«Oasis» 9 (LUGLIO 2009)
Conversazione con p. Paolo Dall’Oglio
a cura di Maria Laura Conte
Chiese Orientali, Sacramento di Buon Vicinato
Un recupero non archeologico della tradizione cristiana orientale per un rinnovato incontro con i musulmani. È questo l’ideale che anima la comunità monastica di Mâr Mûsâ al-Habashî, in italiano San Mosè l’Abissino. Un monastero che dalle ultime propaggini della catena del Qalamûn si protende verso il deserto siriano, 100 km a nord di Damasco.
Abbandonato nel XVIII secolo, il monastero è stato restaurato a partire dagli anni ‘80 ad opera di padre Paolo Dall’Oglio che, indirizzato allo studio dell’arabo nell’ambito della Compagnia di Gesù, scelse di fermarsi a vivere nell’eremo disabitato per riappropriarsi del patrimonio siriaco. Ma ogni riappropriazione è sempre una nuova creazione.
La Sua è certamente una vocazione particolare. Com’è nata in Lei la decisione di legare la vita a un monastero siriano?
Quando ho incontrato la tradizione siriaca abitavo a Damasco come studente di arabo e di Islam. In una situazione italiana molto polarizzata (eravamo negli anni ’70), l’ingresso nella Compagnia di Gesù aveva coinciso in me con l’apertura alla profondità delle relazioni tra la Chiesa e le altre culture religiose. Nella capitale siriana vivevo molto con i musulmani, passavo le serate con le confraternite mistiche, i venerdì andavo nelle moschee ad ascoltare le prediche e seguivo i corsi nella facoltà di diritto islamico. Nello stesso tempo mi rendevo conto che, data questa forte esposizione al contesto musulmano, dovevo cercare di radicarmi nell’esperienza cristiana locale. Soprattutto la domenica andavo di chiesa in chiesa per conoscere i bizantini, i maroniti (che già avevo incontrato in Libano) e in particolare i siriaci ortodossi. La loro liturgia oscilla tra siriaco e arabo senza scegliere nessuna delle due lingue in modo esclusivo: un indizio interessante della dimensione dialettica più o meno riflessa di questa comunità. Ero particolarmente affascinato dalle prediche dell’attuale Patriarca Zakka I che proveniva da un monastero dell’Iraq ed era allora relativamente giovane, essendo appena stato eletto a capo della sua Chiesa. Le sue prediche mi colpivano perché usavano una lingua araba molto più coranica di quella che si poteva ascoltare nelle chiese cattoliche dalle labbra di sacerdoti e Vescovi formati in massima parte in Libano o in Occidente e dove, qualche volta, la lingua araba sapeva molto di traduzione. Nelle sue prediche il discorso sgorgava da un’anima locale e si organizzava intorno a un modo di commentare la Sacra Scrittura molto immaginativo, molto simile ai midrashim ebraici, con storie e racconti. Insomma, una lettura semitica della Sacra Scrittura in cui il racconto biblico è commentato da altri racconti e sintetizzato con forza in alcune espressioni paradossali. Ritrovavo così la saggezza e lo stile dei padri del deserto, il gusto dei grandi poeti siriaci, Efrem, Giacomo di Sarug e gli altri. Quell’uomo dispiegava di fronte a me una tradizione vivente e mi mostrava che quella sua tradizione, radicata nel mondo semitico antico, s’era nutrita della solidarietà e della commensalità simbolica con i musulmani lungo quattordici secoli. Mi è parso un ponte ermeneutico e di qui si è originata la mia scelta per il rito siriaco cattolico.
È importante però comprendere che nel monastero di Mâr Mûsâ non siamo guidati da un sentimento archeologico e nostalgico ma, lo dico forse con esagerazione, da un atteggiamento profetico. Vogliamo partecipare a ridare disponibilità di fede e di impegno a questa radice tradizionale siriaca perché porti nuovi frutti nel nostro tempo.
Tornando all’esempio del Patriarca Zakka, egli è stato capace di scegliere di non trasferirsi in America benché la maggior parte dei suoi cristiani siano emigranti (dalla Turchia, dall’Iraq, dalla Siria…). Per lui la tentazione poteva essere quella di andare in Svezia o in America, dove ormai vive la maggioranza dei suoi fedeli. E invece ha fatto una scelta di radicamento locale. La sua è un’assunzione cosciente di un’identità culturale relazionale tra siriaci cristiani e arabi musulmani.
Lei si identifica in questa scelta?
Io partecipo pienamente di questa sua scelta, lui lo sa e ci vogliamo bene. Quest’uomo è stato un autentico profeta del rinnovamento nella sua Chiesa e lo dimostrano i frutti. La sua Chiesa, pur essendo una delle più piccole tra le comunità orientali, vive un’effervescenza culturale e spirituale. Dal canto nostro, il monastero che ho rifondato con i fratelli e le sorelle della comunità è più radicalmente (più “cattolicamente” se si vuole) pensato per un’assunzione di responsabilità teologica e spirituale verso il mondo musulmano, una dimensione che non si pone in modo identico nella controparte ortodossa.
Per noi, che siamo uomini e donne consacrati all’amore di Gesù per i musulmani nel contesto arabo islamico e cristiano (minoritario) della Siria di oggi, si tratta di vivere la relazione a Dio e al suo Cristo in un linguaggio che vogliamo già “dialogale”, radicato nell’esperienza monastica orientale e al contempo in relazione con l’esperienza mistica musulmana. Quando dico “esperienza mistica musulmana” non intendo una realtà estranea alla vita religiosa della grande maggioranza dei musulmani. Non è che scegliamo il sufismo contro il resto dell’Islam. Per noi si tratta di cogliere la dimensione spirituale e mistica della vita normale dei musulmani, della preghiera, del pellegrinaggio, dell’atmosfera sacra della famiglia, della moschea di quartiere. Tutto questo “quotidiano” della religione islamica nella sua dimensione spirituale. Noi vogliamo rendercelo familiare per empatia spirituale intima. Massignon diceva che si tratta di desiderare, per amore, di porsi nell’asse del destino della persona amata.
Come la tradizione orientale favorisce l’incontro con i musulmani e che cosa può insegnare all’Occidente?
Io penso che le Chiese orientali che hanno vissuto con i musulmani rappresentino un sacramento di buon vicinato e commensalità che dovrebbe essere analizzato e recepito dalla teologia cattolica per poter fare le stesse scelte, urgentissime, nella relazione con l’Islam tanto in Oriente quanto in Occidente. La Chiesa non va all’Islam passando sopra le teste dei cristiani che hanno vissuto con i musulmani nelle stesse città e nelle stesse strade per quattordici secoli. Intendiamoci, ci sono anche molti cristiani orientali che diranno agli occidentali: «Non fate come noi, separatevi dai musulmani, evitateli perché alla fine vi mangiano come hanno mangiato noi, accogliete noi e rifiutate loro». Sono discorsi che si sentono dalle bocche di alcuni cristiani orientali. Naturalmente non è questa la mia idea né la nostra idea come comunità monastica. Noi riteniamo che in queste terre si sia prodotta una vera sintesi significativa, che le relazioni tra cristiani e musulmani negli stessi quartieri, con i monaci che per secoli hanno ricevuto i musulmani in visita ai monasteri, abbiano un significato riguardo allo statuto teologico dell’Islam nella teologia cristiana. Allo stesso tempo siamo consapevoli che nel passato c’è stata un’insufficiente elaborazione teologica. Un certo irrigidimento dogmatico ha frenato il coraggio necessario per un’ermeneutica del fatto musulmano rispetto alla storia della salvezza. Da questo punto di vista, i cristiani orientali hanno bisogno di partecipare a una riflessione cattolica, universale, ecumenica che superi le chiusure di natura identitaria per riassumere una responsabilità apostolica, missionaria, autentica nei confronti del mondo musulmano.
