CHI ERA DON TONINO
Il prete di "stola e grembiule"
L’alba di don Tonino Bello è il 18 marzo del 1935 ad Alessano, nel Salento.
Il tramonto è il 20 aprile del 1993 a Molfetta, intorno alle tre del pomeriggio. Solo 58 anni. Troppo pochi a contarli. Densi a raccontarli.
È il primo di tre fratelli. Resterà presto orfano di padre (a 7 anni) e primogenito, con mamma Maria e i fratelli Marcello e Trifone. Una famiglia povera ma dignitosa. Unita e tenuta insieme dalla semplicità di una vita serena ma non rassegnata al destino che, in tempi di guerra, l’ha privata del sostegno economico del padre. Famiglia salentina: nobile nell’animo e le mani sporche di chi per far mangiare i figli, la mattina presto va a raccogliere le verdure nei campi e poi ricama e aiuta in casa di altri. Come faceva mamma Maria.
A dieci anni Tonino entra nel seminario di Ugento. Era intelligente e portato agli studi. Il parroco del paese anche per questo consigliò alla mamma per lui il seminario. A quei tempi i poveri facevano così per far studiare i figli. Dopo gli studi liceali nel seminario regionale di Molfetta, l’8 dicembre del 1950 fu ordinato sacerdote nella chiesa di Alessano.
Continuarono a farlo studiare: nel 1958 fu inviato a Bologna per frequentare i corsi di teologia al seminario di studi sociali dell’Onarmo. Andò nella Bologna del cardinal Lercaro, padre conciliare. La ‘Bologna rossa’ dove l’impegno della Chiesa agiva su due fronti: la spiritualità promossa e ricercata per contrastare ‘i comunisti atei’ e la scelta del confronto con tutti, anche con loro, nel momento in cui la città vedeva crescere nelle sue periferie potenziali aree di sviluppo territoriale ed economico ma anche nuove questioni sociali. La Chiesa che non si chiude in difesa ma con dignità e fermezza segna il suo compito, la sua missione diversa ricercando per il bene del suo popolo il confronto anche con chi non crede. Tra i suoi insegnanti anche mons. Bettazzi.
Sarebbe rimasto volentieri a Bologna, don Tonino, ma una volta laureato la sua diocesi lo rivolle. L’investimento su di lui andava capitalizzato nella terra di origine: doveva essere il direttore del Seminario di Ugento, doveva formare ed educare le giovani vocazioni. Lo mandarono anche al Concilio vaticano II, nel 1963, ad accompagnare il vescovo Ruotolo. Durante la prima sessione del Concilio faceva la spola: Roma e seminario di Ugento dove era maestro dei seminaristi. Nel frattempo, “per non perdere tempo quando stava a Roma” – la raccontava così – si iscrisse all’Università Lateranense. Si laurea discutendo una tesi su “Congressi eucaristici e loro significato teologico e pastorale”. Tesi che capitalizzerà da vescovo.
Fa carriera. È nominato monsignore, all’età di 28 anni. Un titolo. Niente di più. Il curriculum recita: prefetto e poi vicerettore nel seminario vescovile di Ugento, assistente diocesano dell’Azione cattolica, rettore del seminario di Ugento, direttore dell’Ufficio pastorale diocesano, vicario economo nella parrocchia del S. Cuore di Ugento, parroco della chiesa della Natività di Maria Vergine a Tricase.
E fin qui la sua vita nel Salento. Fatta di incarichi e compiti portati a termine nell’obbedienza ai superiori, ma condendo il tutto con i suoi talenti. Gli sfrattati ospitati nel seminario prima ancora di chiedere il permesso al suo vescovo Mincuzzi di poterlo fare; gli incontri culturali, la squadra di pallavolo allenata e fatta arrivare ai campionati nazionali, le nuotate in mare, la Caritas nella parrocchia e il coro seguito di persona, il giornale fatto con i seminaristi e le partite a pallone. Il porta a porta e il faccia a faccia: il rosario e il breviario. Un prete formatosi prima del Concilio e che esercita il suo ministero sacerdotale nell’immediato dopo Concilio. In quel già e non ancora tutto da costruire, sperimentare, osare.
Nel 1982 accetta, dopo aver rifiutato per due volte, la nomina a vescovo. È morta la madre a cui era legato. La perdita, il lutto, il distacco lo vive così: come un segno per liberare le vele. È consacrato vescovo il 30 ottobre. La diocesi è quella di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo. Diventa vescovo restando in Puglia. Dal 21 novembre l’episcopio di Molfetta è la sua nuova casa. Una casa dove, a chi bussa, apre il vescovo in persona. E bussano in tanti. Gli sfrattati, ai quali mette a disposizione le stanze; i poveri, i giovani, i preti. I credenti e gli atei. Una parola e una frisa. Uno stile pastorale diverso. Conciliare. La chiesa che, con la Bibbia in mano, legge la Parola sfogliando anche il giornale. La Chiesa cioè che impasta il vangelo con la vita delle persone. La Chiesa del grembiule e dei paramenti sacri.
Il vescovo che scende dall’Episcopio per andare a trovare la gente: gli operai delle acciaierie di Giovinazzo, gli immigrati nelle campagne di Ruvo per portarli nei locali della parrocchia; i tossicodipendenti nella comunità che, facendo debiti e sperando nella provvidenza che arriva ma solo ai calci di rigore, ha voluto come impegno e promessa alle famiglie che gli avevano chiesto aiuto.
Scende per andare a trovare i giovani: ogni martedì e mercoledì. Appuntamento fisso nelle quattro città della diocesi. Scende per andare dai preti anziani o ammalati a far loro di persona gli auguri di compleanno o onomastico. E invita a bussare alla sua porta il marocchino. La lettera al fratello marocchino è un documento inteso di dialogo tra culture.
Nel novembre del 1985 è eletto presidente nazionale di Pax Christi, succedendo a monsignor Luigi Bettazzi. Il discepolo diventa maestro. Un impegno che lo apre a scenari e sfide che, al suo solito modo, rilancia e rinnova. A partire dalla Puglia. A chi la voleva arco di guerra, la prospetta come arca di pace portando l’intero episcopato pugliese alla firma di ben due documenti: la terra è di Dio e degli uomini di buona volontà. Non è a disposizione dei mercanti di guerra. Lo grida forte. Lo gridano forte i vescovi collegialmente. Cade il muro di Berlino. La guerra e la pace si giocano su altri scenari: il Golfo prima. La Bosnia dopo. Nel mezzo gli sbarchi degli albanesi. Siamo negli anni ‘90.
Dal ’91, con la guerra del Golfo, all’aprile del ‘93 le partite che si giocano sugli scenari internazionali e nazionali sono l’anticipo di ciò che ancora oggi è. Il ministro Scotti nell’agosto del ‘92, ebbe ad auspicare “A peste, fame et Bello libera nos, Domine”. Perché negli scenari internazionali che incalzano, lui da vescovo e Presidente di Pax Cristi incalzava a scelte diverse: umane ancor prima che cristiane.
Don Tonino gioca la sua guerra personale con il cancro che non gli concede tempo, prendendosi il tempo per lasciare segni ancora una volta profetici: in 500 a Sarajevo a dicembre del ‘92. Una follia. Un sogno. Un’impresa. Un segno di un modo diverso di agire la pace nei conflitti “moderni”. Sceglie di morire da vescovo nella sua diocesi e trasforma il letto della sua agonia in una cattedra di speranza. Fino alla fine. Chiede di essere sepolto ad Alessano. E lì, respirando la brezza che viene dal mare non molto lontano, in molti gli fanno visita. Ogni anno di più.
Il 27 novembre del 2007, la Congregazione per le cause dei santi dà il suo nulla osta per l’apertura del Processo della Causa di beatificazione e canonizzazione di don Tonino Bello, che entro pochi mesi concluderà la prima fase, quella diocesana a Molfetta.
In oltre 50mila parteciparono ai suoi funerali. Era un pomeriggio di Aprile. Sul porto di Molfetta un tiepido raggio di sole e la brezza del mare illuminavano il Vangelo sfogliandone le pagine. Molti anni dopo la stessa cosa accadde al funerale di Giovanni Paolo II. Forse il sole e il vento fanno così con quelli che riconoscono santi. ==>> [torna alla pagina iniziale]
FAMIGLIA CRISTIANA - 19/04/2013
Don Tonino Bello,
fratello vescovo
Sono passati 20 anni dalla sua scomparsa, ma il ricordo in chi lo ha conosciuto è più vivo e attuale che mai.
Perché il vescovo di Molfetta è stato un pastore attento a tutto e a tutti.
Un sabato qualunque, due del pomeriggio. Il cimitero di Alessano è pressoché deserto. È aprile ma il sole sembra quello di luglio. Una madre col figlioletto sgattaiola veloce a visitare una persona cara. Fa un rapido scarto a destra: si ferma davanti al piccolo anfiteatro circolare e alla lastra di pietra. Una breve preghiera. Un segno di croce, e va. Pochi minuti e un paio di ragazze s’accostano. Fissano a lungo la pietra, il loro sguardo si sofferma su alcune brevi frasi – alcune fra le più famose delle sue espressioni – incise su rocce poste intorno alla tomba: «Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo»; «In piedi, costruttori di pace»; «Ascoltino gli ultimi e si rallegrino». Un breve momento di silenzio e ritornano. È uno sfilare continuo su quella pietra scarna, adornata soltanto da una piccola croce epoche parole: «Don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta-Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo». Infine, le date: nato ad «Alessano,18 marzo 1935», nel Salento, nel più profondo e povero Sud della Puglia; morto a «Molfetta, 20 aprile 1993», la città dov’è stato vescovo per quasi 13 anni e dove al funerale un oceano di 60 mila persone ha invaso l’intero porto.
