MONACI DI TIBHIRINE
MARTIRI 1996 - SANTI 2018
SOMMARIO
1) Armand VEILLEUX (ex Procuratore generale dei cistercensi) (2000): La testimonianza dei Martiri di Tibhirine 
2) LA STAMPA - 1/6/2008 - INCHIESTA di VALERIO PELIZZARI - Da dodici anni padre Armand VEILLEUX indaga da solo sul giallo della morte dei monaci francesi in Algeria 
3) LA STAMPA - 6/7/2008 - INCHIESTA di VALERIO PELLIZZARI – "I monaci in Algeria uccisi dai militari". Dopo dodici anni un alto funzionario occidentale svela la verità: «Un elicottero dell’esercito mitragliò il bivacco dov’erano tenuti» 
Armand VEILLEUX (ex Procuratore generale dei cistercensi)
Scourmont (Belgio), 24 novembre 2000, nella Festa dei Martiri della Corea
La testimonianza dei Martiri di Tibhirine[1]
Dio è amore[2]. Dio è Comunione. La salvezza è partecipazione all’intimità della vita di comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Cristo è il testimone fedele [3][3] (ho mártus ho pistós), il martire per eccellenza, il sacramento primordiale della salvezza, perché egli è la manifestazione visibile del disegno salvifico del Padre su tutta l’umanità. A sua volta, la Chiesa è sacramento di Cristo, perché anch’essa è la manifestazione visibile della stessa realtà di salvezza attraverso il segno della comunione tra gli uomini nella stessa fede, nella stessa speranza e nello stesso amore.
La morte di Cristo non è stata un atto isolato. È stato il momento culminante di tutta la sua vita. Così è anche per la vita e la morte dei suoi discepoli, chiamati a dare testimonianza attraverso tutta la loro vita. E vengono chiamati “martiri” coloro che hanno accettato di subire una morte violenta piuttosto che mancare di fedeltà alla testimonianza che avevano reso durante tutta la vita. È quindi innanzi tutto attraverso la propria vita – vissuta fino in fondo – che un cristiano è martire.
In Africa, ai tempi di Tertulliano e di Cipriano, la Chiesa ha avuto una grande corona di martiri. E di nuovo, negli ultimi decenni, nell’Africa del Nord numerosi testimoni di Cristo hanno subito una morte violenta come logica continuazione e conseguenza della loro vita di comunione in nome del Vangelo.
Molti di loro non hanno lasciato tracce sulla stampa e restano noti a Dio solo. Per altri, la morte è stata un evento pubblico ed ha richiamato l’attenzione. Tra tutti coloro che in Algeria hanno reso testimonianza fino alla morte, nel corso degli ultimi sette anni, i sette monaci trappisti di Tibhirine sono probabilmente quelli che hanno maggiormente richiamato l’attenzione e che hanno ricevuto la più grande manifestazione di affetto e di interessamento. Ma prima di loro, nella diocesi di Algeri, erano morti nell’esercizio del loro ministero di comunione altri undici ministri del Vangelo. Dopo di loro, ci fu un altro grande testimone della fede, il vescovo di Orano, Pierre Claverie.
La mia comunicazione di oggi verte essenzialmente sulla testimonianza dei sette monaci di Tibhirine, miei confratelli nell’Ordine cistercense, che ho avuto la grazia di conoscere personalmente. Vorrei tuttavia dire qualche parola anche sugli altri martiri della chiesa di Algeria dello stesso periodo, e descrivere il contesto in cui tutti questi testimoni sono stati indotti a versare il loro sangue.
L’8 maggio 1994, Suor Paule-Hélène Saint-Raymond e Fratel Henri Vergès venivano assassinati nella biblioteca che avevano organizzato per i giovani di un quartiere popolare di Algeri. Il 23 ottobre dello stesso anno, Suor Esther Paniagua e Suor Caridad María Alvarez vennero uccise davanti alla cappella di Bab-el-Oued. Il 27 dicembre – sempre dello stesso anno -- quattro Padri Bianchi furono assassinati nella loro casa, a Tizi-Ouzou : erano Padre Alain Dieulangard, Charles Deckers, Jean Chevillard e Christian Chessel. Il 3 settembre 1995, Suor Denise Leclercq e Soeur Jeanne Littlejohn furono colpite a morte a Belcourt da due pallottole alla testa. Infine, il 10 novembre 1995, Suor Odette Prévost venne uccisa e Suor Chantal Galicher restò ferita sulla soglia del loro domicilio, nel quartiere di Kouba.
In queste morti, si possono rilevare alcune costanti. Tutti questi testimoni erano persone che avevano stabilito dei legami di amicizia con il popolo algerino e vivevano in una grande comunione con la gente comune, di cui condividevano la vita. Tutti sono stati uccisi nell’ambiente in cui vivevano e lavoravano. Il messaggio dei loro assassini - o dei loro mandanti – è chiaro : erano proprio questa prossimità e fraternità ciò che disturbava e si voleva far cessare. Non si rimproverava loro di fare del proselitismo, perché non lo facevano. Li si accusava di essere persone di comunione, che condannavano con la loro stessa vita qualsiasi forma di esclusione e ogni forma di violenza, da qualunque parte venisse, quale che fosse la matrice o l’ideale – religioso o politico – di provenienza.
Nessuno di loro faceva politica. Nessuno aveva preso posizione nelle controversie che opponevano diverse fazioni della società algerina. E tuttavia la loro vita aveva una dimensione politica: lavoravano alla costruzione della comunità algerina. Per la loro nazionalità e la loro religione, appartenevano a una piccola minoranza. La loro presenza in Algeria affermava, contro tutte le forme di esclusione e di sradicamento dell’altro, il diritto alla differenza.
Nessuno di loro era un operatore solitario, che lavorasse da solo e in modo marginale. Tutti e tutte erano persone di comunità, e vivevano la loro vita cristiana e religiosa in piccole comunità, figli e figlie fedeli di quella grande comunità che è la Chiesa, amanti della grande comunità umana, senza alcun esclusivismo. Tutti incarnavano il tipo di presenza cristiana in terra d’Algeria che aveva instaurato quel grande Vescovo di Algeri che era stato il Cardinale Duval.
Quest’ultimo, chiamato a presiedere l’Archidiocesi di Algeri verso la fine del periodo coloniale – quando nulla sembrava averlo preparato a una situazione così complessa, si era rivelato la persona giusta per quel momento storico. Durante la guerra di indipendenza, si fece rispettare da tutti, ad eccezione degli estremisti di una parte come dell’altra, affermando la fede che egli aveva nella possibilità data a tutti di vivere come fratelli e condannando esplicitamente e ripetutamente la violenza – tutte le forme di violenza, da qualsiasi parte provenissero. Era una presa di posizione estremamente pericolosa, ed è un miracolo che non sia mai stato eliminato [4][4]. Il Signore ha voluto che egli restasse, fino ad età avanzata e molto tempo dopo aver lasciato le sue funzioni ufficiali, come testimone fedele di questo tipo di testimonianza cristiana. Quelli che sono morti martiri in questi ultimi anni sono coloro che hanno vissuto nel miglior modo la testimonianza che egli stesso aveva dato durante il suo episcopato. Ed egli la visse perfino nella sua morte, perché la causa immediata del suo decesso fu, realmente, il dolore profondo che gli causò l’apparente fallimento della convivenza e della fraternità universale che egli aveva desiderato per l’Algeria.
Tutti i religiosi e le religiose di cui ho menzionato il martirio sono morti prima dei sette monaci di Tibhirine. Un altro grande testimone della fede – un discepolo e un fedele amico del Cardinal Duval – è morto poco dopo di loro, segnando in qualche modo una battuta di arresto in questo ciclo infernale. Si tratta di Pierre Claverie, vescovo di Orano, assassinato il 1 agosto 1996. Un bellissimo libro pubblicato recentemente, scritto da un confratello e amico di Claverie, il Padre Jean-Jacques Pérennès, permette ora a tutti di conoscerlo [5][5]. Senza attardarsi sulle circostanze della sua morte, l’autore si sofferma a descrivere con sapienza la sua testimonianza, il suo martirio, nel senso profondo del termine, lungo tutta la sua vita di uomo, di religioso e di vescovo.
Pierre Claverie era nato ad Algeri, nel quartiere Bab el-Oued, nel 1938, dove trascorse anche tutta la sua infanzia e l’adolescenza. Dopo vari anni di studio e di formazione in Europa come Domenicano, fece ritorno in Algeria, dove rimase fino alla morte. Dopo essere stato per vari anni direttore del “Centre des Glycines”, divenne vescovo di Oran nel 1981. Uno dei capitoli del libro di Pérennès reca il titolo "Verso l’incontro gioioso con l’Altro". Infatti, una dimensione importante del cammino di Claverie è stata la graduale scoperta dell’Altro. Non si trattava tuttavia di una semplice scoperta, ma dell’accettazione dell’Altro in tutta la sua differenza.
A partire dal capovolgimento politico del 1988 e soprattutto dopo gli eventi tragici del 1992, egli non cessa di affermare la necessità di “vivere insieme nel rispetto delle differenze”. Con gli amici algerini che condividono il suo stesso modo di vedere, non cessa di analizzare le situazioni che si succedono e di applicare questo principio del rispetto della differenza. Alcuni lo accusano di “fare politica”. In realtà, ciò che egli fa è piuttosto un’analisi seria della situazione politica per dare ad essa una risposta cristiana. La comprensione che egli ha della situazione lo porta a denunciare costantemente in nome del Vangelo tutte le ingiustizie e tutte le violenze. Il 15 agosto 1993 pubblica un comunicato sulla stampa algerina, con il titolo «Non possiamo tacere », da cui cito alcuni passaggi:
"Con i cattolici della mia diocesi, vorrei dire la costernazione e l’orrore che ci assalgono davanti alla spirale di violenza in questo paese che noi amiamo …
Preghiamo Dio di illuminare con la sua sapienza coloro che oggi detengono il potere e coloro che lo combattono con la violenza, perché il dialogo e la pace permettano di risolvere, nella giustizia, i problemi davanti ai quali si trova il popolo algerino, con un’attenzione particolare per coloro che sono più duramente colpiti dalla crisi economica. Facciamo umilmente appello alla ragione e alla fede di tutti i credenti, perché il dialogo prenda il posto dell’omicidio e della repressione . [6][6]"
Fu, appunto, la sua risposta evangelica alla situazione di violenza che gli meritò la morte.
Pierre Claverie non è morto da solo. La stessa bomba omicida che lo fece a pezzi trascinava nella morte un Musulmano, il suo autista ed amico Mohammed, mescolando il loro sangue sul pavimento e uro della residenza episcopale. Si è spesso sottolineato il carattere altamente simbolico di questa unione nella morte. Questa circostanza ci ricorda che la morte dei testimoni cristiani in Algeria non può essere separata da quella di tutte le altre vittime della stessa spirale di violenza che travolge questo paese da circa dieci anni. Pur nella mancanza di dati ufficiali, si può valutare a circa duecentomila il numero delle vittime, in maggioranza anonime. Indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa o politica, queste persone sono state eliminate, almeno in un buon numero di casi, per aver incarnato nella loro vita, anch’esse, gli stessi valori che i cristiani incarnavano per la loro fedeltà a Cristo: il rispetto della differenza, fondamento dell’accettazione e dell’amore dell’altro in quanto altro. Come si è detto prima, tutti sono in qualche modo martiri.