Per dirla in altro modo, i cristiani orientali rappresentano nei fatti, nella pratica, una realtà che ha una rilevanza teologica. Non si può vivere nello stesso palazzo con gente destinata all’inferno! Una tale comunanza di vita è un sacramento che dimostra e realizza una realtà di portata teologica. Però la riflessione teologica non è ancora maturata, nonostante la rivoluzione copernicana operata dal Concilio, in relazione alle religioni e, in particolare, all’Islam.
In base alla sua esperienza concreta, esiste in Siria un “Islam di popolo”?
Capisco le vostre distinzioni, che mi piacciono, e dirò: esiste un Islam di popolo ed esiste una “Chiesa di popolo” (la Chiesa siriana che è ecumenica, fatta di ortodossi maggioritari, di cattolici minoritari e di protestanti “appendicolari”). In Siria abbiamo un Islam plurale e una Chiesa plurale. Esiste anche una realtà ideologica dell’Islam plurale, così come esiste una realtà ideologica della Chiesa plurale. Trovo molto sano cercare di distinguere tra religiosità ideologica e religiosità per così dire carismatica, pneumatica. Dentro questo ci mettete il folclorico, il “di popolo”. Qui sono io che divento curioso…
Nel lavoro di Oasis si è osservato questo: si tende a distinguere l’Islam in fondamentalista e moderato ma dentro l’Islam moderato si rischia di individuare figure che con l’Islam non hanno più molto a che fare… Moderati significa spesso “occidentalizzati”.
È come se nella distinzione tra Islam fondamentalista e moderato non si riuscisse ad abbracciare il cuore dell’esperienza religiosa musulmana. Ma allora Le chiedo: come vede questo nella sua esperienza siriana? Esiste un Islam di popolo e come lo individua? Un Islam dove l’esperienza religiosa concreta non sia ridotta a ideologia…
Io la riduzione a ideologia non la seguo perché per criticarla si casca nell’ideologia un’altra volta. Cerchiamo di rimanere sul fenomeno e di analizzarlo. Il fenomeno è questo: una grande massa di musulmani devoti. Dove la devozione musulmana costruisce un’unificazione dell’esistenza personale, familiare e sociale in una serie di riti, uno stile di vita, un’estetica e un progetto sociale cioè dei valori. La vita rituale è importantissima, innanzitutto la preghiera: per i più devoti possono essere le cinque preghiere, per altri una preghiera al giorno, altri saranno assidui solo alla preghiera del venerdì. La preghiera, certamente, ha un’enorme importanza per ritmare e dare spessore alla devozione. Così il pellegrinaggio, naturalmente. Anche il digiuno del Ramadan ha una funzione fondamentale: riportare alla pratica religiosa tutti coloro che slittano verso comportamenti più secolarizzati. Esso è un’occasione di educazione alla fede davvero di massa. A questo si aggiunge il fatto che i devoti musulmani hanno, statisticamente parlando, una moralità più forte rispetto a chi, per un motivo o per un altro, “alla romana” diciamo “se ne frega”… La devozione comporta un impegno morale e, quindi, una sete di democrazia connessa con la correzione della corruzione. Noi ci troviamo con le scuole che miracolosamente funzionano ancora, con gli uffici che bene o male funzionano, con tutta una serie di servizi che funzionano, a causa di un’attitudine religiosa d’umanità sul posto di lavoro, sia nel pubblico che nel privato. Si nota un certo paternalismo, caratterizzato però generalmente da un vero rispetto per la persona in quanto persona religiosa. La persona nell’Islam è la persona religiosa, non è la persona avulsa dalla relazione con Dio. La dignità della persona è innanzitutto nel suo stare innanzi a Dio. A tutti i livelli della vita economica e sociale la devozione implica un rispetto della persona umana nella sua dignità.
Questo Lei lo definirebbe Islam di popolo?
Direi di sì...
Questa fede sembra avere implicazioni sociali, antropologiche…
Sono continuamente ammirato dal fatto che, grazie a questa devozione musulmana, la nave sociale regge il mare e non affonda, perché ci sarebbero mille motivi per affondare: la corruzione politica, il clientelismo internazionale costruito sui privilegi e sulle caste, l’eccesso di repressione di regime provocata e giustificata dalle derive terroristiche….
Questo Islam di popolo non è separato dall’Islam diciamo “jihadista”, non è separabile da un confine netto; è contiguo. In ambito universitario ci potranno essere simpatie verso i gruppi più estremi; quando c’è una crisi come quella di Gaza ci si sente più rappresentati da quelli più arrabbiati. La contiguità si accentua o, al contrario, si allenta a seconda di quanto la propria dignità islamica, la propria aspirazione all’emancipazione, i propri desideri di sviluppo siano più o meno umiliati dai “moderati” al potere. E dal potere internazionale.
Trova un “corrispondente” di questa realtà nel cristianesimo?
Del cristianesimo mediorientale arabo? Ma certo! E di fatto poi questo Islam di popolo è quello che va, da secoli, a braccetto con il cristianesimo di popolo. Sono quelli che realizzano la teologia pratica della commensalità, della comunanza, del buon vicinato.
Ed è questo, forse, anche il risvolto concreto di ciò che chiamiamo “tradizione”…
Sicuramente, però oggi tradizione e comunanza sono consumate dalle tensioni globali. Le tensioni globali rischiano di accentuare lo sbriciolamento di questo spazio e, quando le crisi sono gravi come a Gaza, si può ormai dire che lo spazio è sgretolato…
Se per quattordici secoli la realtà di contiguità tra Islam di popolo e cristianesimo di popolo ha garantito la convivenza ed è stata storia di tutti i giorni, ora dunque questa tradizione è a rischio.
Sì, è così. Non può più rimanere semplicemente un Islam di popolo e un cristianesimo di popolo. Entrambi devono diventare un Islam e un cristianesimo coscienti, capaci di sviluppare la propria autocoscienza teorica perché devono resistere ai due estremi: alla deriva, che Lei ha chiamato ideologica, fondamentalista, jihadista, e alle tentazioni dell’uso della violenza che rispondono al sentimento di umiliazione, di corruzione e di deriva autoritaria tipica dei regimi.
In passato questo pericolo e questo bisogno non c’erano o non erano così forti come lo sono oggi?
C’erano altri pericoli. In Siria veniamo dal colonialismo, l’impero ottomano… La cultura delle società sul piano locale restava un po’ impermeabile alle grandi questioni. Come da noi in Italia nell’Ottocento: Savoia, Garibaldi ma poi la gente rimaneva quella che era, la società profonda non era molto intaccata dalle tempeste di superficie. Oggi non si può più ragionare così. L’Islam radicato sul territorio, rurale o urbano che sia, è in piena tempesta perché gli eventi agiscono – anche a causa dei mass media – fino in profondità. E accelerano i processi, li accentuano. Senza una reazione fortemente cosciente è chiaro che il peso di questa zavorra tradizionale, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, si annullerà e diventeremo prede di movimenti rapidi, frettolosi, superficiali e poveri sul piano culturale.