Lo stanno facendo santo, don Tonino. La causa di beatificazione, avviata nel 2008 dall’attuale vescovo di Molfetta, monsignor Luigi Martella, si avvia alla conclusione della prima fase, quella diocesana. Poi la monumentale documentazione andrà a Roma, in Vaticano. Per la gente santo lo è già. Tanto a Molfetta quanto ad Alessano, tanto a Ugento, dove fu vicerettore del seminario, quanto a Tricase, dove fu parroco. Sono passati 20 anni, ma ogni luogo parla di lui: gli edifici ecclesiastici ma anche gli uffici pubblici, le piazze e le vie. Una foto oppure una dedicazione, una targa oppure una delle sue frasi celebri. Don Tonino ovunque. Mai monsignor Bello, tanto meno Antonio. Sempre e solo don Tonino, il «fratello vescovo povero con i poveri», quello col pastorale e la croce di legno (di ulivo, però, simbolo della sua terra), quello con l’appartamento episcopale invaso dai senzatetto e dai migranti stranieri, quello che girava per le strade del porto e della vecchia Molfetta sedendosi accanto ai poveri e agli ubriaconi, quello che aveva la porta sempre aperta, anche alla prostituta che gli aveva bussato alle quattro di mattina affamata e fradicia di pioggia. Ma anche quello che parlava di «pace, giustizia e salvaguardia del Creato come Trinità terrestre» e che tuonava contro chi voleva “militarizzare” la sua terra, la Puglia, mettendovi le basi degli F16, negli anni Ottanta.
Da presidente di Pax Christi, nel dicembre 1992, già gravemente malato, sfidò i cecchini di Sarajevo durante la sanguinosa guerra di Bosnia con Beati i costruttori di pace. Insieme a monsignor Bettazzi, a don Albino Bizzotto e al piccolo popolo di pacifisti di ogni provenienza, la "Marcia dei 500" violò l’assedio della capitale bosniaca, ma senza sfidare nessuno: convinsero i soldati a farli passare, consolarono le vittime di entrambe le parti, dispensarono aiuti tanto agli abitanti di Sarajevo che ai serbi. Don Tonino non accetterebbe che si scrivesse che era "alla testa del corteo". Diciamo che stava in mezzo a loro. Santo per tutto questo? Certamente no, c’è molto e molto altro. Sei pagine di un giornale non possono raccontare la capacità profetica e l’odore di santità di don Tonino. Forse, possono darne un assaggio. Il 18 marzo 1993, a meno di un mese dalla morte, don Tonino compiva 58 anni. Era ormai costretto a letto, e si era fatto portare nella camera la sua icona preferita di Maria, la stessa che in precedenza teneva nella cappellina del vescovado dove aveva posto la scrivania, quando stava bene: a tarda sera si richiudeva lì a lavorare e a scrivere. La sera di quell’ultimo compleanno il cortile dell’episcopio si era improvvisamente riempito di giovani. Centinaia, con le chitarre, per fargli gli auguri cantandogli Freedom, libertà, e «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta».
C’è un video che testimonia quel momento ,lo si può vedere in Internet: «Avrei voluto farvi salire e abbracciare a uno a uno», disse a quei giovani, «ma non è possibile perché siete tantissimi. Chissà», aggiunse, «se il Signore mi darà la forza e la salute di mettermi non avanti a voi, come capofila, e neppure dietro di voi, ma in mezzo a voi. Non abbiate mai paura di essere carichi di utopie, di idealità purissime, soprattutto quelle che si rifanno ai grandi temi della pace, della giustizia, della solidarietà». Quasi un testamento spirituale. «L’augurio che mi fate ritorni su di voi,per la vostra vita, i vostri sogni, il vostro futuro.Vi voglio bene», aveva semplicemente concluso. Parole e gesti che ricordano così da vicino lo stile di papa Francesco. Che ne è stato di quelle centinaia di giovani? Quale segno portano dentro di sé di don Tonino? Tra Molfetta e Alessano ne abbiamo incontrati tanti.
«Tutto quello che sono lo devo a lui», ci siamo sentiti ripetere in continuazione. Dai "ragazzi di don Tonino" è nata la Fondazione don Tonino Bello, presieduta da Giancarlo Piccinni; l’editrice La Meridiana, guidata da Elvira Zaccagnino; uno di quei giovani, Guglielmo Minervini, è stato sindaco di Molfetta e oggi è assessore regionale in Puglia; Maria Mazzone, presidente della cooperativa sociale Adelphia gli dedica ancora oggi «la testimonianza delle nostre fatiche e dei nostri errori» nell’assistere con 180 operatori le comunità di disabili gravi, malati mentali e giovani in condizione di disagio sociale; Mimmo Pisani,vicedirettore della Caritas di Molfetta e responsabile della Casa d’accoglienza Don Tonino Bello, gli chiede aiuto «quando non ce la faccio più», racconta. «D’altra parte, poco prima di morire mi disse: "Ti raccomando il centro di solidarietà e i poveri". Se un vescovo ti dice una cosa del genere, beh, gli dedichi la vita».
«L’eredità di don Tonino è pesante», sottolinea monsignor Luigi Martella, attuale vescovo di Molfetta. «Portarla mi è meno difficile perché l’ho conosciuto, e l’ho vissuto come un fratello maggiore, un punto di riferimento. Se il Signore mi ha voluto qui, dove lui prima di me è stato pastore, mi aiuterà anche a esserne degno».
Don Gigi Ciardo, parroco da 36 anni di Alessano, sottolinea che, insieme ai genitori, don Tonino è la persona più importante della sua vita: «Sono entrato in seminario quando era vicerettore», spiega. «Con lui ho imparato a leggere, mi ha formato come uomo e come prete, mi ha persino insegnato a nuotare. Portava noi seminaristi davanti a un albero e ci incantava parlando della bellezza del Creato. Oppure si usciva la sera in barca, suonava la fisarmonica e ci invitava a contemplare la luna che declinava sul mare. Quello che aveva di speciale è che ti faceva sentire unico e importante: quando aveva davanti una persona non esisteva nient’altro».
Don Gigi ricorda che quando stava per trasferirsi a Molfetta come vescovo, la sera prima andò a trovarlo. Si commosse e disse: «Presto vi dimenticherete di me». «Così gli ho telefonato tutti i giorni, per un anno intero», conclude don Gigi. «Da lui abbiamo imparato che il credente è l’uomo dalle mani aperte, perché non trattiene mai nulla e nessuno; è l’uomo dalle mani protese, perché fa sempre il primo passo; è l’uomo dalle mani giunte, nella preghiera. Ci ha insegnato l’accoglienza: davanti a una persona non si discute, la si accoglie».
«Quello che lo ha reso famoso da vescovo, noi lo avevamo già vissuto quand’era tra noi», aggiunge Giancarlo Piccinni. Viene eletto pastore di Molfetta nel 1982, dopo aver rinunciato due volte. Tre anni dopo diventerà presidente nazionale di Pax Christi, e saranno gli anni in cui si parlerà molto di lui in tutta Italia, per l’impegno infaticabile a favore della pace, ma anche per le posizioni "senza se e senza ma" che assume. L’episcopio di Molfetta diviene la sua nuova casa. Una casa dove, a chi bussa, apre il vescovo in persona. E bussano in tanti. Uno stile pastorale diverso, pioniere nel tentare di mettere in pratica quel concilio Vaticano II a cui aveva partecipato, come assistente di monsignor Ruotolo e che immediatamente aveva cercato di divulgare con corsi e lezioni in diocesi.
Interpreta uno stile di Chiesa che, con la Bibbia in mano, legge la Parola di Dio sfogliando anche il giornale. «È la Chiesa "della stola e del grembiule", secondo una felice espressione di don Tonino», spiega don Mimmo Amato, vicario generale di Molfetta e vice-postulatore della causa di beatificazione. «Diceva che sono l’unico paravento della Chiesa, il diritto e il rovescio dello stesso unico vestito».
Gli immigrati sono già "un problema", per tanta gente. E don Tonino allora invita lo straniero a bussare alla sua porta. «Perdonaci», scrisse nella Lettera al fratello marocchino, «se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori. Ci manca ancora l’audacia di gridare che le norme vigenti in Italia, a proposito di clandestini come te, hanno sapore poliziesco, non tutelano i più elementari diritti umani, e sono indegne di un popolo libero come il nostro. Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l’ospitalità della soglia».
«Sarebbe sbagliato dare dei suoi gesti e delle sue parole un’interpretazione ideologica», conclude monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento. «La chiave di tutto il suo operato è mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo, cioè senza aggiunte o menomazioni. Ma anche senza confini e senza misura». ==>> [torna alla pagina iniziale]
20 APRILE 2018
PAPA FRANCESCO, DON TONINO BELLO E LA “CHIESA DEL GREMBIULE”
Omaggio alla Puglia: “Una finestra di speranza” Papa Francesco in Puglia 25 anni dopo la morte di don Tonino Bello: l'omelia del Pontefice a Molfetta dopo la visita ad Alessano, alla tomba del prete.