*****************
Vorrei ora soffermarmi sulla descrizione della testimonianza cristiana (il marturion) dei sette monaci di Tibhirine, assassinati verso il 21 maggio 1996. Non si tratta di sette testimonianze date individualmente, benché ciascuno di essi avesse una forte personalità. Si tratta della testimonianza di una comunità. È dunque importante conoscere bene come questa comunità fosse radicata nella società algerina, e per questo bisogna risalire un po’ indietro nella storia.
Molti decenni prima, era esistita una prima comunità cistercense a Staouëli, a 17 chilometri ad ovest di Algeri. Fondata dall’Abbazia di Aiguebelle nel 1843, tredici anni dopo la conquista dell’Algeria, aveva raggiunto una certa notorietà per il suo rapido sviluppo. Questa fondazione era tuttavia molto integrata nel sistema coloniale, sia nello spirito che nelle modalità di insediamento. Venne soppressa nel 1904. Una nuova comunità, con uno stile e uno spirito molto diversi, veniva fondata vicino a Medea circa 35 anni dopo.
Come molti monasteri sorti nel XIX secolo o agli inizi del XX, la comunità di Notre-Dame de l’Atlas, era stata fondata per servire da rifugio. Un gruppo di monaci del Monastero di Notre-Dame de la Délivrance in Slovenia, temendo l’espulsione, avevano aperto un rifugio a Ouled-Trift nel 1934, che in seguito venne trasferito a Ben Chicao nel 1935 e, nel 1938, a Tibhirine, a 7 chilometri da Medea. Lo stesso rifugio venne poi assunto dall’abbazia francese di Aiguebelle e trasformato in fondazione vera e propria, che ben presto divenne una comunità monastica autonoma. Fin dagli inizi, questa comunità instaurò delle relazioni di amicizia e di collaborazione con la popolazione locale che, in qualche modo, la adottò. I legami creatisi con la popolazione locale permisero alla comunità, benché composta totalmente da francesi, di attraversare senza difficoltà eccessive la guerra di Algeria. Uno di essi, Fr. Luc, venne si catturato come ostaggio, ma fu liberato qualche giorno dopo.
Alla fine della guerra di Algeria la situazione era, in ogni modo, radicalmente cambiata. La Chiesa di Algeria, composta in gran parte da francesi o da "pieds-noirs", francesi nati in Algeria, si ridusse a un piccolo resto, a causa dell’esodo massiccio di entrambi i gruppi verso la Francia. Le conversioni al cristianesimo erano divenute pressoché impossibili – almeno le conversioni riconosciute apertamente. Esclusa la possibilità di un reclutamento locale, ci si poteva interrogare sull’opportunità di mantenere in Algeria una comunità ormai molto ridotta di numero e che non aveva più la possibilità di trovare reclutamento sul posto. Le autorità dell’Ordine cistercense decisero quindi la soppressione del monastero. Ma il Cardinale Duval, che da tempo aveva riconosciuto nella comunità di Tibhirine una realizzazione del suo ideale di presenza cristiana, ruggì come un leone, e il monastero non venne chiuso. La semplice presenza di una comunità monastica cristiana, quale che fosse la nazionalità dei suoi membri, gli sembrava di importanza capitale. La comunità continuò a sussistere e la sua testimonianza fiorì nella morte di sette dei suoi membri, nel 1996. Tutta la popolazione locale, interamente mussulmana, pianse unanime la loro morte.
Esaminiamo ora, brevemente, la natura della testimonianza di questi monaci. Fu una testimonianza di comunione (la realtà cristiana per eccellenza, poiché “Dio è comunione”, come dice San Giovanni) a vari livelli.
1. Comunione con Dio nella preghiera contemplativa2. Comunione tra i fratelli dentro una comunità3. Comunione di questa comunità con i vicini4. Comunione di credenti con altri credenti
1. Comunione con Dio nella preghiera contemplativa
Il monaco viene al monastero per servire Dio, vivendo anche, il più profondamente possibile, nell’ambito del chiostro monastico, l’unione personale con Dio a cui ogni essere umano è chiamato. Figlio nel Figlio Primogenito, mosso dall’amore effuso nel suo cuore dallo Spirito Santo, si sforza di incontrare il Padre in una preghiera che vuole essere, nella misura del possibile, continua e che si esprime visibilmente nella celebrazione della liturgia. Tutta la sua vita tende all’unione mistica, che consiste nel lasciarsi trasformare, un giorno dopo l’altro, a immagine di Cristo dall’azione dello Spirito Santo.
Il modo in cui ciascuno dei sette fratelli visse nel profondo del cuore questa unione mistica, fa parte del segreto di Dio. Eppure uno di essi, ricco di talenti poetici e mistico nello spirito, ci ha permesso di intravedere nei sui scritti questo dialogo interiore. Si tratta di Christophe. Le sue poesie [7][7], ma soprattutto il suo diario [8][8] degli ultimi anni dimostrano come tutti gli avvenimenti quotidiani, in questi tre anni intensi per i loro eventi drammatici, e tutto attorno ad essi si trasformava in preghiera e in una occasione per lasciar sgorgare l’intensità dell’amore. Questo diario è un lungo poema d’amore, incarnato in una situazione estremamente concreta ed è opportuno citarne almeno qualche passo:
"O, se morire potesse arrestare ed impedire la morte di tanti altri ancora, o, allora, volentieri, come si dice volentieri: sì, mi offro come volontario." (20/12/1994).Ti chiedo quest’oggi la grazia di diventare servo / e di donare la mia vita / qui / come riscatto per la pace / come riscatto per la vita / Gesù attirami / nella tua gioia / d’amore crocifisso” (25/07/1995).
2. Comunione tra fratelli dentro una comunità.
Questi fratelli non hanno vissuto la loro relazione mistica con Dio come individui isolati, ma come comunità. La loro è stata una testimonianza comunitaria – la testimonianza di una comunità che contava, oltre ai sette fratelli messi a morte, altri due che sono sfuggiti al sequestro e all’esecuzione, ed altri che vivevano in quel momento nella casa annessa di Tibhirine in Marocco. Era un’autentica comunità cristiana : non la riunione di amici che si riuniscono per delle affinità particolari o per il fatto di condividere le stesse idee e gli stessi progetti. No, una comunità cristiana è formata da un gruppo di persone, di solito molto diverse le une dalle altre sotto tutti i punti di vista, e che Dio ha riunito per farne il sacramento della sua presenza. Ogni membro di questa comunità di Tibhirine aveva una propria storia personale e un percorso vocazionale molto caratteristico; ciascuno aveva una personalità ben definita, così diversa l’uno dall’altro quanto si possa pensare. E tuttavia erano giunti, soprattutto durante gli ultimi tre anni, non solo a vivere una comunione molto profonda tra di loro, ma anche una perfetta unanimità nelle decisioni per cui ne andava della loro vita – una unanimità che non poteva essere radicata se non nella profonda vita di preghiera di ciascuno di loro.
Bruno, figlio di un militare che aveva prestato servizio in Algeria; Celestin, già educatore di gente di strada e Paul, idraulico e ex-prefetto in Alta Savoia: ciascuno apportava alla comunità una grande ricchezza di dono di sé e di spirito comunitario.
3. Comunione di questa comunità con i vicini
Tra questi monaci, molto semplici, e la gente che li circondava si erano creati dei legami di amicizia di notevole profondità. E fino ad oggi, a più di quattro anni di distanza dalla loro morte, questi legami restano ancora vivi, come allora. I legami di amicizia con la popolazione algerina e mussulmana costituiscono senza dubbio una delle espressioni più squisite della loro testimonianza cristiana.La persona che maggiormente contribuì a creare tali legami fu senz’altro Fr. Luc: varrebbe la pena di scriverne la vita. Nato nel 1914, conobbe ancora bambino le terribili violenze della Prima Guerra Mondiale e le sofferenze del dopoguerra. Giovane medico, conobbe le violenze della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale si fece volontario per portare soccorso ai prigionieri nei campi di concentramento nazisti. Entrato a Aiguebelle nel dicembre del 1941, giungeva in Algeria nel 1946. Subito aprì nella proprietà del monastero un dispensario dove, a partire da quel momento fino alla sua morte nel 1996, - quindi, per cinquant’anni - prestò assistenza medica a chiunque si presentasse a lui, senza fare differenze di nazionalità, appartenenza politica o religione. Tutti lo amavano e lo rispettavano, perché tutti sapevano di essere amati e rispettati da lui. All’inizio, il suo dispensario suppliva l’assistenza medica pubblica, che ancora non c ‘era. Ma se la gente continuò ad andare da lui molto tempo dopo l’installazione di altri dispensari e ospedali pubblici nella regione, è per il fatto che si trovava in lui non solo un toubib, un medico che dava diagnosi quasi sempre esatte ma anche un uomo di Dio, che incarnava nel suo modo d’essere, allo stesso tempo estremamente umano e tutto soprannaturale, la sollecitudine pastorale del Figlio di Dio. Uomo di grande libertà interiore, con senso dell’umorismo realmente disarmante, non aveva paura di nulla e di nessuno. Nessuna minaccia, di qualsiasi provenienza, avrebbe potuto impedirgli di testimoniare fino in fondo, anche a rischio della sua vita, l’amore universale a chiunque avesse avuto bisogno di essere curato.
Anche Christophe, di cui ho già menzionato la dimensione mistica, era, perché poeta, uomo di grande sensibilità. In quanto responsabile degli operai e avendo contatti con la famiglia del custode, in particolare, aveva delle bellissime relazioni di amicizia con tutti. Il suo diario degli ultimi tre anni contiene dei passi di una freschezza straordinaria.
4. Comunione di credenti con altri credenti
Nel momento in cui si consumò la loro testimonianza, Christian era il superiore del gruppo (il priore, come si dice in gergo monastico). La sua vocazione percorse una traiettoria del tutto speciale. Nato in una famiglia di militari, aveva trascorso l’infanzia in Algeria, dove la mamma lo aveva formato a un profondo rispetto dell’Algerino e del Musulmano. Era successivamente tornato in Algeria durante la guerra, come giovane ufficiale. Dapprima prete secolare della diocesi di Parigi, sentì la vocazione alla vita contemplativa e scelse il monastero di Notre-Dame de l'Atlas a Tibhirine. Con il consenso dei superiori, fece a Roma, all’Istituto PISAI, studi di lingua e di cultura araba. Avendo sviluppato una conoscenza abbastanza approfondita e un grande amore per la religione islamica, si investì e investì profondamente la sua comunità nel dialogo inter-religioso. Eletto priore della sua comunità nel 1984, la guidò orientandola più esplicitamente verso quel dialogo inter-religioso, che coronava le altre forme di comunione già praticate. Da diversi anni si riuniva regolarmente al monastero un gruppo denominato Ribât el-Salam, dove si pregava e si condivideva la propria esperienza religiosa.**************
Nel 1993, quando in Algeria era bloccato il processo elettorale e il paese sprofondava in una spirale di violenza da cui non è ancora riuscito a liberarsi, si intimò agli stranieri di lasciare il paese, sotto pena di venire uccisi. Come molti altri, i monaci di Tibhirine dovettero porsi la questione : bisogna restare o bisogna partire ? Essi scelsero di restare.