Se lo scatto di consapevolezza non c’è, scatta la consapevolezza jihadista oppure…
… oppure la dimenticanza, l’oblio..?
No, piuttosto la mitizzazione del passato per farne un’ideologia, come Lei dice, o un programma fondamentalista oppure una base mitologica per le aggregazioni di potere…
Una specie di nostalgia ai fini dell’egemonia… Sullo sfondo che ha delineato, come stiamo quanto a libertà religiosa in Siria, per la sua esperienza?
Nella misura in cui i movimenti islamici vittimisti si impongono (quelli che sostengono la teoria dell’Islam perennemente under attack), ciò giustifica molte reazioni, anche le più eccessive. Faccio un esempio: mi è stato di fatto rifiutato il visto per recarmi in Algeria, pellegrino sulle tracce di padre Charles de Foucauld, perché sono un religioso cattolico. Qui vedo evidente una saldatura tra potere cosiddetto moderato e deriva fondamentalista. In nome di che? Della pace sociale che deve farsi carico del sentimento islamico dell’essere sotto attacco, compreso l’attacco proselitista. E quindi, per mantenersi, i poteri moderati cedono agli istinti fondamentalisti.
La Siria è abbastanza indenne da questo, però sul territorio si possono manifestare saldature tra le paure provocate dai movimenti islamisti, l’attrazione che essi possono esercitare e la possibilità che il potere voglia strumentalizzarli o strumentalizzarne la repressione a seconda delle situazioni, delle regioni, dei contesti.
Anche da qui si esce con una tutela della tradizione, ma rielaborata e riacquisita con un passaggio teoretico di cui diceva…
… e che fallirà se fallisce il dialogo interreligioso sia in Europa che nel sud del Mediterraneo e nel sud del mondo (Nigeria, Ciad, Sudan e via discorrendo). Bisogna immettere nel complesso conflittuale odierno dei capitali di speranza. Bisogna riuscire ad attivare valanghe, effetti-domino. Si tratta di operare in una logica di giustizia e di buon vicinato globali. Avremo il futuro che avremo saputo sognare.
JESUS 8 agosto 2010
INTERVISTA –
PADRE PAOLO DALL’OGLIO
Il gesuita del deserto
shaykh islamo-cristiano
In Siria ha fondato il monastero di Deir Mar Musa, che è diventato un punto di riferimento per il dialogo tra cristiani e musulmani.
Ora sogna di diventare un "itinerante" nel mondo arabo, per dare vita ad altre fondazioni.
E in vista del Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, che si terrà nel mese di ottobre, spiega quanto sia cruciale oggi una teologia dell’incontro tra islam e cristianesimo.
Lo shaykh del deserto ha la barba bianca e sogna a occhi aperti come un ventenne. Ha conosciuto il tempo del silenzio senza risposte, quello della semina, poi dell’attesa. E oggi che intravede i primi frutti, pensa a nuovi deserti e altre attese. Paolo Dall’Oglio, classe ’54, è uomo e prete di una generazione che ha saputo assaporare le potenzialità di una società e di una Chiesa che potevano essere diverse. In Siria, sui ruderi del monastero di san Mosé l’Etiope, Deir Mar Musa el-Habashi, ha costruito pietra dopo pietra lo spazio d’incontro tra fedeli di monoteismi diversi e di Chiese sorelle, separate in casa. Romano, gesuita, incardinato nella Chiesa siro-cattolica, ha fatto sintesi tra Ignazio e i padri del deserto, tra il Vaticano II e i mistici sufi, tra l’eterna saggezza monastica e le mille domande di tanti uomini e donne del nostro tempo che, da ogni latitudine, vengono a cercare pace e risposte in questo angolo di Medio Oriente.
In dieci persone, monaci e monache, e numerosi volontari, provenienti da tradizioni cristiane diverse, conducono vita di preghiera e accoglienza in questo eremo arroccato sulla roccia. Guardano all’eredità di Charles de Foucauld, celebrano la liturgia in arabo; di recente hanno riaperto una seconda sede, a circa 50 chilometri di distanza, in direzione di Palmira: l’antico monastero di San Giuliano, Mar Eliyan, nei pressi dell’oasi di Qaryatayn.
«Il monastero cristiano orientale sulla rive del deserto, sul piano simbolico, fa parte del mondo musulmano, dal profeta Mohammed fino a oggi», dice padre Dall’Oglio. «I cristiani monaci fanno parte della spiritualità musulmana. Noi siamo un simbolo dell’islam, siamo riconosciuti come luogo di presenza spirituale di Dio, di incontro devoto, d’intercessione». Entrare nello spirito e nel pensiero che guida questa esperienza non è facile. Anche Roma ha faticato a capire. Negli anni, Dall’Oglio ha spiegato e approfondito, cercando di mantenere l’ispirazione originale di un’esperienza di confine, senza oltrepassare la sottile linea che divide l’evangelizzazione di frontiera dal sospetto di mancata ortodossia.
«Siamo una comunità per il dialogo interreligioso: questo è ben spiegato, anche da un punto di vista dogmatico, nelle nostre costituzioni, che nel 2006 hanno ricevuto il nulla osta della Congregazione per la dottrina della fede», spiega padre Paolo. Per completare l’iter giuridico da un punto di vista canonico, e procedere all’erezione che spetta al vescovo locale, la comunità aspetta l’incoraggiamento del patriarca siro-cattolico. Sul piano giuridico, al momento Dall’Oglio è «fondatore» e svolge ruolo di priore del monastero, «attendendo che fra tre-quattr’anni la comunità sia pronta, sia canonicamente che umanamente a eleggere il suo superiore». Se fosse lui, automaticamente perderebbe l’appartenenza alla Compagnia di Gesù. «La mia speranza è che venga eletto un altro: io vorrei diventare un itinerante, andando in giro per il mondo musulmano a preparare altre fondazioni».
Ha già in mente qualche posto dove realizzare questo suo desiderio?
«Il Pakistan. Ci sono già stato perché anni fa avevo sognato, letteralmente, di andare a scoprire una vecchia missione cattolica abbandonata nel Nord del Paese. Presi contatti con il vescovo del posto, raccontandogli il mio sogno. Mi rispose che era disponibile. Con gli autobus ho attraversato Turchia, Iran, Belucistan, fino a raggiungere Islamabad. Con un autista messoci a disposizione dal vescovo locale girammo tutta la diocesi, finimmo in un posto nella catena montuosa tra Lahore e Islamabad, a Dalwal, dove alla fine del XIX secolo un emiro locale divenuto cristiano aveva creato una scuola per periti agrari con tre collegi distinti, per indù, musulmani e cristiani. E li aveva affidati ai Cappuccini fiamminghi. Ho ritrovato questa struttura, che era stata abbandonata nel 1954 e poi nazionalizzata. Ho celebrato messa sulle tombe dei frati. Poi non se ne è fatto più nulla. Ma il mio sogno si è realizzato in una logica di Chiesa, perché oggi, in quel posto, c’è la cittadella del dialogo interreligioso creata dai Focolarini del Pakistan. Comunque continuo a coltivare l’idea di tornare ai confini con l’Afghanistan, dove c’è una presenza cristiana seminale e una mini-parrocchia cattolica... Oppure sulla via himalayana per la Cina, percorsa da tanti giovani».
E se non fosse il Pakistan?