Papa Francesco ha reso omaggio oggi a don Tonino Bello, il “prete poeta”, nelle sue terre. A 25 anni dalla morte del “vescovo scomodo”, Bergoglio è andato in Puglia, prima ad Alessano, dove il parroco è nato, poi a Molfetta, dove è stato vescovo. Tante le similitudini tra il Santo Padre e don Tonino Bello: entrambi sono per una “Chiesa del grembiule”, citando un libro scritto da quest'ultimo. La Chiesa deve essere pronta a servire i poveri, non deve essere mondana, “ma per il mondo”. La Chiesa deve dunque tornare all'essenziale del Vangelo. Proprio disegnando la figura di don Tonino, il Papa ha tracciato i contorni della sua Chiesa ideale. “Non teorizzava la vicinanza ai poveri, ma a star loro vicino, come ha fatto Gesù. Non lo disturbavano le richieste, lo feriva l'indifferenza. Non temeva la mancanza di denaro, ma si preoccupava per l'incertezza del lavoro”. Un problema attuale, anche in Puglia. Non è mancato un riferimento alla Puglia, “terra meravigliosa di frontiera”. La Puglia è una “finestra aperta” da cui osservare “le povertà che incombono sulla storia”, ma anche “una finestra di speranza” perché “il Mediterraneo, storico bacino di civiltà, non sia mai un arco di guerra teso, ma un'arca di pace accogliente”.
PAPA FRANCESCO: “CHIESA SIA AFFAMATA DI GESÙ”
Sono stati decine di migliaia i fedeli che oggi si sono raccolti a Cala Sant'Andrea in attesa della messa celebrata da Papa Francesco, in Puglia, patria di don Tonino Bello. Il viaggio arriva dopo i precedenti avvenuti nelle terre di don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. L'occasione è il venticinquesimo anno dalla morte di uno dei sacerdoti, scrittori e poeti considerato tra i più apprezzati della letteratura cristiana. Don Tonino predicava la "Chiesa del grembiule", capace di servire i più poveri. Una Chiesa niente affatto "mondana, ma per il mondo", in perfetta sintonia con la visione dello stesso Bergoglio. Quella di don Tonino, come rievocato dallo stesso Francesco, era una Chiesa che torna all'essenziale del Vangelo, "affamata di Gesù e non in attesa di ricevere, ma di prestare pronto soccorso". Nel corso dell'omelia del Papa nel corso della messa a Molfetta, lo stesso Pontefice ha rivelato ai fedeli presenti quale era il sogno più grande di don Tonino, ovvero "una Chiesa affamata di Gesù e intollerante ad ogni mondanità, che sa scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, della sofferenza, della solitudine". Il suo è stato inevitabilmente un messaggio che ha voluto rilanciare ai numerosi presenti ma soprattutto la strada che ha voluto indicare alla stessa Chiesa.
TAPPA AD ALESSANO, ALLA TOMBA DI DON TONINO
Ancor prima di giungere a Molfetta, dove si è tenuta oggi la messa nel ricordo di don Tonino Bello e dei suoi insegnamenti e desideri sulla Chiesa, Papa Francesco oggi ha fatto tappa nel Salento, ad Alessano. E' questa la terra in cui don Tonino ha coltivato i suoi sogni e dove è stato sepolto. Dopo una preghiera al cospetto della tomba, Francesco ha ridisegnato il profilo del prete inattuale, un "profeta" spesso criticato proprio per le sue scelte molte volte non condivise. "Don Tonino ci richiama a non teorizzare la vicinanza ai poveri, ma a stare loro vicino, come ha fatto Gesù, che per noi, da ricco che era, si è fatto povero. Don Tonino sentiva il bisogno di imitarlo, coinvolgendosi in prima persona, fino a spossessarsi di sé", ha ricordato Bergoglio. Non erano le richieste a disturbare don Tonino, semmai l'indifferenza. Non era la mancanza di denaro a preoccuparlo ma la mancanza di lavoro, problema ancora oggi attuale a distanza di 25 anni dalla sua morte. Don Tonino non ha mai smesso di ricordare quanto sia importante per un uomo, il lavoro, per la sua stessa dignità. Ed era sempre don Tonino, ha ricordato oggi Papa Francesco, ad aver seminato sempre la pace e promosso la giustizia, prendendosi cura dei più bisognosi. ==>> [torna alla pagina iniziale]
TESTI DI DON TONINO BELLO
Stola e grembiule
Forse a qualcuno può sembrare un'espressione irriverente, e l'accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.
Si, perchè di solito la stola richiama l'armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d'incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami. Non c'è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla nè di casule, nè di amitti, nè di stole, nè di piviali.
Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l'aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d'oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d'argento!
La cosa più importante, comunque, non è introdurre il "grembiule" nell'armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l'altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile. [...]
Nel nostro linguaggio canonico, ai tempi del seminario, c'era una espressione che oggi, almeno così pare, sta fortunatamente scomparendo: "diritti di stola". E c'erano anche delle sottospecie colorate: "stola bianca" e "stola nera". Ci sarebbe da augurarsi che il vuoto lessicale lasciato da questa frase fosse compensato dall'ingresso di un'altra terminologia nel nostro vocabolario sacerdotale: "doveri di grembiule"! Questi doveri mi pare che possano sintetizzarsi in tre parole chiave: condivisione, profezia, formazione politica.
Speriamo che i seminari formino i futuri presbiteri ai "doveri di grembiule" non solo con la stessa puntigliosità con cui li informavano sui "diritti di stola", ma con la stessa tenacia, col medesimo empito celebrativo e con l'identico rigore scientifico con cui li preparano ai loro compiti liturgici.
Si, perchè di solito la stola richiama l'armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d'incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami. Non c'è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla nè di casule, nè di amitti, nè di stole, nè di piviali.
Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l'aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d'oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d'argento!
La cosa più importante, comunque, non è introdurre il "grembiule" nell'armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l'altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile. [...]
Nel nostro linguaggio canonico, ai tempi del seminario, c'era una espressione che oggi, almeno così pare, sta fortunatamente scomparendo: "diritti di stola". E c'erano anche delle sottospecie colorate: "stola bianca" e "stola nera". Ci sarebbe da augurarsi che il vuoto lessicale lasciato da questa frase fosse compensato dall'ingresso di un'altra terminologia nel nostro vocabolario sacerdotale: "doveri di grembiule"! Questi doveri mi pare che possano sintetizzarsi in tre parole chiave: condivisione, profezia, formazione politica.
Speriamo che i seminari formino i futuri presbiteri ai "doveri di grembiule" non solo con la stessa puntigliosità con cui li informavano sui "diritti di stola", ma con la stessa tenacia, col medesimo empito celebrativo e con l'identico rigore scientifico con cui li preparano ai loro compiti liturgici.
LEGGI: La Chiesa del grembiule: da don Tonino Bello a Papa Francesco (articolo di Luigi Accattoli in IL REGNO 5/2015) ==>> [torna alla pagina iniziale]
I Domenica di Quaresima
LE TENTAZIONI DELLE TRE "P"
di Tonino Bello
Perché mai Gesù, dopo 30 anni di silenzio, invece di presentarsi sulla scena della vita pubblica con un bel miracolo o con una delle sue splendide parabole, si esibisce in questa durissima lotta con le forze del male?
La risposta è semplice: per indicarci il motivo della sua venuta sulla terra. Anzitutto, riprendersi sul demonio la rivincita della partita persa dall'umanità per due a zero (primo tempo con Adamo, secondo tempo col popolo ebreo nel deserto). E poi, darci la chiave tattica per risolvere a nostro favore tutte le partite successive, visto che le tentazioni di Gesù sono gli archetipi, attorno a cui ruota ogni peccato dell'uomo.
Potremmo chiamarle: le tentazioni delle tre "P": profitto, prodigio, potere.Il che significa: strumentalizzare le cose, Dio, l'uomo.
Fa ' che le pietre diventino pane. Ridurre tutto a economia, a ventre. Convertire anche i sogni in assegni circolari. Niente fiori, solodenaro. Niente poesia, solo ricchezza. Niente musica, solo profitto. Anzi, massimizzazione del profitto, se perfino le pietre devono diventare pane. Produzione. Ideologia della produzione. Mascherata, magari, dall'ipocrisia di voler saziare la fame dei popoli.
Ma, oltre alla strumentalizzazione delle cose, c'è anche quella di Dio. Gèttati dall'alto: Lui ti salverà. Ecco la tentazione del prodigio. Il distorcimento della religione a scopi d'interesse. Un Dio utile. Di cui ci si serve. Funzionale ai miei progetti. Che legittimi le mie follie. Come è comodo un Dio che ratifichi il mio disimpegno e mi sostituisca nelle scelte decisive!
Ti darò in mano tutti i regni del mondo. Ecco la tentazione del potere. Crescere salendo sulle spalle dell'altro. Schienare il prossimo perché dipenda da me. Togliergli l'aria, perché deve prenderla dalle mie bombole. Negargli la dignità perché sia io a conferirgliela col contagocce. Costituirmi metro della sua libertà, usurpando un diritto che anche Dio esercita con pudore.
Come reagisce Gesù? Con altre tre "P": Parola, progetto, protesta. Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Tra il pane che entra nella bocca dell'uomo e la Parola che esce dalla bocca di Dio, la seconda è più importante. Perché il pane ti fa camminare. Ma è la Parola che orienta i tuoi passi. Ebbene, la Parola di Dio ci dice che noi dobbiamo mangiare per aiutare il prossimo a trovare il suo pane e, con esso, il gusto di vivere.
"Dall'amore riconosceranno che siete miei: se porterete gli uni i pesi degli altri". Non se porterete sulle spalle i pesi delle mie statue in processione.