Il 14 dicembre dello stesso anno, quando 12 Croati cristiani che lavoravano a Tamesguida, a quattro chilometri dal monastero, furono sgozzati, il problema si presentò in modo più immediato : e ancora di più dopo la visita di un commando armato, nella notte di Natale. Dopo un lungo discernimento nella preghiera, essi scelsero di restare. Nel corso degli anni seguenti, ogni volta che dei missionari – quasi tutti amici intimi della comunità – venivano assassinati, il problema si riproponeva di nuovo con sempre maggiore urgenza. Ogni volta optarono per restare, dopo un profondo discernimento nella preghiera. Perché ?
In Europa, alcuni dicevano che, mentre era comprensibile che dei missionari restassero per continuare il loro « apostolato », non era comprensibile che restassero dei monaci i quali, dopo tutto, avrebbero potuto condurre la loro vita di preghiera in qualsiasi altro posto, altrove … Pensare così equivaleva a non capire niente della loro vita. La vita contemplativa non si vive in astratto. Essa è sempre incarnata, radicata in un luogo e in un contesto culturale ben concreto. I monaci di Tibhirine non desideravano affatto il martirio. Non erano degli esaltati. Se scelsero di restare era per una esigenza di fedeltà, e questo a molti livelli.
Il monaco cistercense fa voto di stabilità. Questo implica non soltanto la stabilità nella vocazione monastica, ma anche la stabilità in una comunità molto concreta e, a meno che non si abbia ricevuto una missione speciale, in un luogo determinato. Certo, tutta una comunità può trasferirsi da un luogo a un altro, ma non lo può fare senza tenere conto dei legami che ha intessuto con la società e la cultura locali. La comunità di Tibhirine non poteva comprendere se stessa se non nelle sue radici nella montagne dell’Atlas, nei suoi legami di amicizia con tutta la gente di Tibhirine, di Draa Esnar, di Médéa. Predicando un ritiro ad Algeri alcune settimane prima del sequestro, padre Christian diceva, con un gioco di parole realmente pericoloso: “ … sottolineo questa differenza : io vengo dalla montagna..."
I fratelli erano consapevoli che anche la popolazione del luogo era stretta come in una morsa tra due violenze opposte, e non poteva scegliere di fuggire. Per i monaci, fuggire, allora, sarebbe stato mancare di solidarietà con coloro dei quali avevano condiviso la vita in tempo di pace. Dopo il martirio di Henri et di Paule-Hélène, Christophe scriveva nel suo diario: "Non si può dimenticare e partire senza tradire ciò che rimane una grazia di prossimità, di amicizia di verità (29/05/1995). I fratelli consideravano la loro presenza come una affermazione del diritto alla differenza – un diritto che reclamavano sia per la gente dei dintorni sia per loro stessi. Mohammed, il custode, aveva detto a Christophe: "Voi avete ancora una piccola porta dalla quale potete andarvene. Ma noi, no : nessuna via, nessuna porta». E Moussa, un operaio, aveva detto a Christian : "Se partite, voi ci private della vostra speranza e ci togliete la nostra speranza”. Non sarebbe stato cristiano partire. E restarono.
Anch’essi, come Pierre Claverie, ma da monaci contemplativi, secondo una modalità diversa da quella del vescovo, analizzavano attentamente la situazione politica del paese: non per reagire come dei politici, ma per dare a questa situazione politica, nella loro vita, una risposta evangelica. "La violenza mi uccide ed io debbo trovare da qualche parte un appoggio, per non lasciarmi travolgere da questo flusso di morte” scriveva Christophe nel suo diario (11/07/1995). È sufficiente dire che il monaco, soprattutto se straniero, non deve scegliere tra le due forze in conflitto? Ecco la risposta di Christophe: "Forse non basta dire che noi non dobbiamo scegliere tra il potere e i terroristi. In realtà, noi facciamo concretamente, quotidianamente la scelta di coloro che il padre Jean-Pierre chiama 'la gente comune' (le petit peuple). Non è possibile restare, se ci stacchiamo da loro. E questo ci fa dipendere – per un verso – da quello che essi scelgono nei nostri confronti. Potremmo cominciare a dare fastidio domani o dopodomani”. In effetti, davano fastidio: diventarono una presenza importuna.
Durante un ritiro predicato ad Algeri, a un gruppo di laici, l’ 8 marzo 1996, Christian commentava con forza il comandamento della Scrittura : "Non uccidere", applicandolo a tutte le situazioni del paese e terminava con una serie di frasi lapidarie: Non uccidere il tempo … Non uccidere la fiducia … Non uccidere la morte … Non uccidere il paese … Non uccidere il mussulmano … Non uccidere la Chiesa … Due settimane dopo, lui e i suoi fratelli venivano sequestrati e due mesi dopo cadevano vittime di questa violenza.
Quando, nella notte dal 26 al 27 marzo 1996 un gruppo di uomini armati si presentarono al monastero e li condussero via, in direzione di Medea, agli occhi di coloro che li avranno visti attraversare il paese, scortati da uomini armati, avevano l’aria di seguire dei terroristi. In realtà, seguivano Cristo.
Nessuno di loro desiderava il martirio. Essi amavano la vita e temevano la morte. Ma avevano coscientemente ed esplicitamente accettato la morte, se questa fosse stata la volontà di Dio. In una lettera circolare all’Ordine del 21 novembre 1995 avevano scritto : "La morte brutale – di uno di noi o di tutti insieme – non sarebbe che la conseguenza di aver scelto di vivere nella sequela di Cristo.[9][9]"
Se era necessario morire, volevano morire bene ! Il vecchio fratello Luc, che da tempo aveva chiesto che al suo funerale si cantasse la canzone di Edith Piaff "Non, je ne regrette rien", il 31 dicembre 1993 – quindi alcuni giorni dopo la drammatica visita della notte di Natale - faceva questa intenzione alla preghiera universale dell’Eucaristia: “Signore, donaci la grazia di morire senza odio nel cuore”.
L'ispirazione di questa bella preghiera è stata ripresa nel Testamento di Christian – un documento molto noto, che resterà senz’altro una delle pagine più belle della letteratura cristiana del XX secolo. Questo testo, d’altronde, non esprime soltanto i sentimenti di Christian, ma quelli di tutti i fratelli. In realtà, a partire da una prima stesura scritta il 1 dicembre 1993, venne terminato il 1 Gennaio 1994. Tra queste due date, Christian lo rielaborò e lo precisò con la partecipazione di tutta la comunità, e questo lo rende un documento che esprime non solo i suoi sentimenti personali, ma quelli di tutti i suoi confratelli.
L’ultimo paragrafo di questo Testamento è molto noto : Christian chiama amico colui che gli avrebbe tagliato la gola: " E anche a te, amico dell’ultimo istante, che non avrai saputo quel che facevi, sì, anche per te voglio questo GRAZIE e questo ad-Dio che tu rifletti nel tuo sguardo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due."
C’è tuttavia un altro paragrafo, in mezzo al testo, che ha una profondità mistica ancora maggiore. Alludendo a coloro che lo giudicavano un ingenuo nella sua stima per l’Islam e nella sua volontà di dialogare con i Musulmani, aggiungeva:
" … Costoro devono sapere che allora sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze."
In questa sublime sintesi, Christian raccoglie insieme la teologia biblica e patristica della ricostituzione della somiglianza divina e la preoccupazione che condivideva con Claverie e che attingeva dal messaggio di Gesù : quella del rispetto delle differenze. Diceva d’altronde poco prima della sua morte che uno dei motivi per restare sul posto, come cristiano ed europeo, era quello di affermare il diritto della «gente comune » del luogo alla propria differenza.
La comunione dei monaci di Tibhirine con il popolo algerino continua oltre la loro morte. Le sette lunghe bare che i cadetti dell’esercito algerino portavano – con apparente sforzo – a Notre Dame d'Afrique il giorno dei funerali, in realtà non contenevano, ciascuna, che una testa. I loro corpi non sono mai stati ritrovati e restano sepolti in modo anonimo nella terra d’Algeria, in un luogo sconosciuto – almeno ufficialmente – come migliaia di altre vittime altrettanto anonime della stessa violenza, contro la quale la loro vita era una protesta evangelica.
Il perdono dato in anticipo da Christian e da tutti i suoi fratelli a coloro che avrebbero potuto ucciderli, come pure il perdono dato dall’Ordine Cistercense e dalla Chiesa d’Algeria al momento dei funerali, non deve essere inteso come una accettazione tacita e tranquilla della violenza, di cui questi testimoni furono le vittime. Questo perdono non dispensa nessuno dal fare luce su tutte le circostanze di questa tragedia. Personalmente, anch’io, per fedeltà alla testimonianza di Christian, Luc, Bruno, Michel, Célestin, Paul e Christophe, voglio perdonare a coloro che li hanno uccisi e a coloro che hanno loro tagliato la testa, ma, pur senza avere l’ardore mistico di Christian, vorrei poter dare un volto a coloro nei quali devo riconoscere l’immagine di Dio.
Con il mirabile testo di Christian, possiamo concludere la nostra presentazione dei martiri d’Algeria. Il momento supremo della loro testimonianza si trova collocato in un periodo estremamente doloroso e confuso della storia dell’Algeria. Un processo di canonizzazione nelle forme previste dal Diritto canonico, presupporrebbe una ricognizione approfondita e minuziosa delle circostanze della morte e delle motivazioni degli aggressori, e si rivelerebbe, allo stato attuale, probabilmente molto difficile. Infatti nessuna inchiesta giudiziaria ha permesso di determinare con certezza né come si sono svolti i fatti, né l’identità degli assassini e dei loro mandanti né ha consentito di dimostrare con certezza in quale misura le motivazioni di questi ultimi fossero esplicitamente religiose. Tutto questo è tuttavia secondario, perché tutti sono stati testimoni (martiri) con la loro vita prima di esserlo con la loro morte; e la loro morte, non c’è dubbio, è stata una conseguenza di ciò che avevano vissuto. Essa è stata provocata da un atteggiamento evangelico in situazioni di violenza percepite lucidamente e analizzate alla luce della fede. Se una lettura puramente politica della loro vita e della loro morte sarebbe manifestamente fuorviante, una lettura puramente spirituale che ignorasse il coraggio e la lucidità con cui essi hanno aderito a situazioni concrete, oltre che essere ingenua, svuoterebbe di senso il loro messaggio. Non fu la stessa cosa per la morte di Cristo?