«Mi attira Al Khalil, cioè Hebron, la città di Abramo a sud-est di Gerusalemme verso il deserto, ma anche l’Africa musulmana sub sahariana... Comunque il mondo musulmano è grande, andrebbe bene anche un quartiere periferico di Parigi. Dipende dal numero, la qualità e l’entusiasmo delle vocazioni che verranno».
Quali sono i cardini di questa spiritualità che dialoga con l’islam?
«Il radicamento è nei padri del deserto, egiziano e siriaco. La tradizione dell’esperienza monastica in terra d’islam, quattordici secoli di buon vicinato, e poi Charles de Foucauld e Louis Massignon. De Foucauld nel 1909 aveva fondato una fraternità laica di persone che volevano vivere lo spirito di Nazareth in ambiente musulmano. Alla sua morte ne diventa responsabile Massignon. Questa realtà oggi si è data dei delegati per le diverse aree linguistiche e, per la lingua araba, c’è il sottoscritto. In qualche modo ho una fiaccola defoucaldiana in mano. Inoltre nella nostra spiritualità, come ispirazione, è innegabile che ci sia anche il Francesco dell’incontro con il sultano e quindi delle stimmate de La Verna. Nell’interpretazione di Massignon, Francesco era andato in Egitto a chiedere il martirio per la conversione dei musulmani, senza ottenerlo. Lo riceverà, invece, all’interno dell’Ordine, si manifesterà con le stimmate, attraverso le quali Dio mostra di accettare il suo voto di dare la vita per i musulmani. In questa interpretazione, che è anche la nostra, l’islam è la questione, la priorità ecclesiale assoluta per Francesco, che si unisce alle Crociate, ma per realizzarne una tutta diversa, a modo suo!».
E lo specifico ignaziano?
«Certamente un altro elemento guida sono gli esercizi di sant’Ignazio, che sono stati anche tradotti in greco dai monaci ortodossi dell’Athos. La capacità degli esercizi di traversare confini è dimostrata. Con un’espressione coranica, diciamo che gli esercizi sono un albero di olivo, né occidentale né orientale. A livello di pratica ascetica e di crescita spirituale, c’è una comunione mediterranea molto più profonda di quella che si ritiene normalmente. Negli ultimi anni, inoltre, nel nostro monastero sono passati molti fratelli protestanti coi loro preti e pastori, uomini e donne, e con i loro gruppi di collaborazione con i musulmani. In ambiente svedese e norvegese c’è un forte movimento di esercizi spirituali ignaziani. Addirittura si diffondono nelle carceri. Insomma vedo che gli esercizi offrono una pedagogia spirituale fertile anche ecumenicamente e interreligiosamente».
Gli esercizi di Sant’Ignazio possono essere dati anche ai musulmani?
«Io non li dò perché ritengo che proporre una serie di meditazioni bibliche a una persona che vive del Corano sia un gesto discutibile. So che c’è chi lo fa, ma imbarca dei musulmani nei gruppi cristiani. Non è questa la mia prospettiva. Piuttosto, sarei interessato a cercare un’analogia della pedagogia ignaziana all’interno della tradizione spirituale musulmana. Vedremo...».
Partendo dalla sua esperienza, in vista del dibattito al prossimo Sinodo sul Medio Oriente, quale dialogo teologico è possibile con l’islam?
«L’Oriente cristiano in ambiente musulmano non è riuscito a formulare una teologia adeguata e positiva del valore teologico dell’islam. L’Occidente ne ha elaborata una, ma in senso negativo, cioè esprimendo una radicale scomunica dell’islam: mi riferisco a quattordici secoli di tradizione che vede i musulmani come infedeli. Nella visione medievale occidentale la questione è dolorosamente netta. L’Oriente cristiano in ambiente arabo ha espresso una visione diversa, perché sviluppare una capacità di buon vicinato ha in sé un valore teologico. Insomma, non si può convivere con una persona, salutarla sul pianerottolo, piangere per i suoi dispiaceri, far giocare assieme i ragazzini e poi pensare che vada all’inferno. Nell’VIII secolo a Baghdad, il patriarca nestoriano Timoteo I dice al califfo al-Mahdi: "Muhammad ha camminato sulla via dei profeti e degli amici di Dio". Già questo era un tentativo di dare uno status teologico all’islam. Prima di lui, Giovanni Damasceno parlò dell’islam come di una "eresia cristiana", riconoscendone la parentela teologica in vista della riconciliazione finale in Cristo. La prossimità biblica vetero e neo-testamentaria dell’islam è molto forte. Se uno va a cercare tutti i motivi per dire che il Corano non è originale, ne trova quanti ne vuole: lingua, concetti, storia e simboli sono precedenti. Ma il precipitato linguistico-teologico coranico gode di un’originalità propria, centrata sull’avventura religiosa del Profeta, e che va rispettata come tale. Su questo con i musulmani c’è un campo di comprensione molto ampio. Oggi è necessario aguzzare l’ingegno teologico, affinare l’obbedienza pneumatica, per essere più cattolici, e provare ad aprirsi all’opera dello Spirito. Perché l’islam di oggi deve essere interpretato dalla carità, proiettata su un domani di grazia, e la carità coopera al suo sviluppo verso un futuro provvidenziale: ciò che noi siamo veramente è in vista del compimento escatologico. Ciò che sapremo diventare assieme, il compimento finale, è quanto fornisce fin d’ora la logica dello sviluppo. Non si tratta tanto di cercare in radice ciò che è da Dio e ciò che non lo è, perché tutto viene da Dio e tutto è corrotto dalla disobbedienza, ma se ci mettiamo a obbedire, tutto viene trasformato. "Tutto è contenuto dalla misericordia di Dio", dice il Corano».
A quale livello è possibile, dunque, questo tipo di dialogo?
«È possibile a livello di base, quando un cristiano e un musulmano che lavorano insieme si riconoscono sinceri davanti a Dio reciprocamente. Allora siamo in presenza di un evento simbolicamente escatologico di riconciliazione finale».
Lei ha più volte parlato di «Chiesa islamo-cristiana». Cosa intende oggi con questa espressione?
«Il patriarca melchita di Damasco ha parlato, in un articolo pubblicato sulla rivista Oasi, di "Chiesa dell’islam", che è un concetto parallelo a quello di Chiesa islamo-cristiana. Personalmente, intendo una Chiesa che sviluppa la coscienza identitaria di essere inviata ad annunciare la carità di Cristo ai musulmani. L’idea d’una possibile sintesi islamo-cristiana presupporrebbe quella dell’islam come preparatio evangelica, ma io oggi preferisco guardare all’islam attraverso la categoria di preparatio escatologica, concetto teologico che significa riconoscere che l’altro converge con noi, che tutti convergiamo assieme verso un eschaton dove non ci attende una fusione di identità, ma una comunione di identità. Ripeto, scegliamo nel Signore di essere compagni di strada in una prospettiva d’armonizzazione ma anche di purificazione finali... sempre attuali e presenti all’oggi esistenziale, mistico e politico! Il nostro avanzare assieme verso la manifestazione ultima del piano grazioso della misericordia divina, per noi cristiani davvero centrato nel mistero del Figlio di Maria, non persegue tanto un coordinamento dogmatico e un’unificazione identitaria, ma un superamento estatico di comunione nella carità».
Quale sarà, dal suo punto di vista, la questione centrale nel Sinodo di ottobre per il Medio Oriente?