Che bella quaresima di carità possiamo impostare, se faremo largo alla Parola di Dio che dice: "spezza il tuo pane con l'affamato. Introduci in casa tua i miseri, senza tetto. Vesti chi è nudo". Il che significa: "Non dormire tranquillo finché nel mondo ogni anno muoiono 50 milioni di persone per fame. Se hai una casa vuota, facci entrare chi è sfrattato. Se no, a che serve l'anno internazionale dei senza tetto? Occupati degli ammalati, di chi è diverso da te, di chi non ha avuto fortuna. Tratta bene gli immigrati terzomondiali.
Non abbuffarti da solo. Fai sedere gli altri al banchetto della vita. Ma con te. Forse la gente ha più bisogno di una tovaglia di convivialità che del pane che ci sta sopra.
Ed ecco la seconda reazione di Gesù, che possiamo articolare attorno alla parola "progetto". Non tentare il Signore Dio tuo. Cioè: non rinunciare a progetti storici precisi, in cui si chieda impegno, fatica, intelligenza. Se ti batti per la pace, non accontentarti di invocarla soltanto, ma disegnane le possibilità concrete di attuazione. Se lotti per il pane dei fratelli, adopera strumenti proposítivi adatti. Se ti impegni nella Caritas parrocchiale, applica intelligenti strategie di intervento che utilizzino anche le tecniche legislative, e non si esauriscano in rugiadose emozioni. Non usare Dio, mai, neppure a scopo di beneficenza. Non pretendere miracoli da Lui, laddove l'unico miracolo da chiedere è che tu esca dal fatalismo in cui rischi di imprigionarti, forse anche in nome della fede.
E, infine, la protesta. Vattene, Satana. Sta scritto: "adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi culto". Se è vero che il deserto nel mondo è pieno di aspiranti al ruolo di Dio, tu smascherali senza paura. Denuncia a viso aperto tutti i despoti che impongono genuflessioni alla povera gente. Opponiti al vitello d'oro della produzione delle armi e del loro commercio clandestino. Contrasta il peccato delle strutture che opprimono i popoli.
E anche tu, Chiesa, guardati dalle insidie nascoste del potere. Persino un progetto grandioso di liberazione umana può essere ambiguo se prodotto da sete di dominio, e i successi ottenuti sul campo possono divenire segni di potere. A te non si addicono i segni del potere. Ma solo il potere dei segni.
Non tocca a te, cioè, col tuo impegno di carità, risolvere il problema della casa, della disoccupazione, della fame nel terzo mondo, o della ingiustizia planetaria. Tocca a te, però, condividendo la sorte degli ultimi e schierandoti con loro, porre segni di inversione di marcia ogni volta che il mondo assolutizza se stesso. Rinuncia pure ai segni del potere. Non convertono nessuno. Ma non rinunciare al potere dei segni. È un potere povero che dà fastidio, perché disturba il manovratore. Ma conduce finalmente ai piedi della Croce, sulla quale Gesù Cristo, nostro indefettibile amore, con i segni del fallimento, ci ha conquistato la libertà. ==>> [torna alla pagina iniziale]
Giustizia, pace e salvaguardia del creato *
Essere spina dell'inappagamento conficcata nel fianco del mondo
Carissimi amici,
radunati in nome delta pace, della giustizia e della salvaguardia del creato, in questa splendida Arena dove si visibilizza per qualche ora il popolo sterminato dei costruttori di pace!
Io vi porgo lo stesso saluto che oggi, giorno del Signore e Signore dei giorni, risuona nelle nostre Chiese, dove, radunato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito, si visibilizza il popolo santo dì Dio.
La pace di Gesù Risorto sia con tutti voi!
Un popolo che sta in piedi
E vorrei tanto che da questo catino, divenuto icona del popolo invisibile dei costruttori di pace, partisse un grande saluto verso quella "moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua", che la pace la costruisce nel silenzio della storia o nell'esilio della geografia. Nei bagni di folla o nella solitudine dei deserti. Nelle foreste dell'Amazzonia o nel vortice disumano delle metropoli. Sul letto di un ospedale o nel nascondimento di un chiostro. Nell'operosità di una scuola materna che si apre ai valori della mondialità o nel travaglio provocato da uno stile di accoglienza nei confronti dei fratelli di colore.
E' un popolo sterminato che sta in piedi. Perché il popolo della pace non è un popolo di rassegnati.
E' un popolo pasquale, che sta in piedi, come quello dell'Apocalisse: "tutti stavano in piedi da-vanti al trono e davanti all'Agnello".
Davanti al "trono" di Dio. Non davanti alle poltrone dei tiranni, o davanti agli idoli di metallo.
E davanti all'"Agnello". Simbolo di tutti gli oppressi dai poteri mondani. Di tutte le vittime della terra.
Di tutti i discriminati dal razzismo.
Di tutti i violentati nei più elementari diritti umani.
A questo popolo invisibile della pace, dall'Arena di Verona, giunga la nostra solidarietà.
Ma anche il nostro incoraggiamento: con le parole delle beatitudini, secondo la traduzione che sostituisce il termine "beati" con l'espressione "in piedi".
"In piedi, costruttori di pace. Sarete chiamati figli di Dio".
1. Dal monoteismo assolutoal monoteismo trinitario di Dio
La prima cosa che desidero dirvi è questa: l'evoluzione del concetto di pace ha subito lo stesso arricchimento che, nella rivelazione cristiana, ha avuto il concetto di Dio.
Nell'economia del Vecchio Testamento, il monoteismo assoluto di Jahweh era il cardine portante di tutta la storia della salvezza.
Poi, "quando venne la pienezza dei tempi", Gesù ci ha rivelato che Dio è pluralità di persone: Padre, Figlio e Spirito.
Esse vivono così profondamente la convivialità delle differenze, esistono cioè così unicamente l'una per l'altra, che formano un solo Dio.
Uno per uno per uno fa sempre uno. Un solo Dio in tre Persone: è la formula con cui noi cristiani esprimiamo il mistero principale della nostra fede.
Si è passati, così, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario di Dio.
Per la pace è avvenuta la stessa cosa.
Siamo giunti alla pienezza dei tempi, ed è balenata alle nostre coscienze la convinzione che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato.
Siamo passati, per così dire, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario della pace.
Tutto questo crea scandalo.
Così come ha creato scandalo Gesù, quando ha proclamato di essere figlio di Dio. Al punto tale, che l'hanno ucciso.
Finché per secoli e secoli nelle nostre chiese abbiamo parlato di pace, nessuno ha contestato.
Quando, sulla scorta della Parola di Dio, si è scoperta la stretta parentela della pace con la giustizia, si sono scatenate le censure dei potenti.
Si è detto che il profeta vuole prevaricare sul re. Così come durante il processo di Pilato, la folla ha accusato Gesù di voler prevaricare su Cesare.
Si è asserito che collegare il discorso sulla pace, e quindi il discorso sulla guerra, con i discorsi sull'economia perversa che domina il mondo, sul profitto, sulla massimizzazione del profitto, sui debiti del Terzo Mondo, sulla crescente divaricazione tra Nord e Sud, sulla violazione pertinace dei diritti umani... significa fare la parte degli utili idioti.
Sicché, la giustizia, collocata da Dio stesso accanto alla pace quale sua partner naturale, continua a destare, purtroppo, più sospetto di quanto non susciti scandalo quando viene collocata, sia pure come aggettivo, accanto alla guerra. Tant'è che si parla ancora di "guerra giusta".
Questa sì che è convivenza contro natura!
…nella pienezza dei tempi
Carissimi amici, anche per quanto riguarda la pace è giunta la pienezza dei tempi.
E come nella pienezza dei tempi Gesù, nostra Pace, ci ha rivelato la Paternità di Dio, nostra Giustizia, e ci ha rivelato anche lo Spirito che è Signore e dà la vita a ogni creatura, così oggi abbiamo il privilegio di capire che l'annuncio della Pace si completa, oltre che con la lotta per la giustizia, anche con l'impegno per la salvaguardia del creato.
Quello della tutela dell'ambiente non è l'ultimo ritrovato della nostra furbizia brontolona o delle nostre strategie del consenso. Non è ammiccamento alle mode correnti. Ma è un compito primordiale che ci sovrasta come partner dello Spirito Santo, affinché la terra passi dal "Càos", cioè dallo sbadiglio di noia e di morte, al "Còsmos", cioè alla situazione di trasparenza e di grazia.
Tra otto giorni celebreremo la festa di Pentecoste e noi ripeteremo l'invocazione "Manda il tuo Spirito, Signore: tutto sarà ricreato, e rinnoverai la faccia della terra".
La faccia della terra.
La crosta della terra.
La pelle di questa nostra terra, deturpata dagli inquinamenti, invecchiata dalle nostre manipolazioni, violentata dalle nostre ingordigie.
Ebbene, questa pelle diventerà fresca come la pelle di un adolescente. E si realizzerà la splendida intuizione dì Isaia che, addirittura invertendone l'ordine, aveva collegato insieme salvaguardia del creato, giustizia e pace: "In noi sarà infuso uno Spirito dall'alto. Allora il deserto diventerà un giardino.. e la giustizia regnerà nel giardino.. e frutto della giustizia sarà la pace". (Is 32,15-17). Il deserto, quindi, diventerà un giardino. Nel giardino crescerà l'albero della giustizia. Frutto di quest'albero sarà la pace!
C'è da chiedersi: è mai possibile che questa visione trinitaria della pace, così saldamente fondata sui plinti della Sacra Scrittura, abbia tanto stentato a diffondersi perfino nelle nostre Chiese?