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
[1][1] Conferenza data all'Università Regina Apostolorum, a Roma, il 5 dicembre 2000, durante un Simposio sui Martiri dell'Africa e dell'Asia..
[2][2] 1 Gv 4,8.
[3][3] Ap 1,5.
[4][4] Sul Cardinal Duval si può leggere Marco Impagliazzo, Duval d'Algeria. Una Chiesa tra Europa e mondo arabo (1948-1988). Edizioni Studium, Roma 1994.
[5][5] Jean-Jacques Pérennès, Pierre Claverie. Un Algérien par alliance, Cerf 2000.
[6][6] Pubblicato in Le Lien di agosto-settembre 1993, ripreso in Lettres et messages, p. 125-126.
[7][7] Aime jusqu'au bout du feu. Cento poesie di verità e di vita – scelte e presentate da Fr. Didier, monaco dell’Abbazia di Notre-Dame de Tamié, Éditions Monte-Cristo, Annecy 1997.
[8][8] Le souffle du don. Diario di Fr. Christophe monaco di Tibhirine, Bayard – Centurion, 1999.
[9][9] Sept Vies pour Dieu et l'Algérie, Bayard / Centurion, 1996, p. 180.
LA STAMPA - 1/6/2008
INCHIESTA di VALERIO PELIZZARI - SCOURMONT (Belgio)
L'uomo che voleva perdonare
ma non sapeva chi
Da dodici anni padre Armand indaga da solo
sul giallo della morte dei monaci francesi in Algeria
Padre Armand Veilleux si sveglia ogni mattina alle quattro. La prima preghiera lo attende nella grande chiesa di pietra grigia, spoglia, affondata in un parco ricchissimo di alberi e fiori. Tutta la cadenza della sua giornata è scandita da regole scritte quattordici secoli fa. In questa abbazia di monaci trappisti, vecchia di centosessanta anni, padre Armand conduce la sua ricerca solitaria, lenta, faticosa, in certi momenti disperante, su Tibhirine. Lì, in quel monastero ai piedi delle montagne dell’Atlante, in terra algerina, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 sette confratelli furono sequestrati da un gruppo islamico. La morte dei prigionieri fu annunciata circa due mesi dopo.
Lui era presente a quei funerali, chiese con insistenza di aprire le bare per l’ultimo saluto ai monaci e, tra l’imbarazzo e i balbettamenti delle autorità, scoprì che le casse di legno lunghe due metri non contenevano alcun corpo ma solo sette teste. Era la prima menzogna ufficiale che affiorava.
Con un retroscena inquietante. Spesso erano le forze regolari che seguivano quella macabra procedura, per dimostrare ai loro ufficiali che la battaglia si era conclusa con l’eliminazione dei nemici, e per avere un indennizzo proporzionato. La prima menzogna era stata anticipata nelle settimane precedenti da svariate ambiguità e soprattutto sarà seguita negli anni successivi da altre falsità, contraddizioni sfacciate, reticenze, che hanno costruito un autentico e compatto muro di gomma attorno a quel massacro.
Preceduto alcuni mesi prima da una lucida profezia di padre Luc, una delle vittime, incontrata da padre Armand in visita a Thibirine: «Se ci succederà qualcosa sappiate che non saranno stati gli islamici, ma quelli con le divise regolari».
L’Algeria dal 1992 era precipitata in una spirale di guerra civile che produrrà duecentomila morti, nella quale era e sarà sempre più difficile vedere il confine tra i due schieramenti.
Qui, in questa abbazia dove si erano installate le truppe tedesche nella seconda guerra mondiale, e vicino alla quale Hitler aveva un suo bunker, approdano da anni lettere, telefonate, confidenze verbali di laici e religiosi che cercano di ricostruire i fatti di quella notte ai piedi dell’Atlante, una delle vicende più torbide e complicate che attraversa la cronaca europea degli ultimi quindici anni.
Da questo confessionale anomalo, sperduto nella campagna belga, nel 2003 è partita la prima ed unica denuncia al Tribunale di Parigi, per indagare sulla morte di quei sette cittadini francesi.
E’ firmata dai familiari di una delle vittime, padre Christophe Lebreton - settimo di dodici figli, ex sessantottino, che abbandona rapidamente Marx e Lenin e diventa monaco nel 1974 - e da padre Veilleux. Quella denuncia ha interrotto il sonno della giustizia in Francia e ha stimolato due testimoni, molto diversi tra loro, che più di altri, lentamente, corrodono quel muro di gomma.
Il primo, Abdelkader Tigha, ha lavorato con la Sicurezza militare, era sottufficiale presso il Centro di ricerche e investigazioni di Blida, ed era fuggito in Siria dopo gli avvertimenti ostili dei suoi superiori. Aveva chiesto protezione ai colleghi francesi, ma senza successo. Era entrato in scena pubblicamente alla fine del 2002, con una intervista clamorosa al quotidiano Liberation. Raccontava che il 25 marzo due furgoni erano stati approntati all’interno della sua caserma per la spedizione al monastero. I veicoli erano rientrati la notte tra il 26 e il 27. «Credevamo a un arresto di terroristi. Invece erano stati arrestati i monaci. Furono interrogati da Mouloud Azzout, braccio destro dell’emiro Zitouni. Due giorni dopo lo stesso Azzout li conduceva sulle alture di Blida e poi alla base dell’emiro».
Questa testimonianza diretta, dall'interno, smontava la versione ufficiale subito adottata e caparbiamente mantenuta dalle autorità algerine. Per loro tutto il quadro era semplice e chiaro. Djamel Zitouni, il capo dei gruppi islamici armati a quell’epoca, aveva rivendicato il sequestro con un comunicato, successivamente in un altro comunicato aveva annunciato l’uccisione dei prigionieri. E dopo poche settimane dai funerali anche Zitouni, un ignoto venditore di polli elevato rapidamente ai vertici dei gruppi islamici, senza esperienza politica e senza preparazione religiosa, era stato ucciso. Cioè eliminato bruscamente dal gioco. Con il passare del tempo sempre nuovi dettagli hanno dimostrato che Zitouni era in realtà un infiltrato dei servizi segreti, che aveva fatto deragliare disastrosamente quel sequestro su commissione.
Oggi Tigha ha ridotto le sue affermazioni pubbliche. Vive in una specie di limbo, in Olanda, dove la giustizia dice che ha diritto all’asilo politico, mentre la polizia dello stesso paese vuole espellerlo. Intanto gli algerini continuano a richiedere con insistenza, e con vari pretesti, la sua estradizione. E il suo esilio ha seguito un percorso tortuoso, toccando Damasco, Bangkok, Ginevra, Amman, Amsterdam, Bruxelles, con scali virtuali a Mogadiscio e Kuala Lumpur, attraverso carceri, ambasciate, chiese, caserme, aeroporti, ministeri, studi legali, uffici dell’Onu. Parallelamente sua moglie, rimasta in patria, ha trovato in casa decine di foto con abitazioni incendiate o distrutte, candele accese, e ha cominciato a ricevere minacce, telefonate mute oppure cariche di oscenità, secondo un copione convenzionale. Varie Ong si interessano ormai alla sua vicenda.
Solo la giustizia francese per ora lo ignora. Ma l’avvocato che ha presentato la denuncia della famiglia Lebreton è convinto che il disertore può dire molte cose sui misteri di quella notte. Certo Tigha non è un santo, e i nobili principi della verità e della giustizia forse non sono al primo posto nelle ragioni della sua fuga. Ma se il giudice francese non lo interroga sarà l’avvocato a chiedere l’interrogatorio, innescando un meccanismo che renderà pubbliche le contraddizioni di Algeri, e mostrerà l’imbarazzante lentezza investigativa del Tribunale di Parigi.
Tra le contraddizioni documentate e protocollate emerge la testimonianza dei militari algerini su una operazione del 24 novembre 2004, nelle montagne attorno a Bougara, dove in una base degli islamici erano stati trovati documenti appartenenti ai monaci, descritti in tutti i particolari. Ma in un’altra deposizione gli stessi documenti, sempre descritti con gli stessi dettagli, risultano trovati invece nella zona di Medea, già nel maggio 1996, ben otto anni prima, raccolti in una busta di plastica.
Il secondo testimone invece fino ad oggi è rimasto in ombra, anzi nella lunga lista dei sessanta nomi che potrebbero aiutare la giustizia, lui nemmeno compare. Non ha precedenti con i servizi segreti, è francese, ha una solida reputazione. A lui gli algerini non potranno rispondere con gli insulti e le minacce che riservano ai loro disertori. Questa persona ha già confidato privatamente, a interlocutori diversi e autorevoli, che i monaci furono uccisi dalle forze regolari algerine. Anche lui racconta, in dettaglio, che la responsabilità della uccisione ricade, come l’iniziativa del sequestro, sulle autorità militari di Blida. Conferma che certo in quella città c’erano gli esecutori materiali, mentre gli ordini erano arrivati dai vertici della onnipotente Sicurezza militare. Insomma i monaci erano stati coinvolti in un finto sequestro, come quello già avvenuto con i tre personaggi del consolato francese ad Algeri nel 1993, per mostrare all’opinione pubblica internazionale che l’Algeria era gravemente minacciata dagli islamici, ma che le autorità locali avevano i mezzi per reagire. Quella volta i prigionieri furono liberati tre giorni dopo, sottratti ad ogni assedio mediatico, e mandati rapidamente in missione in un posto sperduto dell’oceano Indiano. Ma nonostante queste precauzioni le ricostruzioni ufficiali dell’episodio avevano mostrato subito contraddizioni e vuoti di memoria.
Anche per i sette monaci tutto doveva concludersi felicemente e in fretta. Il generale Philippe Rondot, ai vertici delle Sicurezza francese, si era trasferito subito nella ex colonia, forte dei suoi rapporti personali con il generale Smain Lamari, ai vertici della Sicurezza militare locale. Due anni prima proprio Lamari, con una soffiata decisiva, gli aveva consentito di catturare il terrorista Carlos, di compiere l’operazione più brillante della sua carriera, guadagnandosi la Legion d’onore. Rondot aveva subito rassicurato fiducioso l’arcivescovo di Algeri che il sequestro sarebbe finito in pochi giorni.
La Chiesa cattolica aveva reagito con dolore e cautela dopo il massacro di Tibhirine, ripetendo ai suoi rappresentanti in quel paese islamico, ormai sconvolto dalla guerra civile, «Sia fatta la volontà di Dio, preghiamo». Altri religiosi e religiose erano già stati uccisi. Padre Armand allora era il Procuratore generale dei cistercensi, accolse l’invito della gerarchia, ma non in modo passivo.
Aggiunse a quella direttiva le parole pronunciate dalla madre di un giovane nero ucciso in Sudafrica ai tempi dell’apartheid: «Voglio perdonare, ma prima voglio sapere chi devo perdonare».
Diventerà la sua linea di comportamento nella ricostruzione dei fatti, nella ricerca della verità, in segno di rispetto umano per i suoi confratelli.