«L’Instrumentum laboris ripete cinque volte che cristiani e musulmani non possono vivere assieme se non si realizza la separazione tra religione e Stato in una laicità positiva. Capisco e mi pare giusto che i cristiani debbano ricordare ai loro vicini musulmani che non sono contenti d’essere considerati cittadini di seconda categoria, tollerati e protetti non sulla base di sacrosanti diritti umani ma sulla base della discriminazione operata dalla legislazione religiosa. Ritengo però illusorio pretendere che l’evoluzione del mondo musulmano possa avvenire semplicemente adottando il modello moderno occidentale. L’islam svilupperà la sua propria e originale via alla modernità reinterpretandosi autonomamente... Certo, con l’attiva e benevola partecipazione dei cristiani orientali, e dei discepoli di Gesù di qualunque provenienza e condizione che si dedicano al ministero del dialogo fraterno. I modelli importati e imposti non funzionano! La via della testimonianza generosa e della gratuità è la più fertile. La riforma interna delle nostre Chiese è il più grande servizio che possiamo offrire al mondo. E poi la democrazia moderna non cade dall’alto, si sviluppa in modo geniale dal basso secondo modalità proprie a ogni contesto, seppur esposto allo stimolo delle dinamiche globali, nel bene e nel male, in azione e reazione».
Vittoria Prisciandaro
DEIR MAR MUSA
15 Agosto 2003
Sulla base d'un articolo nella rivista Jesus di luglio 2003.
Lettori hanno domandato una spiegazione più profonda di alcuni termini nell'articolo
Risponde p. Paolo Dall’Oglio
Inizierò con semplicità e trasparenza a spiegarmi riguardo all’espressione “Chiesa islamo-cristiana” la quale è alla radice dell’espressione “monastero islamo-cristiano” ben criticabile se malintesa.
Le considerazioni che seguono riguardano più immediatamente la teologia della missione che quella del dialogo.
Gesù di Nazaret, Cristo di Dio, unigenito del Padre ed unico figlio della Vergine Maria, Madre di Dio, ha posto l’atto divino della salvezza, nella forma dell’atto umano dell’obbedienza, fondando la possibilità d’una vera comunione con Dio per ogni persona, dall’alba dell’umano e fino al secolo dei secoli. Attraverso di lui e per mezzo di lui riceviamo lo Spirito Santo che testimonia e realizza in noi la nostra figliolanza adottiva da Dio e grida dal più profondo di noi stessi Abbà, Padre! Nessuno di coloro che sono stati creati ad immagine di Dio, in qualunque tempo e condizione, è escluso dalla grazia della salvezza operata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo nella comunione dell’ineffabile ed assoluta trascendenza dell’unicità ed unità divina.
A noi, non per nostro merito, è toccata la grazia di conoscere questo mistero nel concreto della nostra esistenza nella storia di questo mondo, e di esservi introdotti efficacemente attraverso i sacramenti salvifici della santa Chiesa, corpo mistico del Cristo. Questa stessa Chiesa, Gerusalemme nuova, vedrà affluire verso il suo Cristo, nuovo tempio, gente d’ogni tribù, popoli e nazioni; ed in lei, come in lui, non vi è più giudeo o greco, libero o schiavo, uomo o donna. Il mistero del Regno eterno di Dio, in vista del quale ogni persona umana è stata creata, non è separabile dal mistero della santa Chiesa la quale, vero Paradiso, accoglie tutti gli eletti, figli e figlie di Dio, lavandoli nell’acqua e nel sangue che sgorgano dal costato ferito dell’Agnello immolato e li introduce nella delizia dell’eterna divina comunione.
Nell’epoca apostolica lo Spirito Santo mostrò alla Chiesa che, anche nella storia, e non solo nella metastoria, l’incorporazione al corpo mistico non avviene attraverso un’affiliazione carnale al popolo d’Israele ed alla nazione dei Giudei, dalla quale, tuttavia, viene il Cristo e la salvezza. Sicché la circoncisione non è più la porta e l’espressione dell’elezione divina ma bensì lo sono la fede ed il lavacro battesimale.
La Chiesa si stabilì dunque in un esemplare e lodevole pluralismo tanto in Oriente che in Occidente sforzandosi di ripetere ovunque, ed a vantaggio di tutti, la dinamica salvifica del mistero dell’incarnazione, assumendo ed interpretando con ardita intelligenza spirituale e purificando gradualmente le culture dei popoli evangelizzati e mettendosi in ascolto dell’opera profetica dello Spirito Santo che ovunque ed in molti modi sempre prepara il tempo dell’incontro maturo delle persone con il loro Signore e Salvatore attraverso il suo corpo che è la Chiesa.
Dalla grande e divina lezione biblica apprendiamo che lo Spirito di Dio, attingendo ai futuri meriti di Cristo, agisce, come per gradi ed attraverso simboli, per elevare e purificare l’umanità caduta nel peccato e per renderla capace di riconoscere ed accogliere il Signore che la trasformerà in mistica sposa della sua divinità.
Con pietà, sacrificio e sagacia spirituale la Chiesa seppe incarnare nuovamente la sua fede in Cristo Salvatore nei simboli e nella lingua, nella cultura e nella storia dei popoli e delle nazioni evangelizzate obbedendo all’azione dello Spirito Santo che sempre e da sempre la precede preparando non solo i cuori ma la cultura stessa dei popoli che vengono alla fede. Per questo, dal punto di vista della nostra fede, ci è impossibile vedere la fede cristiana come una tra le molte fedi, pur avendo imparato troppo tardi a praticare un sincero rispetto ed una cordiale considerazione della fede altrui.
La nostra fede ci domanda di cooperare all’opera dello Spirito di Cristo che chiama ogni fede ad una finale purificazione e trasfigurazione in lui, e ciò al di là ed attraverso le contraddizioni della lettera delle culture umane verso lo sbocciare delle gemme dello Spirito. La religione, considerata come un aspetto essenziale delle culture, è come tale da evangelizzare. Non è infatti cristiano il considerare le religioni come dei sistemi chiusi ed impermeabili, capaci d’interagire solo in un dialogo sociale e diplomatico.
Certo si dovrà sinceramente rispettare l’autocoscienza cultural-religiosa di quelle che ci siamo abituati a chiamare “religioni”. Effettivamente il “Giudaesimo” è oggi un complesso cultural-religioso dinamicamente sistematizzato e cosciente di formare una “religione”. Non solo, tale sistema è conscio di riguardare in modo decisivo l’esito finale del cammino religioso di tutta l’umanità. È poi un fatto che, dall’epoca della prima Chiesa Giudeo-Cristiana e fino ad oggi, attraverso gravissime sofferenze, è maturata la coscienza reciproca, giudea e cristiana, che i “destini” del cristianesimo e del giudaesimo sono misteriosamente legati al mistero del Messia che viene. (E per destino si intende qui la linea provvidenziale ed il telos divino).
L’Islam è conscio di formare una Umma, una Nazione o Comunità, rilevante per il futuro escatologico dell’itinerario religioso dell’umanità. La difficile storia, i simboli biblici, la spiritualità correlata con quella dei cristiani e dei giudei e la cultura di fondo, in gran parte comune, fanno sì che il destino dell’Islam e quello delle Chiese Cristiane siano correlati ed interrelati in un modo non ignorabile.
