che lo aiuterà a realizzare la sua consacrazione: «In quel momento significava poco o nulla, ma la domanda del Signore mi chiedeva una fedeltà immediata, non concedeva tempo per essere riconosciuta in tutta la sua ampiezza prospettica». La Compagnia di Gesù accoglie l’intuizione del novizio e mentre prosegue la formazione scolastica inizia l’inculturazione, al plurale: nel mondo musulmano, nelle Chiese orientali e nel contesto locale dei missionari occidentali. Un anno nel Libano in guerra, nel ’77, a imparare l’arabo. Poi a Damasco, dove «ho studiato nell’80-81 e mi sono fidanzato con la Siria: ho vissuto un profondo incontro con i musulmani, nelle moschee e nelle università».
La scoperta del monastero di Mar Musa, nell’82, significa trovare "il posto" dove fermarsi, ma dovrà aspettare ancora nove anni prima di potervisi stabilire. Prosegue gli studi, ogni estate torna a Mar Musa, fa il terzo anno da gesuita nelle Filippine, e ne approfitta «per conoscere l’islam acquatico, sulle palafitte». Mindanao, e poi una sorta di pellegrinaggio nelle Chiese che incontrano l’islam in Asia: Pakistan, Lahore, Delhi. Nell’84, nel frattempo, viene ordinato sacerdote a Damasco, della Chiesa siro-cattolica: «Una Chiesa culturalmente semita e geograficamente integrata nel mondo arabo musulmano. Una Chiesa minoritaria: non volevo passare dall’impero romano latino a quello bizantino».
Nel ’91, quando decide che è giunto il tempo di fermarsi a Mar Musa, la Compagnia di Gesù gli chiede di assumersi una responsabilità personale. Esce temporaneamente per cinque anni e diventa prete diocesano secolarizzato ad experimentum. «Rispetto alla vocazione del ’74, questa seconda scelta ha la caratteristica dell’emancipazione della libertà: la coscienza diventa obbligata non dall’esterno, ma da una sua esigenza di coerenza intima. Ma era come un salto nel vuoto, nessuno ne era convinto». Mantiene i contatti con i gesuiti, nel ’97 rientra nella Compagnia (dove, tra l’altro, il 3 luglio emette i voti definitivi), con il mandato di fondare il monastero ecumenico di Mar Musa.
Il sole tramonta, è ora di prepararsi al vespro e alla messa. I gatti giocano indisturbati sotto la tenda e la tartaruga attraversa con cautela il terrazzo. Si sospende la cura degli animali, la lavorazione del formaggio, la preparazione della cena. Il prete non nasconde la stanchezza e il peso della responsabilità, ride di qualche acciacco, ma la metafora con cui legge la sua vita e la sua vocazione continua ad accompagnarlo: «È come se avessi ricevuto una scatola in dono, in cui scopro piano piano che ci sono altre scatole dentro, tutte da aprire». Lo dici con fatica? «Con gratitudine, come chi è a metà di una storia d’amore e desidera proseguire».



Un monastero islamo-cristiano

La comunità monastica Deir Mar Musa, fondata nel 1991 dal gesuita Paolo Dall’Oglio, si riconosce un’identità ecumenica all’interno della Chiesa cattolica. Al momento gode di un’approvazione temporanea della gerarchia locale e ha chiesto alla Santa Sede l’approvazione delle Costituzioni e della progettata confederazione monastica. Quando la comunità sarà riconosciuta, se padre Dall’Oglio verrà eletto superiore, dovrà lasciare la Compagnia di Gesù, perché il diritto canonico non ammette doppia appartenenza. Il gesuita spera che la comunità «riesca a esprimere un’altra leadership». Il suo sogno, dice, è di fondare altri monasteri «in Iran e Pakistan. E se avrò vita lunga anche in Kurdistan e a Hebron, in Palestina». Spiritualmente, oltre ai padri del deserto, il monastero sente di essere vicino alla grande famiglia di Charles de Foucauld e grande attenzione viene rivolta al pensiero dell’islamologo cristiano Louis Massignon. In futuro Mar Musa pensa di entrare a far parte di questa famiglia religiosa nata nel deserto dell’Algeria con «una parentela organizzativa e non giuridica», attraverso una vocazione specifica: «Testimoniare questa relazione speciale all’amore di Gesù per i musulmani». Dall’Oglio non ha paura di parlare di una Chiesa islamo-cristiana. «Come esiste quella giudeo-cristiana centrata su Sara, così a partire dai simboli biblici prolungati dalla meditazione coranica musulmana, c’è la possibilità di vedere prefigurata la Chiesa nella linea di Agar e Ismaele. In questa donna persa nel deserto, che ha portato il figlio sulle spalle, lo ha abbandonato sotto un arbusto, piange e implora la misericordia divina, mi sembra di poter riconoscere la donna dell’Apocalisse che grida nel deserto, mentre Ismaele abbandonato che grida per la sete ci ricorda il Cristo crocifisso». In tale orizzonte di relazione islamo-cristiana, la comunità di Mar Musa ha scelto l’arabo come lingua sociale e liturgica. In questa prospettiva si è anche elaborato un progetto di approfondimento della collaborazione interculturale e interreligiosa con l’aiuto della Commissione europea, della Fondazione Giorgio Orseri di Roma, dell’Amitié Orient belga e di altre associazioni. Il monastero mantiene contatti con varie comunità monastiche. Collabora a livello internazionale con vari partner a una serie di progetti di sviluppo sostenibile per la salvaguardia del patrimonio della biodiversità locale, vegetale e animale. Da quando la Siria ha permesso l’accesso a Internet è stato creato un sito all’indirizzo www.deirmarmusa.org

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