La risposta è semplice: se solo ora dal monoteismo assoluto della pace siamo passati al monoteismo trinitario, è perché siamo giunti davvero alla pienezza dei tempi.
Il che non significa che ormai il discorso sia acquisito. Tutt'altro.
Come per il discorso trinitario su Dio, nei primi dieci secoli del cristianesimo, si sono sostenute tante lotte, sono scoppiate tante dispute, e sono celebrati tanti Concili; così sarà per il di-scorso trinitario sulla pace.
Nicea... Costantinopoli... Efeso!
Assisi... Basilea... Seoul!
Vogliamo salutare, in questo momento, dall'Arena di Verona, i delegati delle Chiese italiane che dal 16 al 21 maggio saranno a Basilea.
E proprio perché siamo consapevoli dell'importanza che questo avvenimento racchiude, vogliamo salutarli con lo stesso entusiasmo con cui i fedeli delle prime comunità cristiane salutavano i loro vescovi che partivano per i grandi concili ecumenici.
2. Il Dio dei filosofi e il Dio di Gesù Cristo
La seconda cosa che voglio dirvi, strettamente collegata con la prima, è questa: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei profeti, il Dio che in Gesù ha manifestato il suo volto trinitario, non è il Dio di Socrate, di Platone, di Aristotele, delle accademie, dei filosofi insomma.
Il Dio dei filosofi è l'ultima conclusione della nostra attività raziocinante.
E' la soglia suprema messa in cima a tutta l'impalcatura degli umani sillogismi.
E' la casa che svetta sui basamenti della nostra logica organica.
La sua tenuta dipende dalla saldezza di questi basamenti. Se un solo passaggio razionale cede sotto l'urto di un ragionamento opposto, ruzzola anche il Dio che ci sta sopra.
Il Dio dei filosofi, insomma, è un Dio che regge solo se è garantito dalla sicurezza dei nostri argomenti.
E poi non scalda. Non coinvolge. Non ti riempie di passione.
Accettare questo Dio è come sposare una donna di cui hai preso tutte le misure, di cui ti sei fatto consegnare tutti i certificati di garanzia, e contro i cui rischi di abbandono ti sei premunito con mille polizze di assicurazione.
Il Dio di Gesù Cristo è diverso.
Non viene dal basso. Ci è stato rivelato dall'alto. Non è frutto della carne e del sangue della nostra sapienza terrena. E' un Dio garantito solo dalla nudità della nostra fede.
Non è un Dio a cui ci si aggrappa con i funambolismi della mente. Ma un Dio a cui ci si abbandona con la fiducia del cuore, dietro un richiamo che inesorabilmente ti precede.
Attenzione! Non è che si voglia disprezzare la fatica della ricerca umana o che si intenda svilire l'importanza di un Dio trovato dagli sforzi del nostro pensiero. No! Quella della ricerca razionale di Dio è una fatica benedetta, che ogni cristiano deve compiere con tutti gli altri uomini che lo cercano con cuore sincero. Diciamo solo che questo Dio, dopo che l'abbiamo trovato, non ci appaga. Anzi, non ci si può chiamare neppure credenti per il semplice fatto di averlo raggiunto attraverso gli impervi sentieri del pensiero.
Il Dio vero, quello di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, quello rivelatoci da Gesù, è totalmente Altro ed è totalmente Oltre.
E noi credenti, dopo aver condiviso la fatica del pensiero con tutti i ricercatori onesti, dobbiamo essere l'indice puntato verso questo totalmente Altro e totalmente Oltre.
La pace del mondo e la pace di Gesù Cristo
Ed eccoci al momento cruciale di questa seconda riflessione.
Per la pace vale lo stesso discorso che si è fatto per Dio.
C'è una pace dei filosofi. E c'è una pace di Cristo.
La prima è quella prodotta dai nostri sforzi diplomatici, costruita dai dosaggi delle cancellerie, frutto degli equilibri messi in atto dalle potenze terrene. Al punto che, se una sola condizione va in crisi, si rompe il giocattolo e ruzzola tutto intero il castello.
La pace di Cristo, invece, è quella che non esige garanzie, che scavalca le coperture prudenziali, e che resiste anche quando crollano i puntelli del bilanciamento fondato sul calcolo.
Questo è il senso profondo dell'espressione evangelica che proprio oggi è risuonata nella Messa: "vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come ve la dà il mondo, io la do a voi" (Gv 14,27)
Questo è il salto di qualità a cui ci provoca la frase divenuta ormai celebre di D. Bonhoeffer: "Osare la pace per fede".
Ci riempie di commozione un testo che questo grande testimone del Risorto scrisse nel 1934, e che è divenuto un monito per noi: "Una via alla pace che passi per la sicurezza non c'è. La pace infatti deve essere osata. E' un grande rischio, e non si lascia mai e poi mai garantire. La pace è il contrario della garanzia. Esigere garanzie significa diffidare, e questa diffidenza genera di nuovo guerre. Cercare sicurezze significa volersi mettere al riparo. Pace significa affidarsi interamente al comandamento di Dio, non volere alcuna garanzia, ma porre nelle mani di Dio Onnipotente, in un atto di fede e di obbedienza, la storia dei popoli... Chi rivolgerà l'appello alla pace così che il mondo oda, che sia costretto a udire?... Solo la Santa Chiesa di Cristo può parlare in modo che il mondo, digrignando i denti, debba udire la parola della pace, e i popoli si rallegreranno perché questa Chiesa di Cristo toglie, nel nome di Cristo, le armi dalla mano dei suoi figli e vieta loro di fare La guerra e invoca la pace di Cristo sul mondo delirante".
Carissimi amici, come per la ricerca di Dio abbiamo detto che non intendiamo svilire lo sforzo della fatica razionale, anzi la incoraggiamo e la sosteniamo, ma sentiamo anche il dovere di indicare il totalmente Oltre e il totalmente Altro di Dio, sulla base di ciò che Cristo ci ha rivelato di Lui, così per quanto riguarda il mistero della pace, col più grande rispetto per lo sforzo che il mondo laico sta compiendo, e con la gioia più grande nel vederci accomunati come credenti accanto a tanti camminatori di ogni fede, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo specifico, originale, coraggioso!
E il nostro contributo è quello di essere segno dell'inquietudine, richiamo del "non ancora", stimolo dell'ulteriorità. Spina dell'inappagamento, insomma, conficcata nel fianco del mondo.
Per una Chiesa coraggiosa e profetica
Riconosciamolo. Come Chiesa accusiamo ancora pesanti deficit di "parresia". Siamo ancora fermi alla pace dei "filosofi", e non ci decidiamo ad annunciare finalmente la pace dei "profeti".
Dovremmo essere indice puntato verso il totalmente "altro", e verso il totalmente "oltre" gli isolotti raggiunti dalle minuscole asfittiche paci terrene, e invece siamo spesso prigionieri del calcolo, vestali del buon senso, guardiani della prudenza, sacerdoti dell'equilibrio.
E' vero, sì, che i "profeti" debbono tenere conto delle lentezze con cui i "re" elaborano le media-zioni e le fanno camminare nella prassi quotidiana. E' vero anche che devono accettare di vedersi sempre tra le mani eccedenze di annunci che non verranno mai canalizzate in scelte storiche concrete. Ma non tocca ai profeti operare riduzioni in scala. E sarebbe ben triste che a provocare cadute di tensione, per quel che riguarda l'annuncio della pace, dovessero essere proprio loro.
In certe comunità si densifica sistematicamente il sospetto. Si paventano strumentalizzazioni anche nelle scelte più generose a favore degli ultimi.
Ogni occasione è buona per opporre, allo spirito delle intuizioni evangeliche di pace, il rigore della lettera che uccide. Si spiano annidamenti di "discordanze" col magistero ufficiale, a ogni svolta di frase.
Talvolta, per frenare la valanga inarrestabile della profezia, si fa uso maldestro e ingeneroso perfino di estemporanee espressioni del Papa, resecate dal loro contesto e scorniciate dal genere letterario confidenziale e bonario con cui sono state pronunciate. E non si tiene conto, invece, di tutto il magistero audace e non ancora dissepolto di questo Pontefice, che ormai in ogni suo discorso ci sprona ad "affrontare la tremenda sfida dell'ultima decade del secondo millennio", con l'imperativo etico della solidarietà, e va denunciando in tutto il mondo, come nessun altro, le "strutture di peccato" che opprimono i poveri!
Siamo arrivati al punto che, come cristiani, ci troviamo oggi nella necessità di dover recuperare i forti distacchi in tema di pace, che una moltitudine di non credenti ha inflitto a noi, titolari delle inesauribili riserve utopiche del Vangelo!
La paura dell'olocausto nucleare ha fatto fare a loro più strada di quanta non ne abbiano fatta fare a noi la fede, la speranza, e l'amore.
3. Ceri pasquali e non lucignoli fumiganti
In piedi, allora, costruttori di pace.
Non abbiate paura! Non lasciatevi sgomentare dalle dissertazioni che squalificano come fondamentalismo l'anelito di voler cogliere nel "qui" e nell'"oggi" della Storia i primi frutti del Regno.
Sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nei Sud del mondo, e distruzione dell'ambiente naturale.
Fin dai tempi dell'Esodo, non sono più estranee alla Parola del Signore le “fatiche di liberazione degli oppressi” dal giogo dei moderni faraoni.
Coraggio! Non dobbiamo tacere, braccati dal timore che venga chiamata "orizzontalismo" la nostra ribellione contro le iniquità che schiacciano i poveri. Gesù Cristo, che scruta i cuori e che non ci stanchiamo di implorare, sa che il nostro amore per gli ultimi coincide con l'amore per lui.
Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire, che la politica dei blocchi è iniqua, che la remissione dei debiti del Terzo Mondo è appena un acconto sulla restituzione del nostro debito ai due terzi del mondo, che la logica del disarmo unilaterale non è poi così disomogenea con quella del vangelo, che la nonviolenza attiva è criterio di prassi cristiana, che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena… se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali.
Ce lo auguriamo con le parole di Bonhoeffer a Basilea, "vogliamo parlare a questo mondo, e dir-gli non una mezza parola, ma una parola intera. Dobbiamo pregare perché questa parola ci sia data". E noi pregheremo.
Anzi, è proprio dall'Arena di Verona, in questo splendido vespro di primavera, che vogliamo cominciare il grande settenario, in preparazione alla Pentecoste che celebreremo domenica.
E invocheremo lo Spirito Santo. Non solo perché rinnovi il volto della terra. Ma anche perché faccia un rogo di tutte le nostre paure.* Il Discorso è stato pronunciato all'Arena di Verona, il 30 aprile 1989, nel raduno organizzato da "Beati i costruttori di pace". ==>> [torna alla pagina iniziale]
La pace, una scommessa per l'uomo d'oggi *
Sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita:
bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari.
Parole multiuso
Un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l'onnipotenza di Dio, l'unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario.
Sì, perché oggi le parole sono diventate così "multiuso", che non puoi più giurare a occhi bendati sull'idea che esse sottendono. Anzi, è tutt'altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo. Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà.
A dire il vero, per quel che riguarda la pace, pare che questa "sindrome dei significati stravolti" fosse presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce del genere: "essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra".
Su quale pace scommettere?
Con questo non si vuol dire che il termine "pace" indichi inequivocabilmente una realtà così precisa e dai contorni così ben definiti, da escludere nettamente zone di valori limitrofi.
E' difficile tracciare la linea di demarcazione che distingue l'area della pace da quella propria della libertà, o della giustizia, o della comunione, o del perdono, o dell'accoglienza, o della verità. Ed è fatica improba disegnare sulle mappe lessicali gli spartiacque di questi valori. Sicché, se le immagini possono aiutarci a capire, dovremmo dire che la pace più che una stella è una galassia, più che un'isola è un arcipelago, più che una spiga è un covone.
A fare difficoltà, però, non è lo sfumare della pace propriamente detta nelle fasce degli altri concetti viciniori con i quali, per così dire, essa ha rapporti stretti di consanguineità.
Ciò che crea problemi, invece, è quella terribile operazione di contrabbando secondo cui si espongono nella medesima vetrina, magari con la medesima etichetta, prodotti completamente diversi. Diciamocelo francamente: la pace la vogliono tutti, anche i criminali; e nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra. Ma la pace di una lobby di sfruttatori è la stessa perseguita dalle turbe degli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con quella dei salariati sotto costo? La pace voluta dai dittatori si identifica con quella sognata dai perseguitati politici? E sul vocabolario del regime di Pretoria, la definizione di pace suona allo stesso modo che sul vocabolario delle vittime dell'apartheid ?
Come si vede, è necessario evitare il rischio di pericolose contraffazioni.
Pertanto, si rende indispensabile, almeno per noi credenti, fissare dei criteri sulla cui base selezionare il genere di pace, per il quale valga la spesa di impegnarsi in una scommessa.
Non scommettere sulla pace che non venga dall'alto: è inquinata.
Dire che la pace è un dono di Dio sta diventando purtroppo uno slogan pronunciato da noi cristiani senza molta convinzione e usato come formula di maniera. Tutto sommato, all'atto pratico facciamo affidamento più sulle mediazioni diplomatiche che sull'implorazione, più sulla bravura delle cancellerie della terra che sulla forza impetrativa della preghiera, più sull'abilità dei politici che sulla tenacia dei contemplativi. Preghiamo, questo sì, per la pace. Ma di essa abbiamo una concezione maledettamente tolemaica: il cielo sembra che le ruoti attorno solo per fecondarne lo sviluppo e per incoraggiarne la crescita.
Ebbene, considerare la pace come acqua ricavata dai nostri pozzi è un tragico errore di prospettiva di cui, prima o poi, pagheremo le spese col prosciugamento o con l'inquinamento delle falde freatiche.
Quando la riflessione delle nostre comunità riuscirà a scoprire che i pozzi della pace sono le stimmate del Risorto?
Non scommettere sulla pace non connotata da scelte storiche concrete: è un bluff.
Se, per un verso, non è infrequente l'equivoco su descritto, che potremmo designare come l'eresia del "pelagianesimo della pace", per un altro verso non è raro il rischio opposto che è quello del disimpegno, coperto oltretutto dall'alibi comodo che la pace è una realtà "oriens ex alto", proveniente dal Cielo.
Occorre scongiurare questa specie di fatalismo che fa ritenere inutili, se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti profetici. E' vero, la pace è un'acqua che scende dal cielo: ma siamo noi che dobbiamo canalizzarla affinché, attraverso le condutture appropriate della nostra genialità, giunga a ristorare tutta la terra.
Ecco perché è un "bluff" limitarsi a chiedere la pace in chiesa, e poi non muovere un dito per denunciare la corsa alle armi, il loro commercio clandestino, e la follia degli scudi spaziali. Per impedire la crescente militarizzazione del territorio. Per smascherare la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private. Per indicare nelle leggi dominanti di mercato i focolai della violenza. Per accelerare l'accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine economico internazionale. Per tracciare i percorsi concreti di una educazione autentica alla pace. Per esporsi, magari anche con i segni paradossali ma eloquenti dell'obiezione di coscienza, in tutte le sue forme, sui crinali della contraddizione.
Non scommettere sulla pace che prenda le distanze dalla giustizia: è peggio della guerra.
La Bibbia allude spesso ad abbracciamenti tra pace e giustizia simili a quelli tra madre e figlia, o tra due amanti comunque. Frutto della giustizia è la pace, dice Isaia in uno splendido passo. E il salmo 85 parla così apertamente di baci tra i due partners, che non mancano coloro a cui verrebbe il sospetto che questi rapporti abbiano del torbido, e calpestino il cosiddetto elementare senso del pudore.
In effetti, è un'accoppiata che fa scandalo. Tant'è che molti agenti della "buon costume" preferirebbero che le due imputate se ne tornassero ciascuna a casa sua e rientrassero, per così dire, a vita privata.
Parlando fuori parabola, non è difficile capire come ai ben pensanti che quasi sempre coincidono con i garantiti di turno, dà fastidio questa scoperta biblica, recente tutto sommato, del legame esistente tra pace e giustizia.
Pace, sì. Ma che c'entrano i 50 milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame? Sulla pace non si discute. Ma che cosa hanno da spartire con essa i discorsi sulla massimizzazione del profitto? La pace, va bene. Ma non sa di demagogia chiamare in causa, ad ogni giro di boa, le divaricazioni esistenti tra Nord e Sud della terra? Pace, d'accordo. Ma è proprio il caso di tirare in ballo la ripartizione dei beni, o i debiti del terzo mondo, o le manipolazioni delle culture locali, o lo scempio della dignità dei poveri?
Attenzione! E' in atto una campagna "soft" che spinge pace e giustizia alla "separazione legale", con espedienti che si vestono di ragioni morali, ma camuffano il più bieco dei sacrilegi.
Non scommettere sulla pace che si proclami estranea al problema della salvaguardia del creato: è amputata.
Qualcuno potrebbe pensare che il bisogno di allargare i consensi, con l'ammiccamento ai temi di moda, abbia provocato l'inclusione del problema ambientale nell'area degli interessi di coloro che si battono per la pace.
Non è così. Alla radice di questa coscienza, che potremmo chiamare "trinitaria", visto che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato, c'è la constatazione che, a produrre tanti guasti inesorabili della natura, è sempre il seme del profitto. Lo stesso che genera le guerre.
L'utero che partorisce la guerra è sempre gravido, diceva Brecht.
E i suoi parti sono trigemini, dal momento che, oltre alla guerra e all'ingiustizia, si porta dentro anche il mostro ecologico.
Isaia le aveva intuite prima di noi queste articolazioni, quando annunciava la discesa dello Spirito che avrebbe trasformato il deserto in giardino, all'interno del quale sarebbe fiorito l'albero della giustizia, sui cui rami sarebbe spuntato il frutto della pace. "In noi sarà infuso uno Spirito dall'alto. Allora il deserto diventerà un giardino...e la giustizia regnerà nel giardino...e frutto della giustizia sarà la pace" (32,15-17).
Non scommettere sulla pace che sorrida sulla radicalità della nonviolenza: è infida.
E' giunta l'ora in cui occorre decidersi ad arretrare (arretrare o spingere?) la difesa della pace sul terreno della nonviolenza assoluta. Non è più ammissibile indugiare su piazzole intermedie che consentano dosaggi di violenza, sia pur misurati o prevalentemente rivolti a neutralizzare quella degli altri.
Richiamarsi al dovere di "camminare con i piedi per terra", e fare spreco di compatimento sul preteso "fondamentalismo" degli annunciatori di pace, significa far credito alle astuzie degli uomini più di quanto non si faccia assegnamento sulle promesse di Dio.
La nonviolenza è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato senza equivoci.