Sembra evidente, e la Chiesa Cattolica del Concilio Vaticano II lo ha esplicitamente e coscientemente assunto, che il ritardo della Parusia crea una situazione di contemporaneità significativa e provvidenziale delle “religioni”. È ruolo dell’arte umana, e per noi cristiana, del dialogo di gestire questa contemporaneità dinamica delle religioni in un modo che faciliti la pace, la prosperità e la crescita complessiva della dignità umana. Ed è all’interno di questa contemporaneità del pluralismo cultural-religioso che siamo chiamati a vivere l’essenziale della nostra fede cristiana.
Riguardo al mondo musulmano, considerato nel suo complesso in quanto Umma e nella diversità dei gruppi e popoli che lo costituiscono, la Chiesa ha un ruolo. Tale ruolo è molteplice ma è unico nel suo fondamento teologico: il desiderio di Gesù, una volta innalzato, d’attrarre tutti a sè.
L’esistenza d’una Chiesa Giudeo-Cristiana non significa affatto la mescolatura di elementi giudaici e di elementi cristiani, ma invece la sintesi tra cultura religiosa e comunità di destino “giudaica” e Buona Novella cristiana trasfigurante e purificante.
Il Padre Ricci ed i gesuiti dei Riti Cinesi volevano cooperare con lo Spirito di Dio alla venuta d’una vera Chiesa Cinese, d’una Chiesa Cino-Cristiana che si costruisse sull’opera precedente, preparatoria e prefigurante dello Spirito eterno del Verbo di Dio nel più profondo dell’esperienza cinese dell’Assoluto e della sua saggezza.
Il padre Nobili ed i gesuiti dell’India operarono, ed ancora oggi operano, nella speranza di collaborare con lo Spirito alla nascita d’una Chiesa davvero Indo-Cristiana, dove gandianamente “India” significa qualcosa di molto più profondo, sacro e religioso che una nazione moderna tra le altre.
Tutta la moderna teologia dell’inculturazione riguarda il rinnovarsi della grande visione apostolica d’una Chiesa davvero “una” nel sano pluralismo cultural-religioso connesso ai diversi contesti, alle diverse “nazioni”, alle diverse “comunità di destino” (comprese le “religioni”), alle quali lo Spirito di Cristo sempre ci invia.
Siamo profondamente consci della particolare difficoltà dovuta all’autocoscienza “postcristiana” dell’Islam che nega esplicitamente incarnazione, croce e divinità di Gesù Cristo. Occorre però riconoscere che anche il Buddismo contemporaneo o l’Induismo o il Giudaesimo, pur essendo storicamente precristiani, sono oggi coscientemente postcristiani nell’aver esplicitamente, ed a volte polemicamente, mancato di raccogliere l’annuncio evangelico. La cultura moderna atea, positivista, nichilista ecc. è il più delle volte postreligiosa e postcristiana. La galassia New Age è esplicitamente e spesso pungentemente postcristiana... Eppure la Chiesa è spinta dallo Spirito a raccogliere amorevolmente e coraggiosamente le sfide, in definitiva produttive per coloro che amano Iddio, costituite da dei postcristianesimi che in diversi modi rappresentano delle misteriose richieste di crescita e conversione rivolte dal Verbo di Dio alla sua Sposa.
La Chiesa è sempre inviata a Nazaret perché si ripeta il mistero dell’incarnazione a favore di tutti in un’attitudine di benevolente intelligenza, accoglienza ed assunzione, seppure attraverso la croce purificante, della cultura, anche religiosa, dei contesti in cui è inviata (e la Chiesa è sempre inviata come testimone del Risorto, è sempre apostolica, anche quando è autoctona da millenni!).
e d’essere così profondamente giudeo da essere davvero l’atteso Messia figlio di Davide, così la Chiesa, nel sempre rinnovato sforzo d’inculturazione della fede, esprime un’attitudine d’amore universale sempre capace di particolarità, specificità ed elezione che hanno fondamento e modello nel cuore di Dio mostratoci in Cristo e nei suoi desideri e metodi dei quali partecipiamo per grazia dello Spirito.
Dunque la Chiesa di Gesù inviata al Mondo Musulmano, all’Umma di Muhammad, sarà, a causa dell’amore di Gesù, sempre capace di meravigliosa e salutare particolarità, una Chiesa Islamo-Cristiana.
Questo è facilitato nel nostro caso dal fatto che, in quanto comunità monastica di Rito Siriaco in Siria, abbiamo con l’Islam tanto in comune. La zona in cui ci troviamo è al confine del grande deserto d’Arabia che, come un mare costellato d’isole, le oasi, si prolunga fino in Yemen. La cultura antica, precristiana e preislamica è sostanzialmente comune anche se nelle due lingue semitiche siriaca ed araba. Il fondo nomade antico e comune di tale cultura è ben descritto nel libro della Genesi ed in particolare nei capitoli dedicati ad Abramo.
Il grande Patriarca è effettivamente sentito come l’antenato morale degli arabi e di tutti gli abitanti della regione.
La Chiesa Siriaca Antiochena si sviluppò presto, nonostante le difficoltà ambientali, tra le tribù arabe limitrofe del deserto e si spinse fino in Arabia ed in Yemen. Un certo modo di leggere e “prolungare” le Sacre Scritture attraverso commenti narrativi orali e la redazione di apocrifi, è tipico del genio semitico di queste regioni.
L’Islam nasce dall’esperienza originalissima del suo Profeta in un contesto cultural religioso complesso (presenza maggioritaria della cultura religiosa precristiana normalmente ed impropriamente definita “pagana”, insieme a presenze minoritarie spesso settarie giudaiche e cristiane con rimanenze propriamente giudaico-cristiane). La vita monastica cristiana, di cui il nostro monastero è esempio e testimone, era presente, apprezzata e valorizzata dall’Islam nascente. La lingua araba che non era estranea a questa regione in epoca preislamica, diventa lingua culturale ed anche spesso liturgica della Chiesa di questa zona e della comunità di questo monastero. Non è sorprendente, ma è commovente ed istruttivo, notare che nella chiesa del monastero abbiamo nell’undicesimo secolo una netta maggioranza di iscrizioni arabe cristiane profondamente “inculturate” nel contesto musulmano (incipit tipicamente coranico, “nel nome di Dio clemente e misericordioso”, vocabolario tipico e data dell’egira).
Le popolazioni cristiane arabe o arabizzate di questa regione costituiscono una comunità di destino unica con la maggioranza arabo-musulmana, tanto da essere coscientemente una sola ed unica realtà nazionale. Le Chiese locali sanno di costituire con l’Islam arabo una sola dinamica e pluralista realtà storico-culturale.
Spesso un acuto sentimento d’essere qui come testimoni di Cristo per i musulmani, molto di più che di fronte ai musulmani, è espresso dai cristiani locali, e più con la vita e l’esempio che con le parole. Cosippure è netta la coscienza di costituire assieme una sola società chiamata a valorizzare i doni ed i tesori di entrambe le comunità religiose.
Certo profonda sofferenza e difficoltà è causata ai cristiani arabi, una generazione dopo l’altra, dall’ ipercoscienza musulmana d’una netta superiorità teologica dell’Islam sul Cristianesimo e di fronte alla quale sta una profonda nostalgia di parte cristiana per un mondo anche politicamente cristiano che riconosca il mistero di Gesù come centrale e finale di tutto il vivere civile.