E conoscerà presto l’ostilità felpata del potere quando l’ambasciatore francese ad Algeri gli dirà: «La Francia aveva chiesto ai suoi concittadini di lasciare questo paese. I vostri monaci, come altri missionari, sono rimasti, per ragioni che noi comprendiamo e stimiamo. Ma quando succede un evento sfortunato come questo entrano in gioco imperativi che non sono più di vostra competenza».
Nella abbazia di Scourmont tutti osservano la regola del silenzio. E il silenzio parallelamente è stato scelto dalle autorità di diversi paesi in questa vicenda. Tibhirine in lingua araba significa «giardino». Nonostante il nome poetico del luogo, e la vita pacifica di quei monaci, da lì si snoda una vicenda opaca, brutale, rocambolesca, nella quale si concentrano alcuni elementi inquietanti e ricorrenti della cronaca recente: la guerra civile, il terrorismo islamico, le alleanze tra servizi segreti, la reticenza dei governi, l’indolenza della giustizia, e l’arma sempre più diffusa ed efficace dei sequestri che dall’Algeria si è poi allargata in maniera contagiosa all’Iraq e all’Afghanistan.
C’è anche il “suicidio” di un giornalista francese, Didier Contant, in appendice alla vicenda dei monaci. Si era recato dalla moglie di Tigha per raccogliere informazioni, più o meno nei giorni degli avvertimenti con le foto delle case bruciate e con le candele accese. Rientrato a Parigi si gettava, ufficialmente, dal sesto piano. Prima di quel giorno avrebbe confidato ad alcuni amici: «Ho l’impressione di aver messo i piedi in una storia che non riesco a controllare».
Padre Armand oggi è l’abate di Scourmont. La sua ricerca della verità in certi momenti sembra fare un passo avanti e tre indietro. Per lui è attuale quel messaggio di sant’Agostino, figlio illustre della terra algerina, per il quale è più facile raccogliere l’acqua del mare in una buca che comprendere il mistero della fede. Anche la notte di Tibhirine dopo dodici anni resta un mistero. Ma c’è un’altra dimensione nella fatica di conoscere. L’abate di Scourmont è nato in Canada, ha fondato monasteri in Africa e in sud America, richiama un personaggio simbolico della letteratura francese, appare come un nuovo conte di Montecristo trasferito in un contesto metafisico, in un carcere impalpabile, quello appunto dei segreti di stato, dove scava il suo tunnel.
Lui sorride ricordando una notte in autostrada, mentre andava in Francia, con una pioggia violenta, e un’auto lo tallonava a fari spenti con insistenza. Un episodio simile lo attendeva a Ciampino, quando scese dall’aereo e andò a noleggiare una vettura. Un’auto bianca lo seguì ovunque, anche al parcheggio, fino a quando si fermò in una piccola strada di Roma. E l’elenco degli episodi strani può continuare. Sembra un film di spionaggio di terzo ordine. Dice con semplicità: «Ho costruito un itinerario per conoscere la verità, sto attento a quando compare un nuovo elemento». Lo aiutano le preghiere e una padronanza strepitosa dell’elettronica. Tutta l’abbazia, per sua volontà, è collegata a internet senza cavo, come le migliori università e certe grandi aziende.
I sette di Tibhirine non erano uomini persi in una dimensione mistica, di pura contemplazione, staccati dalla realtà del mondo. Padre Luc, il decano, aveva alle spalle una vita di oltre ottanta anni, era un medico, aveva conosciuto i campi di concentramento tedeschi, poi nel 1947 era arrivato in Algeria, era stato preso in ostaggio dai guerriglieri ai tempi della guerra anticoloniale contro i francesi, per mezzo secolo aveva curato i suoi pazienti algerini, gratuitamente, senza fare distinzioni di sorta. Padre Christian era il priore, figlio di un generale francese, lui stesso era stato nell’esercito per oltre due anni durante la guerra di indipendenza, disegnando con la sua scelta di vita religiosa una parabola simbolica dalla violenza alla integrazione, verso la stessa popolazione prima oppressa. Padre Celestin anche lui era passato attraverso la guerra coloniale, e aveva curato un partigiano che i suoi superiori invece volevano giustiziare. Poi aveva lavorato in Francia, aiutando alcolizzati e prostitute.
Al monastero chiamavano «fratelli della montagna» i guerriglieri islamici, e «fratelli della pianura» i gendarmi e i soldati. Per tutti valeva il divieto di entrare in quel luogo di preghiera con le armi addosso.
E da anni nel terreno dei religiosi la gente della zona aveva potuto costruire una moschea. Era la linea di neutralità del monastero, mantenuta anche dopo la guerra civile iniziata nel 1992. E questa scelta aveva guadagnato a quegli uomini stranieri, rappresentanti di una religione diversa, il rispetto e la confidenza degli algerini.
Nel febbraio 2006, decimo anniversario del massacro, l’allora ministro degli interni Sarkozy andò in visita a Tibhirine per ricomporre i rapporti tra i due paesi, ben sapendo che quel luogo rappresentava e rappresenta tuttora un momento di imbarazzo e di ambiguità reciproca, e per ricavare qualche beneficio nella imminente campagna elettorale. Era accompagnato da un massiccio schieramento di forze lungo il tragitto, come se la minaccia islamica fosse sempre incombente. Aveva riletto in pubblico il testamento di padre Christian, il priore del monastero, presentandosi come esponente della Francia repubblicana e laica. Il paese che, appunto, fino ad oggi non ha voluto conoscere i modi e le ragioni di quel massacro.
Padre Luc, il decano del monastero, aveva lasciato una indicazione precisa.
«Per la mia morte, se non sarà violenta, chiedo mi si legga la parabola del figliol prodigo e che si dica la preghiera di Gesù. E poi, se ce n’è, datemi un bicchiere di champagne». Per la musica aveva scelto una celeberrima canzone di Edith Piaf: «Non, je ne regrette rien - No, non rimpiango nulla».
LA STAMPA - 6/7/2008
INCHIESTA di VALERIO PELLIZZARI – HELSINKI
"I monaci in Algeria uccisi dai militari"
Dopo dodici anni un alto funzionario occidentale svela la verità:
«Un elicottero dell’esercito mitragliò il bivacco dov’erano tenuti»
I sette monaci francesi sequestrati nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 a Tibhirine da un gruppo islamico, infiltrato dalla sicurezza militare, furono uccisi da un elicottero dell’esercito algerino. Il velivolo sorvolava la zona montuosa dell’Atlante attorno a Medea, assieme a un altro elicottero. Era metà maggio, dopo il tramonto. L’equipaggio aveva visto il fuoco di un accampamento e il caposquadriglia in persona, un colonnello, aveva sparato su quel bivacco». Le forze regolari non si avventuravano più da tempo sul terreno in quella regione impervia, scarsamente popolata, controllata dagli integralisti: si limitavano a fare ricognizioni aeree e a combattere con l’aviazione. Dopo l’attacco i velivoli atterrarono vicino al bivacco. Gli uomini a bordo capirono presto che avevano colpito il bersaglio sbagliato. Il caposquadriglia chiamò il comando del reparto elicotteri distaccato a Blida, da cui dipendeva, e disse chiaramente: “Abbiamo fatto un’idiozia, abbiamo ucciso i monaci”. Così si concluse quel sequestro».
Il signore che racconta questa vicenda parla per tre ore, in due incontri separati, senza la mediazione di alcun interprete. Si trova temporaneamente in Finlandia. È un alto funzionario di un governo occidentale, che in quegli anni lavorava ad Algeri, che aveva relazioni personali con personaggi locali importanti, e che non aveva contatti con il mondo opaco dell’intelligence. Ci tiene a ripeterlo con educata fermezza. È una persona che nel biglietto da visita può scrivere chiaramente la sua professione, senza ambiguità. «Certo conosco gli intrecci profondi tra la nomenklatura di Algeri, tra i clan, gli alti ufficiali, i funzionari della onnipotente compagnia petrolifera Sonatrach, e i Paesi stranieri interessati alle risorse energetiche di quella ex colonia. Interessati quindi, di riflesso, alla sua stabilità interna. Ma credo che la politica non possa scendere sotto un livello minimo di moralità. Personalmente sono obbligato a rispettare il segreto di Stato che ogni governo impone ai suoi funzionari. Ma in questo modo si perpetua anche la menzogna di Stato, con la quale non è facile convivere, soprattutto quando si prolunga nel tempo. Qualche anno fa la famiglia di padre Lebreton, una delle vittime, aveva fatto denuncia perché venisse aperta un’inchiesta in Francia. Credevo sinceramente che per loro, e le altre vittime, sarebbe arrivata finalmente una ricostruzione chiara, autentica, dei fatti. Invece nulla è cambiato».
Sono dodici anni che la morte di quei religiosi rimane avvolta dalla reticenza delle istituzioni, e dall’indolenza della giustizia. Solo nel dicembre 2002 Abdelkader Tigha, un giovane sottufficiale del Centro di ricerche e informazioni di Blida, che aveva già abbandonato la Sicurezza militare algerina e si era rifugiato all’estero, dichiarò pubblicamente che i monaci erano stati portati la notte stessa del sequestro nella sua caserma, con due veicoli dei militari. Nell’operazione gli islamici, i terroristi, rappresentavano solo la manodopera. I registi veri erano i militari «deviati». Quella era la prima smentita precisa, parziale, della menzogna di Stato. Ma sulla tragica conclusione della vicenda il muro di gomma ha resistito fino ad oggi. «L’elicottero era un MI 24, un velivolo di costruzione sovietica, con tutta una dotazione ben nota di armamenti, usato con grande frequenza durante la guerra in Afghanistan. Era una macchina da guerra, corazzata, molto diversa dagli elicotteri leggeri che i francesi avevano venduto agli algerini, dotati di raggi infrarossi e di altre apparecchiature elettroniche utili per la ricognizione. I corpi dei monaci erano crivellati di colpi e per questo, al momento dei funerali, nelle bare furono messe solo le teste. Le autorità invece parlarono subito di “spoglie ritrovate”. E avrebbero continuato con quella formula rituale e ingannevole se un monaco, padre Armand Veilleux, all’epoca Procuratore dell’ordine dei cistercensi, non avesse insistito per dare l’ultimo saluto ai suoi confratelli e ottenere la riapertura delle bare. Prima di lui però il medico legale dei francesi aveva visto quei corpi, sapeva bene che le spoglie erano impresentabili, e aveva riferito ai suoi superiori. Quei cadaveri martoriati avrebbero rivelato a tutti chi aveva sparato ai sette bersagli inermi. Perché quei proiettili potevano appartenere solo agli arsenali di un esercito regolare, non erano certo in dotazione ai guerriglieri islamici, che spesso nelle loro incursioni sanguinarie ricorrevano all’arma bianca, che organizzavano finti posti di blocco utilizzando le divise della gendarmeria, che parcheggiavano auto esplosive nelle vie più affollate».