Se su di essa perfino la profezia laica ci sta precedendo, sarebbe penoso che noi credenti, destinati per vocazione a essere avanguardie che introducono nel presente il calore dell'utopia evangelica, scadessimo al ruolo di teorizzatori delle prudenze carnali .
Il grande esodo che oggi le nostre comunità cristiane sono chiamate a compiere è questo: abbandonare i recinti di sicurezza garantiti dalla forza per abbandonarsi, sulla parola del Signore, alla apparente inaffidabilità della nonviolenza attiva.
Non scommettere sulla pace che non provochi sofferenza: è sterile.
Il grande teologo protestante Bonhoeffer parlava di "grazia a caro prezzo". Forse è ora che ci abituiamo a pensare che anche la pace ha dei costi altissimi.
I prezzi stracciati destano sospetto.
Gli sconti da capogiro inducono a credere che la merce è avariata.
Le svendite fuori stagione sanno di ambiguità. E le allettanti offerte sottocosto fanno pensare ai surrogati.
La pace non è il premio favoloso di una lotteria che si può vincere col misero prezzo di un solo biglietto.
Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue.
La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa viene chiamata.
L'arena della prova è lo scenario di questo villaggio globale che rischia di incenerirsi in un olocausto senza precedenti.
E come nei primi tempi del cristianesimo i martiri stupirono il mondo per il loro coraggio, così oggi la Chiesa dovrebbe fare ammutolire i potenti della terra per la fierezza con cui, noncurante della persecuzione, annuncia, senza sfumare le finali come nel canto gregoriano, il vangelo della pace e la prassi della nonviolenza.
E' chiaro che se, invece che fare ammutolire i potenti, ammutolisce lei, si renderebbe complice rassegnata di un efferato "crimine di guerra".
Ma, grazie a Dio, stiamo assistendo oggi a una nuova effusione dello Spirito che spinge la Chiesa sui versanti della profezia e le dà l'audacia di sfidare le trame degli oppressori, i sorrisi dei dotti, e le preoccupazioni dei prudenti secondo la carne.
Non scommettere sulla pace come "prodotto finito": scoraggia.
La pace è una meta sempre intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si vince sulle tappe intermedie, e mai sull'ultimo traguardo. Esisterà sempre un "gap" tra il sogno cullato e le realizzazioni raggiunte. I labbri delle conquiste non combaceranno mai con quelli dell'utopia, e il "già" non si salderà mai col "non ancora".
Ciò vuol dire che sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita, e bisognerà giocare sempre ulteriori tempi supplementari. Tutto questo può indubbiamente provocare delusioni e stanchezza, creando collassi operativi e crisi da insuccesso. Ma chi è convinto che la pace è un bene la cui interezza si sperimenterà solo nello stadio finale del Regno, troverà nuovi motivi per continuare la corsa anche nella situazione di scacco permanente in cui è tenuto dalla storia.
Cristo, nostra Pace, non delude
Coraggio, allora! Nonostante questa esperienza frammentata di pace, scommettere su di essa significa scommettere sull'uomo. Anzi, sull'Uomo nuovo. Su Cristo Gesù: egli è la nostra Pace. E lui non delude. Del resto anche lui, finché staremo sulla terra, sarà sempre per noi un Ospite velato.
Faremo di lui un'esperienza incompleta, e i suoi passaggi li scorgeremo solo attraverso segni da interpretare e orme da decifrare. Faccia a faccia, così come egli è, lo vedremo solo nei chiarori del Regno di Dio.
Allora, come per una arcana dissolvenza, le linee con cui abbiamo tenacemente disegnato la pace quaggiù si ricomporranno nella luce dei suoi occhi e assumeranno finalmente i tratti del suo volto.
E la realtà, stavolta, sopravvanzerà il sogno.
Ma qui siamo già alle soglie del mistero
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(*) ANTONIO BELLO. Sui sentieri di Isaia, Molfetta, Editrice La Meridiana, 1989, p. 11-21 ==>> [torna alla pagina iniziale]
Educazione alla povertà
L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse per questo il Maestro ha voluto riservare ai poveri la prima beatitudine.
Non è vero che si nasce poveri.
Si può nascere poeti, ma non poveri.
Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti.
Dopo una trafila di studi, cioè.
Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi.
Questa della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio difficile. Tanto difficile, che il Signore Gesù si è voluto riservare direttamente l'insegnamento di questa disciplina.
Nella seconda lettera che San Paolo scrisse ai cittadini di Corinto, al capitolo ottavo, c è un passaggio fortissimo: "Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi".
E' un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito a pieni voti, incorniciato con cura, e gelosamente custodito dal titolare, che se l'è portato con sé in tutte le trasferte come il documento più significativo della sua identità: "Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il nido; ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo".
Se l'è portato perfino nella trasferta suprema della croce, come la più inequivocabile tessera di riconoscimento della sua persona, se è vera quella intuizione di Dante che, parlando della povertà del Maestro, afferma: "Ella con Cristo salse sulla croce".
Non c'è che dire: il Signore Gesù ha fatto una brillante carriera.
E ce l'ha voluta insegnare.
Perché la povertà si insegna e si apprende. Alla povertà ci si educa e ci si allena. E, a meno che uno non sia un talento naturale, l'apprendimento di essa esige regole precise, tempi molto lunghi, e, comunque, tappe ben delineate.
Proviamo a delinearne sommariamente tre.
Povertà come annuncio
A chi vuole imparare la povertà, la prima cosa da insegnare è che la ricchezza è cosa buona.
I beni della terra non sono maledetti. Tu-t'altro. Neppure i soldi sono maledetti.
Continuare a chiamarli sterco del diavolo significa perpetuare equivoci manichei che non giovano molto all'ascetica, visto che anche i santi, di questo sterco, non hanno disdegnato di insozzarsi le tasche.
I beni della terra non giacciono sotto il segno della condanna. Per ciascuno di essi, come per tutte le cose splendide che nei giorni della creazione uscivano dalle mani di Dio, si può mettere l'epigrafe: "ed ecco, era cosa molto buona".
Se la ricchezza della terra è buona, però, c'è una cosa ancora più buona: la ricchezza del Regno, di cui la prima è solo un pallidissimo segno. Ecco il punto. Ci vorrà fatica a farlo capire agli apprendisti. Ma è il nodo di tutto il problema. Farsi povero non deve significare disprezzo della ricchezza, ma dichiarazione solenne, fatta con i gesti del paradosso e perciò con la rinuncia, che il Signore è la ricchezza suprema.
Un po' come rinunciare a sposarsi in vista del Regno non significa disprezzare il matrimonio, ma annunciare che c'è un amore più grande di quello che germoglia tra due creature. Anzi, dichiarare che questo piccolo amore è stato scelto da Dio come segno di quell'altro più grande. Sicché, chi non si sposa sembra dire ai coniugi: "Splendida la vostra esperienza. Ma non è tutto. Essa è solo un segno. Perché c'è un'esperienza di amore ancora più forte, di cui voi attualmente state vivendo solo un lontanissimo frammento, e che un giorno saremo tutti chiamati a vivere in pienezza.
Analogamente, farsi povero significa accendere una freccia stradale per indicare ai viandanti distratti la dimensione "simbolica" della ricchezza, e far prendere coscienza a tutti della realtà significata che sta oltre. Significa, in ultima analisi, divenire parabola vivente della "ulteriorità".
In questo senso, la povertà, prima che rinuncia, è un annuncio. E' annuncio del Regno che verrà.
Povertà come rinuncia
E' la dimensione che, a prima vista, sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni filosofi o da molte correnti religiose. Rinunciare alla ricchezza per essere più liberi.
in realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare rinuncia filosofica.
Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce di volare. E' la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca la luce del sole.
La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio.
Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere.
Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti".
Chi vuol servire deve rinunciare al guardaroba. Chi desidera stare con gli ultimi, per sollecitarli a camminare alla sequela di Cristo, deve necessariamente alleggerirsi dei "tir" delle sue stupide suppellettili.
Chi vuol fare entrare Cristo nella sua casa, deve abbandonare l'albero, come Zaccheo, e compiere quelle conversioni "verticali" che si concludono inesorabilmente con la spoliazione a favore dei poveri.
E' la gioia, quindi, che connota la rinuncia cristiana: non il riso.
La testimonianza, non l'ostentazione.
Come avvenne per Francesco, innamorato pazzo di madonna Povertà. Come avvenne per i suoi seguaci, che sì spogliarono non per disprezzo, ma per seguire meglio il maestro e la sua sposa: "O ignota ricchezza, o ben verace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, dietro allo sposo; sì la sposa piace!"
Povertà come denuncia
Di fronte alle ingiustizie del mondo alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può tacere.
Come non può tacere dinanzi ai moduli dello spreco, del consumismo, dell'accaparramento ingordo, della dilapidazione delle risorse ambientali.
Come non può tacere di fronte a certe egemonie economiche che schiavizzano i popoli, che riducono al lastrico intere nazioni, che provocano la morte per fame di cinquanta milioni di persone all'anno, mentre per la corsa alle armi, con incredibile oscenità, si impiegano capitali da capogiro.
Ebbene, quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare queste piovre che il Papa, nella "Sollicitudo rei socialis", ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato? Quella della povertà!
Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza.
E' un'educazione che bisogna compiere, tornando anche ai paradossi degli antichi Padri della Chiesa: "Se hai due tuniche nell'armadio, una appartiene ai poveri". Non ci si può permettere i paradigmi dell'opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli croci-fissi. Le carte patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie del Calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze.
La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono della solidarietà corta.
Ma c'è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere.