A volte i cristiani di qui, separati anche fisicamente dalle cristianità occidentali, si sono come chiusi a riccio in un’attitudine autoprotettiva e gelosa delle loro venerande particolarità.
La Comunità monastica di Deir Mar Musa si trova oggi al crocevia di diverse linee di provvidenziale inculturazione. Questo monastero vuole essere al servizio della crescita spirituale della multiforme cristianità orientale, a partire dal suo essere radicato anche archeologicamente nella tradizione siriaco-antiochena nel suo secolare intimo rapporto con la lingua e la cultura araba.
La Comunità monastica è dedita all’accoglienza di pellegrini e turisti in maggioranza giovani che si trovano in una ricerca culturale e spirituale caratterizzata da orizzonti vasti e difficili. Laboratorio di globalizzazione culturale, il Monastero vuole essere un luogo di incontro con Gesù di Nazaret, maestro e salvatore, per un mondo che rischia la deriva nichilista e relativista.
Questa vocazione monastica è caratterizzata da un particolare appello dello Spirito del Signore ad essere seme e fermento d’una Chiesa Islamo-Cristiana nella coscienza che l’Islam non è fenomeno temporaneo né effimero. L’Islam è bensì grande e provvidenziale comunità abramitica e monoteista, nella quale anche il rifiuto coranico del mistero cristologico ha una funzione da interpretare in vista del Regno, e ciò in modo analogo e storicamente collegato al rifiuto d’Israele che l’Apostolo Paolo nella Lettera ai Romani ha interpretato in senso escatologico e salvifico.
Non è qui possibile tentare di esaurire un tema che ha bisogno d’essere sviluppato in modo collegiale dalla riflessione ecclesiale. Non pretendiamo d’avere un’interpretazione teologica cristiana definitiva e complessiva del mistero d’Ismaele, dell’Islam e della profezia muhammadica. Si tratta d’un discernimento dove la vita precede spesso la teoria e dove l’attenzione all’azione dello Spirito di Dio presso l’altro precede ed intercetta le proiezioni preconcette. Si tratta piuttosto di facilitare, innanzitutto nella preghiera e nella pratica dell’ospitalità, un discernimento che sarà davvero cristiano e spirituale solo se profondamente ecclesiale.
La nostra chiesa a Deir Mar Musa sembra una moschea?
Forse si potrebbe dire che le moschee assomigliano alle antiche chiese dell’Oriente. È evidente che l’aver disteso i tappeti sul pavimento ed aver chiesto a tutti di scalzarsi entrando crea un’atmosfera sacra riconoscibile e partecipabile da parte dei nostri beneamati ospiti musulmani. Per i visitatori cristiani è una ripresa di contatto con un’antica tradizione cristiana locale ed allo stesso modo l’occasione di riflettere sul dovere d’un apostolato “inculturato” per un Cristianesimo del dialogo e dell’amicizia più che del confronto e dell’affronto, il quale qui, nella nostra regione, condurrebbe, si dica per inciso, direttamente all’emigrazione permanente ed all’estinzione della comunità cristiana locale.
La nostra lingua liturgica è quella del Corano, è l’Arabo sacralizzato dalla rivelazione dell’Islam ed utilizzato come lingua sacra e liturgica in tutto l’Islam ovunque nel mondo anche ben oltre il mondo cultural-geografico arabo. In questo senso, per analogia, si può parlare d’una “cattolicità musulmana”, cioè d’un’universalità, religiosa e proiettata escatologicamente, basata su un’esperienza di rivelazione nella storia. Proprio in quanto cattolici, e cattolici orientali, siamo in grado di apprezzare l’universalismo islamico nell’ansia ed esigenza d’unire l’umanità in un’unica adorazione all’unico Iddio. Scoprire che la tensione “cattolica” non è nostro monopolio ma che è come iscritta anche in altre tradizioni cultural-religiose, e qui direttamente innestata sulla simbologia biblica, non ci rende gelasi ma, al contrario, fedeli testimoni di quel fondamento cristologico ed apostolico della nostra cattolicità che speriamo costituisca il seme dell’unione finale in Dio di tutto l’umano e di tutto il creato.
La lingua araba è da secoli lingua liturgica della Chiesa di questo Oriente Antiocheno accanto alla lingua greca ed a quella siriaca. L’amore trasformante di Gesù per il Mondo, in tutta la sua plurale ricchezza e multiforme povertà, sarà anche amore particolare per il Mondo Musulmano, gli uomini e le donne dell’Islam nel loro formare una Umma, una nazione cosciente d’essere erede delle benedizioni d’Ismaele e di Agar per i quali intercedette il santo Patriarca Abramo. A questo amore di Gesù ci siamo voluti particolarmente votare, in Arabo, dopo aver notato che è questa l’ultima delle lingue citate nella lista di quelle nelle quali, nel giorno di Pentecoste, miracolosamente, s’udì l’annuncio degli Apostoli. In Arabo proclamiamo Gesù Signore e Salvatore d’ogni persona umana anche nel suo appartenere ad una provvidenziale e particolare comunità cultural-religiosa. Per intercessione di Maria, in Arabo, speriamo un giorno d’unirci, al cospetto del Cristo giudice misericordioso e re di pace, al coro degli Angeli e dei Santi insieme ai salvati dell’Umma di Muhammad.
È ora il momento di toccare brevemente la questione della preghiera in comune.
Nell’articolo della rivista Jesus si accenna a tre livelli. Il primo è quello dell’intercessione in comune e dello dhikr. Si tratta del vasto ambito della preghiera non propriamente liturgica,dello spontaneo rivolgere a Dio le nostre invocazioni, implorazioni e lodi. Potrà svolgersi prima o dopo un pasto in comune. Potrà farsi durante una conferenza od essere la conclusione d’un incontro. Il luogo sarà vario come varie sono le occasioni. Se è in chiesa che ci si è riuniti, potrà essere in chiesa, ma sempre evitando il rischio di scandalizzare i più semplici.
Il secondo livello è quello della reciproca e pubblica presenza alla preghiera liturgica cristiana o musulmana.
A Deir Mar Musa siamo molto chiari nell’indicare ai nostri ospiti musulmani che non è il caso che comunichino alle specie eucaristiche quando, ospiti peraltro graditissimi, assistono alla Santa Messa. Sottolineiamo infatti che il comunicare al Corpo ed al Sangue di Cristo significa e manifesta una fede piena nella Sua divinità, incarnazione, croce e resurrezione e che così facendo sarebbero islamicamente ritenuti apostati.
Cosippure a volte noi cristiani assistiamo con devoto rispetto alla preghiera musulmana ma evitando una partecipazione che, da parte musulmana, sarebbe facilmente intesa come un nostro abbandono della fede cristiana.
(La questione delicata sarebbe quella del caso d’un’autentica e matura fede cristiana in una persona che, nata musulmana, non si sentisse spinta dallo Spirito ad uscire dalla Comunità musulmana, ma al contrario desiderasse restarvi in umile, discreta ed il più volte tacita testimonianza dell’amore di Cristo. Tuttavia, per motivi di trasparenza sociale e di coerenza, noi permettiamo una pratica esterna e pubblica dei Sacramenti solo a coloro che professano esplicitamente e pubblicamente la loro fede cristiana.)
È importante, per noi discepoli di Gesù inseriti con realistica umiltà in un determinato complesso socio-religioso, di tener sempre presente che la Chiesa, nel suo mistero, trascende la forma storica concreta e delimitata della sua contingente presenza storica ma, al contempo, non esiste disincarnata ed astratta fuori d’ogni contesto.