Dopo la strage, per alcune giornate febbrili e confuse, fu costruita una versione ufficiale dei fatti che con il passare degli anni ha mostrato falle e contraddizioni. Quel rapimento al monastero era stato progettato per mostrare la pericolosità dilagante degli islamici, per sollevare l’indignazione internazionale durante la prigionia dei sette bersagli inermi, ma per concludersi con la liberazione, dimostrando così l’affidabilità, l’efficienza delle autorità locali. Doveva essere la ripetizione, allargata, più clamorosa, del finto sequestro compiuto nel 1993 quando tre funzionari del consolato francese ad Algeri erano stati catturati, ma anche liberati in settantadue ore senza un graffio. «Una settimana dopo l’attacco dell’elicottero, emergeva il comunicato numero 44 del Gia, del Gruppo armato islamico, con l’annuncio che i monaci erano stati uccisi il 21 maggio. Dieci giorni dopo le autorità colmavano il ritardo e dichiaravano che erano state ritrovate le “spoglie”. Chi aveva analizzato il messaggio attribuito ai fondamentalisti, consultandosi con alcuni specialisti dell’islam - anche senza sapere cosa era avvenuto sette giorni prima attorno al fuoco del bivacco - lo considerava un documento fasullo, malamente costruito da mani militari. Ma si era rivelato ancora più fasullo il documento precedente, il numero 43, con le citazioni errate dei versetti del Corano, rispedito corretto dai sequestratori una seconda volta, e trasmesso dalla radio di Tangeri. Era firmato dall’emiro Djamel Zitouni, un venditore di polli notoriamente incolto, infiltrato dalla Sicurezza militare negli ambienti islamici, salito rapidamente ai vertici della gerarchia integralista, e altrettanto bruscamente eliminato. Il comunicato 44 doveva coprire l’attacco dell’elicottero, confermare la responsabilità degli islamici. Le autorità algerine avevano annunciato il ritrovamento dei corpi il 31 maggio, esattamente due ore dopo la morte naturale del cardinale Duval, un personaggio leggendario in quel Paese. Era una coincidenza di tempi palesemente sospetta. Nei loro calcoli l’emozione per la scomparsa serena, incruenta, di Duval doveva in un certo modo deviare, contenere, neutralizzare, l’emozione ben più diffusa - soprattutto all’estero - per l’uccisione dei monaci inermi di Tibhirine, brutalmente decapitati, ancora una volta con il rituale dell’arma bianca. E i funerali infatti verranno celebrati nella cattedrale di Algeri, dedicata a Notre Dame d’Afrique, unendo in un’unica cerimonia Duval e i trappisti dell’Atlante».
In questo modo la vicenda del sequestro si chiudeva nove settimane dopo il suo inizio, con l’esaltazione dei sette martiri cristiani uccisi ufficialmente dagli integralisti in un Paese islamico, e sepolti alle pendici della montagna dove per anni avevano vissuto, come in una seconda patria, bene integrati con la gente del luogo, lavorando insieme la terra del monastero. «Le autorità locali avevano almeno un sostenitore esterno autorevole, che condivideva la loro versione dei fatti. Henri Teissier, l’arcivescovo di Algeri, grande conoscitore del mondo islamico, aveva fin dall’inizio adottato una linea molto cauta e prudente su Tibhirine. Non era d’accordo sull’apertura delle bare, e sulla sepoltura dei monaci al monastero. Non voleva danneggiare i rapporti costruiti in tanti anni di lavoro paziente tra Chiesa cattolica e governo algerino, mentre attorno imperversava la guerra civile scoppiata dopo il 1992. Anche nei momenti in cui il terrorismo appariva più violento e accanito, la sua residenza in collina aveva sempre mantenuto il cancello aperto, e non c’erano militari in divisa a montare la guardia. Per lui la verità ufficiale non mostrava ombre allarmanti, ma al contrario poteva essere condivisa senza perplessità. In qualche modo lo aveva sostenuto in questa linea anche il generale Rondot, ai vertici della sicurezza francese per molto tempo e in quella primavera 1996 consulente del ministro della difesa a Parigi. Subito dopo il sequestro era sbarcato ad Algeri, assicurando l’arcivescovo che la vicenda si sarebbe conclusa positivamente molto presto. Rondot dopo il suo arrivo si recava regolarmente, ogni giorno, nell’ufficio del generale Lamari, responsabile della sicurezza algerina, suo vecchio amico da anni. Si può dire che Chiesa e militari in pubblico avevano la stessa posizione». Prima della conclusione tragica della vicenda c’era stata una trattativa per la liberazione, con una cassetta video che mostrava i monaci ancora in vita, ripresi in una caverna, con un giornale stampato in data recente. «Il 30 aprile era andato all’ambasciata francese un emissario dei sequestratori. Si era mimetizzato nella fila degli altri algerini che ogni giorno si presentavano per chiedere un visto. Le sue credenziali come inviato dell’emiro Zitouni erano abbastanza approssimative: non aveva mai fatto il suo nome, e aveva un atteggiamento molto sospettoso, come temesse una trappola. I francesi lo avevano preso egualmente sul serio. Chiedeva secondo un copione abituale uno scambio di prigionieri, soldi, e documenti per l’espatrio. Per proteggerlo i francesi lo avevano fatto uscire dall’ambasciata dentro una loro auto, gli avevano lasciato alcuni numeri telefonici di contatto ma dopo quel giorno non si era più fatto vivo. Si convinsero presto che era stato eliminato». A quella data i militari «deviati» non sapevano più dove fossero finiti i monaci, il finto sequestro era già deragliato. Alcuni ufficiali della Sicurezza erano convinti, già da tempo, che i religiosi di Tibhirine fossero rimasti nel monastero non solo per continuare la loro vita di preghiere e umile lavoro agricolo, ma anche per fornire di tanto in tanto informazioni ai francesi sul movimento di guerriglieri e soldati regolari nella zona. Che insomma, quelle tonache, proteggessero degli informatori saltuari. È una delle tante leggende, senza fondamento, cresciute in questi dodici anni di fuga dalla verità. «È vera invece un’altra cosa. Un gruppo di autorità locali, tra cui il più attivo era il prefetto di Medea, erano convinte che i monaci, con la loro neutralità, con le cure garantite a tutti da padre Luc, il medico, fossero una presenza impropria, disturbante in quella zona. Bisognava mettere paura a quei religiosi stranieri, convincerli ad abbandonare quel luogo. Il prefetto aveva insistito più volte perché si ritirassero. L’arcivescovo non aveva fatto pressioni, ma aveva comunque offerto come sede alternativa un convento delle suore clarisse, in un’altra zona. Il finto sequestro per impaurire quei religiosi cocciuti non era stato ideato al quartier generale di Algeri, ai vertici dell’apparato di sicurezza, ma in periferia. Anche il Centro di informazioni di Blida sosteneva quell’operazione. E non a caso i veicoli che avevano prelevato i monaci venivano da quella caserma, e lì erano ritornati con i prigionieri il 27 marzo. Mentre ad Algeri l’esercito regolare, e non la Sicurezza deviata, cercava con impegno i sequestrati. Chi passava nei giorni successivi sotto l’ufficio del generale responsabile del centro operativo vedeva la luce sempre accesa: aveva assicurato che avrebbe cercato i monaci con tutti i mezzi, e che non avrebbe mai dato l’ordine di sparare».
Ma questa è un’ulteriore conferma delle due anime dell’esercito algerino. Diviso tra la componente patriottica, nazionalista, professionale, e la componente deviata della sicurezza, dei generali affaristi, legati a una gestione tortuosa del potere. Nel 1956 l’Algeria non era ancora un Paese indipendente, ma Ramdane Abane, ideologo del Fronte nazionale, denunciava i capi del nascente esercito di liberazione di incapacità e arrivismo. Verrà assassinato un anno dopo. Come nel 1992 verrà assassinato il presidente Boudjiaf, figura storica e rispettata della guerra di liberazione, nominato da pochi mesi ai vertici del Paese. Di quell’attentato non si è scoperto mai nulla. Tre anni dopo uno dei fondatori del Fronte islamico, in esilio in Francia, Abdelbaki Sahraoui, verrà ucciso dentro una moschea di Parigi. La cronaca dell’Algeria indipendente è carica di omicidi eccellenti, compiuti in patria e oltre confine. Come quello contro monsignor Claverie, vescovo di Orano. «Questa morte deve essere considerata un’appendice di Tibhirine. Due mesi dopo i funerali dei monaci il ministro degli Esteri francese, de Charette, era andato in visita ad Algeri. Aveva insistito per recarsi al monastero dove i monaci erano stati sepolti. Gli algerini erano infuriati per questa richiesta, e per l’ostinazione del ministro nel rinnovarla, la consideravano una dimostrazione di arroganza tipica degli ex colonizzatori. Lo avevano detto in pubblico, ad alta voce, senza alcuna reticenza. Quel sequestro era ancora un nervo scoperto, un capitolo imbarazzante nelle relazioni bilaterali. Alla fine cedettero. Era il primo agosto 1996. Il ministro incontrava in quella occasione anche il vescovo di Orano, monsignor Claverie, una personalità aperta, lontana dai metodi felpati e curiali. Il religioso gli aveva detto: conosciamo i responsabili per la morte dei monaci. Poco dopo Claverie prese un volo di linea, anticipando la partenza fissata per il giorno dopo. Pochissimi sapevano di quel cambiamento all’ultimo minuto, se non il protocollo, qualche funzionario di Air Algerie che aveva lasciato a terra brutalmente un passeggero, e i collaboratori più stretti. Al suo ingresso nel vescovado una bomba attendeva lui e il suo autista. Contro ogni legge della fisica la porta fu scagliata dall’esplosione in direzione opposta a quella indicata dal rapporto degli investigatori locali. Nella vicenda dei monaci il vescovo di Orano può essere considerato l’ottava vittima».
Il Vaticano: "Sconcerto e stupore"
Non abbiamo motivi per mettere in dubbio la versione ufficiale del massacro dei monaci - commenta padre Federico Lombardi, portavoce papale -. Né improbabili variazioni di scenario muterebbero la santità del loro martirio per fede». Esprime «stupore e sconcerto» anche il cardinale Giovanni Battista Re, attuale ministro vaticano dei Vescovi: «Ho seguito da vicino la vicenda e non sono mai giunte alla Santa Sede informazioni tali da legittimare un intervento presso le autorità algerine per chiarire la dinamica dei fatti. Per noi è e resta la feroce soppressione di una presenza pacifica in un paese nel quale i manaci sapevano di essere in pericol».
AVVENIRE, 28 FEBB 2011
INTERVISTA ESCLUSIVA di Jean-Marie Guénois
Io, superstite dei monaci di Tibhirine
Scampato alla strage del 1996, non aveva mai parlato dopo la morte dei monaci di Tibhirine. Abbiamo ritrovato frère Jean-Pierre in un monastero del Marocco, dove ha accettato di confidarsi in esclusiva per "Le Figaro Magazine".
Parla dei confratelli scomparsi, dei tragici eventi che hanno vissuto, del film di Xavier Beauvois, "Uomini di Dio" ("Des hommes et des dieux"). Ma anche della sua fede e della sua speranza. Un colloquio luminoso.
Le è piaciuto il film "Uomini di Dio"?
Mi ha profondamente colpito. Mi ha commosso rivedere le cose che abbiamo vissuto insieme. Ma soprattutto ho provato una sorta di pienezza, non tristezza. Ho trovato il film bellissimo perché il suo messaggio è vero, anche se la regia non sempre corrisponde con esattezza a ciò che è avvenuto. Ma non importa, l’essenziale è il messaggio. E il film è un’icona. Un’icona dice molto di più di quanto si vede… È un po’ come un canto gregoriano. Quando è ben composto, l’autore vi ha messo un messaggio e chi lo canta vi trova ancora di più, perché lo Spirito lavora in lui. In questo senso il film è un’icona. È davvero riuscito, un capolavoro.
Non ha nessuna critica da fare?
Ho sentito che qualcuno ha criticato il ruolo del priore, Christian de Chergé. Alcuni lo trovano un po’ spento, ma secondo me va bene. Altri lo trovano austero, perché non si vede mai sorridere. Ma rientra perfettamente nel personaggio che si confà alla grave situazione che abbiamo attraversato. Ammiro, in quel ruolo, il suo modo di porsi in ascolto dei confratelli, in particolare nei momenti difficili. Non vuole imporre. Sta in ascolto. Lo si sente pieno di rispetto per i confratelli. Si vede il pastore e la sua attenzione nell’aprirsi a Dio, per lasciarsi lavorare da Dio e avere la giusta reazione davanti ai confratelli. In tutto il film si vede quest’apertura a Dio, lo si interroga, ci si lascia influenzare da Lui. È monastico!
C’è una lacuna rispetto alla storia reale?
Non l’ho avvertita.
Ma lei, da monaco, come vive il successo del film?
Siamo contenti e meravigliati di vedere un tale successo, ma noi non c’entriamo per nulla! Il fatto di essere conosciuto mi disturba un po’… Un monaco è fatto per stare nascosto.
Perché all’inizio della realizzazione del film era contrario?
Non abbiamo voluto accettare il film né che fosse girato in Marocco, per il rischio di essere sospettati di proselitismo. Allora alcuni non ricevevano più da tempo il permesso di soggiorno. Dovevamo essere molto prudenti, ma eravamo abbandonati alla volontà del Signore. Perciò non siamo stati consultati. La troupe sapeva della nostra contrarietà e conosceva i motivi della nostra prudenza. Sono stati molto rispettosi.
Quando è arrivato a Tibhirine?
Non dimenticherò mai quel 19 settembre 1964, quando siamo arrivati vicino al monastero sulla due cavalli. Vedrò sempre quel bambino in groppa a un asino venirci incontro ad accoglierci. Ero felicissimo. Dalla mia piccola cella vedevo il chiostro, il giardino e il villaggio in lontananza. Mi sono detto: ecco il paesaggio che vedrò fino alla fine della vita. Perché nel mio cuore era per la vita. Senza ritorno. Sono rimasto trentadue anni, dal 1964 al rapimento nel 1996.
Com’era la vita laggiù?
I primi tempi furono difficili. Alla comunità mancava stabilità e fu un periodo molto duro. Del resto, la nuova Algeria si stava assestando. I rapporti con la gente dei dintorni non erano scontati. C’erano ripercussioni del rifiuto dei francesi. Si avvertiva questo fossato in occasione delle feste, cristiane o musulmane. Non si aveva nulla da spartire gli uni con gli altri. Abbiamo lottato e cercato di ammansirci reciprocamente. In questo il dispensario, gestito da frère Luc, è stato molto importante. Accoglieva fino a ottanta persone al giorno! Poi Christian de Chergé è stato eletto priore, nel 1984. Avevamo bisogno di qualcuno come lui che parlasse arabo e conoscesse bene la cultura musulmana. Da allora siamo diventati una vera comunità, più stabile. Chi s’impegnava lo faceva sul serio. Eravamo quasi autonomi. Fu un vantaggio, perché ci permise di intraprendere molte iniziative nei rapporti islamo-cristiani.
Che ruolo ha svolto Christian de Chergé?
Con lui c’è stata un’evoluzione verso l’islamologia. Lui ha studiato molto il Corano. La mattina teneva la lectio divina con una Bibbia in arabo. Talvolta faceva la meditazione con il Corano. Cercava di farci crescere. Avevamo rapporti con l’islam, ma non a livello intellettuale. Lui conosceva molto bene l’ambiente musulmano e la spiritualità sufi. Alcuni monaci ritenevano che la comunità dovesse restare in equilibrio e che non tutto dovesse essere orientato dall’islam. Questo causò delle frizioni. Le tensioni finirono per essere superate grazie alla creazione di un gruppo di scambio e di condivisione con musulmani sufi, che avevamo chiamato "ribat", con termine arabo. Avevamo capito che la discussione sui dogmi divideva, poiché era impossibile. Allora si parlava del cammino verso Dio. Si pregava in silenzio, ciascuno secondo la propria preghiera. Quegli incontri biennali si sono interrotti nel 1993, quando cominciò a diventare pericoloso. Ma la conoscenza reciproca ha fatto di noi dei veri fratelli, nel profondo.
Che segno ha lasciato in lei père Christian de Chergé?
Quello che mi ha colpito in lui è la sua passione interiore per la scoperta dell’anima musulmana e per vivere questa comunione con loro e con Dio, sempre restando vero monaco e vero cristiano.
A chi si sentiva più vicino?
A frère Luc! Eravamo molto vicini. Non era sacerdote, era monaco. Ci si poteva confidare con lui. Era molto saggio. In una piccola comunità dove non ci sono molti sacerdoti non è facile trovare un direttore spirituale. Se uno aveva un problema o una difficoltà di relazione con un confratello andava subito da frère Luc, ben sapendo che ci sarebbe stata una risposta. Era un modello… Al capitolo, anche durante il periodo di tensione e di paura, riusciva sempre a strappare una risata. Era prezioso per la vita in comune. Anche se, come medico, aveva un regime speciale, perché stava tutto il giorno al dispensario e in più si occupava della cucina! Cominciava le sue giornate all’una del mattino per essere pronto alle sette nel dispensario. Soffriva d’asma e non riusciva a dormire. Dormiva in piedi! Ero molto vicino anche a frère Amédée, l’altro scampato, che è morto qui, a Midelt.
Prega con i confratelli scomparsi?
Cerco di avere un momento, ogni mattina. Non sono dimenticati. Restano presenti. Tutti. Si cerca di andare avanti. Il film, da questo punto di vista, ci stimola nella nostra vocazione.
I suoi confratelli le parlano nella preghiera?
No, non ancora… Ho la certezza che siano vicino al Signore. L’ho avuta sin dall’inizio in ragione del loro martirio. Questo dà gioia, non tristezza. È ciò che provo guardando il film: gioia, non nostalgia! (risa) Sperando che il Signore ci mandi altri monaci che vogliano vivere questo.
Non prova mai nostalgia per la vita a Tibhirine?
Un po’, sì… Abbiamo vissuto cose molto belle insieme. E poi, la vita in comune per rappresentare il Signore e la Chiesa. È una vocazione molto bella. Può andare lontano. Cristo è più grande della Chiesa. I sufi utilizzavano un’immagine per parlare del nostro rapporto con i musulmani. È una scala doppia. Poggia a terra e la parte alta tocca il cielo. Noi saliamo da un lato, loro dall’altro, con il loro metodo. Più si è vicini a Dio, più si è vicini gli uni agli altri. E viceversa, più si è vicini gli uni agli altri, più si è vicini a Dio. C’è tutta la teologia qui dentro.
Eppure l’appuntamento era con la morte…
Quello che abbiamo vissuto là, insieme e fin dall’inizio, è stata un’azione di grazia. Ci eravamo preparati insieme. Per fedeltà alla nostra vocazione avevamo scelto di resistere, sapendo benissimo cosa poteva succedere. Il Signore ci manda, non si danno le dimissioni anche se, attorno a noi, i violenti cercano di farci partire, e persino le autorità. Ma abbiamo il Nostro Maestro ed eravamo impegnati con Lui. Poi è sopraggiunta anche la volontà di essere fedeli alle persone che stavano attorno a noi e di non abbandonarle. Erano minacciate quanto noi. Erano prese tra due fuochi, l’esercito e i terroristi. La decisione di non separarsi era stata presa nel 1993. E anche se fossimo stati dispersi con la forza, dovevamo ritrovarci a Fez, in Marocco, per ripartire e stabilirsi in un altro Paese musulmano.
Come vive quello che è successo: come un fallimento o un compimento?
Dopo il rapimento, io e père Amédée siamo stati costretti ad andare ad Algeri con la polizia. Pregavamo per i confratelli. Perché Dio desse loro la forza e la grazia di andare fino in fondo. Ci si aspettava un intervento della Francia o un intervento ecclesiastico che ottenesse la liberazione. Abbiamo appreso la loro morte il 21 maggio 1996. Stavamo recitando i vespri. All’improvviso è arrivato in cappella un giovane confratello che si è gettato per terra davanti a tutti, gridando la sua disperazione: "I fratelli sono stati tutti uccisi!". La sera, mentre eravamo fianco a fianco a lavare i piatti, gli ho detto: "Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso". Li abbiamo visti subito come martiri, veramente. Il martirio era il compimento di tutto quello che avevamo preparato da molto tempo nella nostra vita. Quegli anni che avevamo vissuto insieme nel pericolo. Eravamo pronti, tutti. Ma questo non ha escluso la paura.
Quando è cominciata la paura?
A partire dal 1993, quando è venuto il Gia, la sera di Natale. La comunità da allora si è molto rafforzata in unione e profondità. Ormai il pericolo era ovunque, ogni istante, notte e giorno. Ci ha molto scossi. Abbiamo davvero visto l’abisso in quel momento.
Che cos’è avvenuto esattamente?
La sera di Natale del 1993 hanno scalato il muro. Eravamo in sagrestia con Célestin, che preparava i foglietti dei canti per la messa di Natale. Uomini armati fino ai denti ci hanno circondato. Erano appena stati uccisi i croati, abbiamo pensato che toccasse a noi. Ci hanno rassicurato. Poiché eravamo dei religiosi, non ci avrebbero fatto niente. Ma hanno cominciato a parlare male del governo. Poi il capo ha detto: "Voglio vedere il papa del posto". Siamo andati a cercare Christian, che ha detto subito: "No, qui non si entra armati. Se volete entrare, lasciate fuori le armi. Nessuno è mai venuto armato, questa è una casa di pace!". Alla fine hanno discusso e hanno chiesto tre cose: che il dottore andasse a curare i feriti in montagna, medicinali, soldi. Con tatto, Christian ha risposto di no a tutte le richieste. Tranne per i feriti, che potevano venire, come tutti, al dispensario. Poi ha detto in arabo che stavamo preparando "la festa della nascita del principe della pace". Non lo sapevano e si sono scusati, ma hanno detto: "Torneremo". Dando una parola d’ordine: avrebbero chiesto del "signor Christian". Quella sera la messa di mezzanotte aveva un sapore speciale. L’indomani, al capitolo, abbiamo cominciato a discutere del futuro.