Non pretendiamo dunque né d’essere la “Chiesa primitiva” né quella dei “Santi dell’Ultimo Giorno”. Siamo Chiesa e comunità monastica nell’oggi, locale ed universale assieme, incamminati nel grande pellegrinaggio con Pietro e gli Apostoli.
Nel nostro essere Chiesa Islamo –Cristiana desideriamo che la nostra preghiera sia un umile implorazione a Dio perché mandi il suo Spirito attraverso il suo Cristo ad incamminare questo nostro Mondo Musulmano verso il suo Regno.
A volte, spesso fuori d’ogni tempo liturgico, ma sappiamo che è sempre in virtù del santo ed eterno Sacrificio Eucaristico, lo Spirito viene e parla, tocca i cuori ed inumidisce gli occhi, costruisce ineffabili istanti di comunione realizzando in modo indicibile le reciproche speranze e facendo intravvedere un comune salvifico orizzonte. È questo il terzo livello della preghiera in comune. Esso non è codificabile ma si può chiedere e preparare nella pratica dell’ospitalità di Abramo e per l’intercessione di Maria di Nazaret, dei Profeti e dei Santi.
In conclusione non credo che sia errato parlare d’un “monastero islamo-cristiano” a patto che sia ben chiaro che è nel senso teologico d’un monastero della Chiesa Islamo-Cristiana e non nel senso d’un’eventuale comunità monastica dove vi sarebbero stabilmente insieme musulmani e cristiani. Effettivamente è già accaduto per il passato che qualcuno ci abbia frainteso ma non mi sembra che sia il caso dell’articolo di Jesus il quale, complessivamente, riflette bene la nostra vita ed il nostro ideale.
Certo c’è qui l’occasione di un discernimento ulteriore e di una più vasta apertura di dialogo nella Chiesa. Resta intera la nostra volontà d’essere integralmente e fedelmente cristiani cattolici, più che disponibili a partecipare al grande discernimento della Chiesa riguardo alla sua missione d’evangelizzazione e di dialogo nel mondo di oggi, in vista della venuta del Regno di Dio.
MISNA - 26/2/2006
"DEIR MAR MUSA" OVVERO
LA COMUNIONE INTERRELIGIOSA
Quando, nel 1982, in un momento di grandi sofferenze nella regione, Paolo Dall'Oglio, allora giovane gesuita arabizzante giunse alle rovine del monastero di San Mosè l'Abissino, sulla montagna ad Est di Nebek, per un ritiro spirituale di dieci giorni, scoprì tre priorità ed un orizzonte. Su quella base ed attraverso campi di lavoro e di preghiera, si mosse l'attività di restauro, e ciò fin dal 1984 (anno di ordinazione sacerdotale nel Rito Siriaco di padre Paolo). Mentre la rifondazione stabile della comunità monastica iniziò a partire dal 1991, assieme al diacono aleppino Jak Murad. La priorità delle priorità è la riscoperta del significato assoluto e non strumentale della vita spirituale, della vita di preghiera. Sotto questo aspetto, l'antico monastero siriano costituiva un testimone forte del valore della vita spirituale nel passato della regione, ma anche del rischio di perdere tale valore. È da sottolinearsi che l'antica vita monastica orientale è elemento essenziale dell'anima cristiana ed anche del mondo culturale, simbolico e mistico dell'Islam. La comunità di Deir Mar Musa è quindi prima di tutto una comunità di silenzio e di preghiera, tanto nella vita personale dei monaci e delle monache che nella loro vita sociale.
La seconda priorità è quella di elaborare una vita di semplicità evangelica in responsabile armonia con il creato e la società circostante, e comportante la riscoperta del significato dell'attività manuale e del valore del corpo e delle cose, in un'estetica della giustizia e della gratuità. La terza priorità è quella dell'ospitalità. Tale ospitalità abramitica, fu un'attività sacra degli antichi monaci, sulla base d'un valore sempre ritenuto divino in questa regione. Il monastero dunque è inteso come luogo d'incontro, nell'approfondimento, non nell'oblio, delle specificità identitarie, tuttavia non in vista della chiusura ghettizzante ma, al contrario, nell'emancipazione da una cultura della separazione, per elaborare invece, gradualmente, una cultura della comunione. Questo implica pure che la comunità cristiana di Deir Mar Musa viva una forte sottolineatura della dimensione ecumenica, cioè di comunione e di unità fra le Chiese, senza perdere nulla della specificità siriaca ed anche siro-cattolica del monastero stesso.
L'orizzonte è quello della relazione islamo-cristiana. Tale relazione, non sempre facile nel passato ed ancora difficile e sofferta in molti luoghi, è parte integrante della vocazione spirituale dei monaci e delle monache di Deir Mar Musa. La scelta della lingua araba, come lingua della vita sociale e liturgica della comunità monastica, non è estranea all'orizzonte qui delineato. In questa prospettiva si è anche elaborato un progetto di approfondimento della collaborazione interculturale e interreligiosa con l'aiuto della Commissione Europea, oltre che della fondazione Giorgio Orseri di Roma, dell'Amitié Orient belga ed altre associazioni. Questo ha portato a sviluppare una relativamente ricca biblioteca specializzata, che potrà servire nel futuro ad operatori e a formatori nel campo del dialogo. La biblioteca non sviluppa solo gli ambiti classici delle scienze religiose, tanto cristiane che musulmane, ma anche le "discipline ponte", impegnate nell'intelligenza del fenomeno religioso, come l'antropologia, la filosofia la psicologia, la sociologia, ecc.
Un'attenzione particolare è rivolta allo studio del pensiero del grande islamologo cristiano Louis Massignon, le cui impegnate riflessioni e l'esempio di vita sono fonte di costante ispirazione per la comunità del monastero. Il programma futuro del monastero prevede l'organizzazione di seminari di studio e scambio d'esperienze nel campo dell'armonia interculturale ed interreligiosa, tanto sul piano locale che su quello internazionale. Tutto ciò ha reso molto presto lo spazio disponibile insufficiente. È stato necessario costruire delle abitazioni, di tipo tradizionale, per i monaci e gli ospiti a nord del monastero; ed è ora in corso di costruzione un'importante edificio destinato soprattutto ad abitazione delle monache ed all'ospitalità femminile, lasciando così l'edificio antico alle attività comuni.
L’orizzonte del monastero si allarga pure attraverso le relazioni con realtà similari, specie in altri paesi a maggioranza musulmana, come ad esempio il Pakistan, e ciò sia attraverso scambi e visite, sia attraverso l’uso di internet, ormai disponibile anche in Siria. La presenza dell’”alterità”, inossidabile e insolubile lungo i secoli, smetterà d’essere motivo d'angosce, tensioni e guerre, ma spingerà invece i credenti a scrutare attentamente il mistero costituito dalla differenza. Vogliamo partecipare ad innescare e sviluppare dei processi atti a creare una cultura condivisa centrata sui valori di pace, profondo rispetto ed interazione interpersonale ed intercomunitaria. Ciò non mancherà di facilitare la diffusione d'importanti conquiste della società civile globale contemporanea, come il significato della dignità della coscienza individuale, la portata enorme dell'emancipazione femminile sul piano antropologico e sociale, l'intangibilità dei diritti fondamentali degli individui e dei gruppi, e la fertilità del pluralismo culturale stesso.