Che cosa avete deciso?
Che se chiedevano soldi, gliene avremmo dati un po’ per evitare la violenza, ma pensavamo comunque di andarcene, perché non volevamo collaborare con loro. Poi il vescovo di Algeri è venuto a dirci che se decidevamo di partire, non dovevamo andare via tutti insieme, per non spaventare la Chiesa d’Algeria. Abbiamo deciso che sarebbero partiti due. Célestin, che era stato traumatizzato da quel Natale e che doveva subire l’intervento di sei bypass al cuore, e frère Paul, che aveva bisogno di riposo.
C’era unanimità tra voi?
Dopo quel Natale c’è stato un altro capitolo. Alcuni pensavano che si dovesse restare, altri che fosse meglio partire. Tanto più che a quel punto, per sicurezza, eravamo costretti a chiudere il monastero da fine pomeriggio sino al mattino. Avevamo anche detto a chi faceva da noi il ritiro spirituale di non venire più. Eravamo isolati. Questo ha cambiato l’economia del monastero, bisognava trovare altri modi per vivere.
Ci sono state divergenze?
Le cose sono maturate. Père Armand Veilleux, venuto a predicare uno degli ultimi ritiri, ci aveva detto che eravamo arrivati "al culmine" della nostra vita in comune. Infatti eravamo giunti all’unanimità alla decisione di restare. I rapporti fraterni si erano saldati ancora di più. Nel capitolo non si potevano prendere alla leggera decisioni tanto gravi. Sul Gia, su un’eventuale partenza, sul nostro comportamento nel caso che fossimo stati rapiti o dispersi… Eravamo tutti decisi a restare, ma la paura di quello che sarebbe successo era presente, più o meno, negli uni e negli altri. Eppure bisognava continuare a vivere. C’erano attentati a destra e a sinistra. Persone vicine al monastero erano state arrestate o minacciate. Ecco in che clima vivevamo.
Non c’era serenità, neanche dopo aver fatto la scelta di restare?
No, mai. La sera, quando si cantava la compieta, c’era come una cappa di pericolo, di piombo, che scendeva sul monastero. Di notte poteva succedere qualunque cosa. Ci dicevamo: che cosa succederà stanotte? Non ci si aspettava di essere uccisi, ma si sapeva che poteva capitare in qualsiasi momento. Avevamo la fortuna di essere una comunità. E la vita andava avanti: uno era cuoco, un altro giardiniere, un altro si occupava dell’amministrazione. Questo permetteva di dimenticare, ma la sera, la notte, ci si chiedeva cosa potesse succedere. Non lo dicevamo, ma ciascuno lo pensava.
E che cos’è successo la sera del rapimento?
La sera del rapimento ero nella stanza del custode. Mi sono svegliato intorno all’una, al rumore di voci davanti al portone. Erano già dentro, in giardino. Sicuramente volevano vedere il dottore. Aspettavo che bussassero alla porta prima di farmi vedere. Sono andato a guardare dalla finestra. Ho visto uno di loro andare direttamente verso la camera di frère Luc. Non era normale, perché quando si cerca il dottore si bussa al portone e il custode si presenta. E ho sentito una voce che diceva: "Chi è il capo?". E ho riconosciuto Christian. Mi sono detto: "Li ha sentiti prima di me, ha aperto e gli darà quello che vogliono". Nel giro di un quarto d’ora ho sentito chiudersi la porta che dà sulla strada e ho pensato che se ne fossero andati. Dopo un po’ père Amédée ha bussato e mi ha detto: "I fratelli sono stati rapiti!". Dovevano essere usciti dal retro, altrimenti li avrei sentiti.
Che cos’ha provato in quel momento?
La domanda che mi sono immediatamente posto era sapere: se li avessi sentiti e visti uscire, che cos’avrei fatto? Sarei rimasto o gli sarei corso dietro per andare con loro?
E la sua risposta?
Non ho ancora risposto. Se fosse successo, non sarebbe stato facile, ma ho la sensazione che gli sarei corso dietro. Amédée mi ha detto subito: "Non li uccideranno, perché se avessero voluto l’avrebbero fatto subito". Era difficilissimo muoversi di notte in montagna, perché c’era un posto di blocco non lontano, sulla collina. Inoltre frère Luc aveva 82 anni e un altro era appena uscito dall’ospedale, con sei bypass. Camminare con persone così non era facile. Pensavamo che si sarebbero serviti di loro per qualcosa. Nell’attesa ci sentivamo completamente soli, privi dei confratelli. La comunità era distrutta. Speravamo sopra ogni cosa che li avrebbero liberati presto, perché se non fossero tornati la vita al monastero era finita.
Perché i rapitori non sono entrati come le altre volte?
Quando venivano, scalavano il muro. Poi dall’interno aprivano la porta che dava sulla strada. C’era un semplice chiavistello. Quella porta non veniva mai chiusa a chiave. Volevamo che i nostri rapporti fossero fondati sulla reciproca fiducia.
I rapitori erano del Gia o no?
Il guardiano del monastero mi ha raccontato che erano prima andati da lui dicendo che volevano vedere il dottore, con la scusa che avevano due feriti gravi. Gli aveva risposto che i padri gli avevano proibito di proseguire di notte il servizio di guardia al monastero. Era vero, gliel’avevamo proibito perché non ci fossero problemi per la sua famiglia e per lui nel caso di una disgrazia, se ci fosse stata un’aggressione… Hanno insistito. Allora il guardiano è uscito di casa dal cortile anteriore per recarsi al monastero. Là si è imbattuto in un gruppo che era già in cortile. Condotto davanti al portone che dava sulla stanza del custode, si era trovato in mezzo a un altro gruppo che aveva già fermato père Christian. Questi allora chiese: "Chi è il capo?". Uno dei rapitori rispose indicando chi li guidava: "È lui il capo, bisogna obbedirgli". Poi uno, rivolgendosi al guardiano, chiese: "Sono sette, vero?". Il guardiano rispose: "Dici giusto". Ma eravamo nove… Probabilmente è per questo che io e père Amédée non siamo stati prelevati; perché quando ebbero preso sette monaci se ne andarono senza frugare in tutta la casa".
Ma lei cosa pensa: chi li rapì? Il Gia o l’esercito?
Sappiamo solo quello che è successo al monastero. Sul resto ci interroghiamo come tutti. L’indagine prosegue. Quanto al Gia, il guardiano mi ha raccontato che mentre scendevano uno di quelli che l’accompagnavano disse a un altro: "Vai a cercare una corda, vedrà chi è il Gia", perché lo volevano sgozzare, ma riuscì ad allontanarsi.
A distanza di parecchi anni, non riesce a vederci più chiaro sui motivi del rapimento?
Non ci si vede chiaro. In uno dei comunicati su radio Medi 1, il Gia dà un motivo della loro esecuzione: "La gente si convertiva a contatto con loro, perché avevano dei rapporti e uscivano dal monastero, cosa che i monaci non dovrebbero fare. Meritano la morte. Abbiamo il diritto di giustiziarli". Ecco dunque uno dei motivi. A darlo sono gli stessi estremisti islamici. In seguito altri motivi sono stati dati, più che altro ipotesi, aspettando il verdetto del giudice istruttorio che conduce un’indagine sulle circostanze del rapimento e dell’esecuzione.
Lei come vive questo enigma?
Ci piacerebbe sapere chi li ha uccisi e dove sono sepolti i loro corpi. Ci piacerebbe saperlo, ma tutto qua, non c’è inquietudine. Non cambia nulla alla morte dei confratelli. Sono morti per le ragioni per le quali avevano scelto di restare. È per questo che sono martiri. Hanno dato la vita. Erano pronti a dare la vita per questo.
Si può sperare nel martirio?
Alcuni l’hanno fatto, ma non era il nostro stato d’animo. Non lo auspicavamo, non eravamo lì per quello. Ma bisognava essere pronti. Eravamo nelle mani di Dio. Ed è per questo che, vivendo in quello stato d’animo, i miei confratelli sono morti. Devo riconoscere e dire che non siamo stati eccessivamente scioccati. Certo, ti segna, fa soffrire, dà pena… Ma si sapeva "perché", eravamo tutti pronti a questo! La vita è solo un passaggio, in un modo o nell’altro finisce. Dopo si raggiunge il Signore.
Il film di Xavier Beauvois, ispirato al loro sacrificio, può essere un lievito di riconciliazione tra cristiani e musulmani?
Certamente! L’esempio dei confratelli, nel loro rapporto con la gente, con i musulmani, mostra che si può diventare veri fratelli, nella comunione, insieme, in profondità e non solo in superficie. In profondità, davanti a Dio. Alcuni l’hanno vissuto. Non è raro. Quando i cristiani lo vedono, si rendono conto che i musulmani sono persone come le altre. Alcuni sono molto buoni: i valori di accoglienza, di gentilezza, di compiacenza, si vedono. Così come i valori di unione con Dio, di preghiera quotidiana. Hanno rapporti con Dio che sono talvolta estremamente sorprendenti e che sono veri esempi per noi cristiani. Un amico di Christian, che ha dato la vita per lui, gli diceva: i cristiani non sanno pregare… Sono molto caritatevoli, molto servizievoli, ma non li vedi mai pregare! Molti cristiani lo potrebbero capire.
Non ha mai provato odio durante e dopo il dramma?
È strano, ma non provo quel sentimento.
E amarezza?
Neanche.
Come interpreta l’attuale inasprimento di alcuni musulmani contro i cristiani, di cui i recenti attentati sono un segno?
Viene dagli estremisti. I veri musulmani dicono: questi non siamo noi. Si vergognano di quello che è successo ai confratelli. Non è la "religione". D’altra parte, non ci si conosce abbastanza. Ci si percepisce attraverso i violenti e questo crea una tendenza a raggrupparsi tra simili e ad avere paura dei contatti. La soluzione è coltivare l’amicizia, anche a rischio di farsi ingannare.
Farsi ingannare?
Sì, c’è chi parla di reciprocità, si vede poco o nulla: ai musulmani è permesso costruire moschee da noi, ma prima che si possa costruire chiese da loro…
Lo pensa davvero? In realtà i cristiani sono spesso accusati di ingenuità con l’islam…
Non è questo il punto. Per la fede, rischiamo! Sta scritto nel Vangelo: "Amate come io vi ho amato". Spesso si è perdenti, bisogna saperlo. Ma capita che ci sia una reazione. Allora ecco la reciprocità, e un riconoscimento reciproco può andare molto lontano.
Qual è la sua speranza per il 2011?
Bisogna sperare che l’amore sia sempre il più forte. Che l’amore di Dio avrà l’ultima parola. Fondata in Dio, la speranza deve dimorare. E non siamo noi a poter risolvere le cose. La speranza invincibile, come diceva Christian de Chergé. Non deve essere vinta, deve sempre restare viva, fondata su Dio, sulla Sua grazia. Anche quando si muore sotto i colpi. Come diceva, la speranza deve restare viva…