Ed ecco la povertà intesa come condivisione della sofferenza altrui. E' la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto. Mai strumento per la crescita del proprio prestigio, o turpe occasione per scalate rampanti.
Povertà che si fa martirio: tanto più credibile, quanto più si è disposti a pagare di persona.
Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori, ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, sì è fatto povero fino al lastrico dell'annientamento.
L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara.
Forse è proprio per questo che il Maestro ha voluto riservare ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine. ==>> [torna alla pagina iniziale]
Per una strategia della pace *
… l'ambiguità del nostro "martirio" non ci faccia tentennare
di fronte alle "onnipotenze" del mondo
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1. Se ricorriamo a uno schema biblico, non è solo per un bisogno di organicità espositiva, ma anche perché vorremo tonificare la saldezza delle nostre analisi, esemplare lo stile del nostro impegno, irrorare la genialità delta nostra prassi di pace, e non banalizzare le nostre utopie.
Lo schema biblico fa perno attorno a un fortissimo tema generatore che sì racchiude in una parola: Gerusalemme. Lo snoderemo in quattro icone.
Nessuno è ormai tanto digiuno di riferimenti scritturistici da non sapere che Gerusalemme è la città santa, che già nella sua etimologia rievoca tutta la galassia dello "Shalom" biblico.
E' la "beata pacis visio": il simbolo, l'immagine della pace. Anzi, la sede per eccellenza della pace:
"Glorifica il Signore, Gerusalemme; loda, Sion, il tuo Dio.. egli ha messo pace nei tuoi confini, e ti sazia con fior di frumento" (Salmo 147,12-14).
Verso Gerusalemme, casa del Dio della pace, si orientano i passi dei pellegrini ebrei. A Gerusalemme diroccata si volgono le nostalgie degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù, Principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia uni-versale.
Sulla scorta, allora, di questo tema generatore, tracceremo quattro proiezioni:
- salire a Gerusalemme (linea ermeneutica della pace);
- sostare a Gerusalemme (linea dossologica della pace);
- scendere da Gerusalemme (linea politica della pace);
- verso la Gerusalemme del cielo (linea utopica della pace).
Salire a Gerusalemme
2.1 Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità emotiva il pellegrinaggio verso Gerusalemme, "città del sommo Dio".
Quando arrivavano certe date classiche, un fremito di commozione prendeva l'animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di Sion, cantavano i salmi detti appunto delle "ascensioni". Uno dei più belli è il salmo 122: "Quale gioia, quando mi dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ... Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano; sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: su di te sia pace":
L'icona degli ebrei che salgono verso Gerusalemme, città della pace, deve essere paradigmatica per noi, pellegrini che faticosamente saliamo le alture alla ricerca della pace.
Eccoci condotti, allora, alla dimensione ermeneutica del nostro impegno: quella della ricerca.
Si potrebbe assumere come telaio di questa prima dimensione la frase di un monaco certosino del 1100, Guigo II, che, parlando della "lectio divina", cioè della metodologia da usare per leggere compitamente, in modo sapienziale, la Parola di Dio, scandisce quattro momenti: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. E dice così: "La lettura è un esercizio esteriore, la meditazione è una comprensione intellettuale, la preghiera è desiderio, la contemplazione è superamento di ogni senso.
Ora, ecco la prima proiezione.
I credenti dovrebbero essere testimoni di una "lectio divina" della pace. Scandendo, appunto, i quattro momenti che venivano proposti ai monaci per la "lectio divina" della Parola.
2.2 Anzitutto la lettura. Di che cosa? Dei segni di guerra e dei segni di pace.
Gli apparecchi ricetrasmittenti dell'opinione pubblica sono spesso grossolani. Registrano solo ingiustizie e guerre "scenografiche". E comunicano solo segnali di pace connotati dall'enfasi.
Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni di violenza emesse da tutte le direzioni.
La violenza a onde corte che viene perpetrata, ad esempio, mediante l'aborto.
Dopo gli anni roventi degli steccati culturali e degli scontri etici, pare che il bisogno di una autentica difesa della vita non nata stia ricongiungendo le sue proiezioni con l'ansia di un mondo affrancato dall'incubo nucleare, verso un comune allargamento degli orizzonti di quelle evidenze etiche che tutti si affannano a proclamare in decadimento.
La violenza a onde medie che viene perpetrata in paesi pure vicini a noi, ma non sempre collocata nella focale dei "media". Così sui massacri che avvengono nel Libano, in Iran, in Irak, in Etiopia, in Mozambico, in Sudan..., nei paesi del Medio Oriente, o sulle violazioni dei diritti
umani che vengono perpetrate non solo in Sud Africa, o in Centro America, o nell'America Latina, ma anche nei paesi dell'Est europeo, cade la complicità della stampa e l'indifferenza delle coscienze.
La violenza a onde lunghe che viene subdolamente perpetrata, più che sul versante dell'avere, su quello dell'essere. Hanno ancora valore le parole che Solgenitzin scriveva nel 1972: "I tipi di coercizione più pericolosi per la pace sono quelli che agiscono senza missili nucleari, senza flotte e senza aviazione, e sono tanto larvati che si potrebbe quasi scambiarli per tradizioni e usanze abituali... Per ottenere pace autentica, è necessario che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono le forme clamorose.... L'impegno è quello di cancellare dagli uomini l'idea che qualcuno possa avere il diritto di usare violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro che usano la violenza: la pace è favorita da colui che integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati"
Ma dovremmo avere anche antenne più sensi-bili a captare le modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla gente.
Oggi assistiamo a un impressionante trapasso culturale sul tema della pace, che si esprime, come osserva E. Balducci, in una duplice forma:
"quella di superficie, che diventa prorompente quando gli eventi politici e militari creano le giuste occasioni, e quella sommersa, che ha i suoi luoghi di incubazione e di creatività disseminati nelle città e nei villaggi, sotto le denominazioni più diverse e con i più diversi sostegni: dagli enti locali ai partiti, dagli istituti scolastici alle parrocchie. Il movimento per la pace è come una galassia che occupa la zona intermedia tra l'opinione pubblica e le strutture di partito, una zona nella quale avvengono, magari silenziosa-mente, le metamorfosi chimiche destinate, forse, a mutare in futuro anche gli apparati del potere. E' difficile ridurre a tratti unitari un fenomeno che è, come dicono i sociologi, allo "stato nascente". Vi si trova il massimalismo utopico che abbraccia in uno slancio generoso dell'immagi-nazione il futuro del mondo intero, e l'insistenza ossessiva su di una opzione particolare, come, tanto per fare un esempio, l'abolizione della caccia; la pro pensione a risolvere tutti i problemi sul piano etico, senza tener conto della complessità del nesso che stringe ed oppone etica e storia; la demonizzazione degli uomini politici in cui si in-carna l'ideologia di sicurezza armata, e l'idealizzazione della guerriglia contro gli imperi atomici. E' un mondo fluido quello del movimento per la pace, in cui si alternano stati di incandescenza e improvvisi raffreddamenti. Ma, osservato nel suo insieme, esso esprime un vero e proprio processo di conversione culturale, che investe ormai anche gli ambienti più tradizionali e che, attraverso la pluralità eterogenea dei suoi approcci, va elaborando alcune linee che già prefigurano un disegno unitario destinato ad imporsi, nel futuro, a tutti i livelli della società".
2.3 Il secondo momento della "lectio divina" della pace è quello della meditazione. Io vorrei dire: quello della sistematizzazione teologica.
Purtroppo non c e ancora in Italia una apprezzabile teologia della pace. Non si va più avanti dei troppo frammentati sussulti di ordine biblico, e delle pur giuste analisi di linguaggio che indugiano intorno ai termini shalom, eirene, o intorno al termine opposto, hamas (il contrario di shalom non è guerra, ma violenza), la violenza essenziale che scompagina il complesso delle relazioni tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e le cose, tra l'uomo e l'altro uomo.
Quello delta pace viene visto ancora solo come tema di ordine etico, che risiede cioè esclusiva-mente nelle nicchie operative della morale, non un tema di carattere cristologico e trinitario che cerca cittadinanza negli spazi speculativi della fede.
Non c'è ancora una "irenologia" sistematica. Si annaspa attorno a incerti riferimenti cristologici, centrati sul famoso passo della lettera agli Efesini (2,14-18), in cui si afferma che "Egli (Cristo) è la nostra Pace".
Si intuisce che il Vangelo è annuncio di pace, ma poi per un verso ci si impantana nelle dissertazioni sulla spada da rimettere nel fodero o sull'altra guancia da porgere allo schiaffo; men-tre, sul fronte opposto, si tenta addirittura la fondazione di una teologia della guerra o la legittimazione di una certa violenza sulla base del Vecchio Testamento e di alcune espressioni del Nuovo ("non sono venuto a portare la pace, ma la spada"...).
Manca ancora del tutto una riconduzione della pace sul terreno trinitario: anzi, definirla proprio su questo modulo trinitario come la convivialità delle differenze, o come icona della vita trinitaria, sembra poco più che una esercitazione retorica.
E' davvero malinconico osservare come il cri-stiano, definito da Tertulliano "uno che lavora per la vita", non trovi ancora chiari riferimenti in una "irenologia", che dovrebbe essere una "obiezione di coscienza totale" di fronte ai poteri della terra che minacciano di bruciare l'umanità in un olocausto senza precedenti.
Ecco il compito più duro della "ascesa" verso Gerusalemme. Emerge da più parti la necessità di affrontare il problema della fondazione teologica detta pace, mollando gli ormeggi dall'area moralistica, tecnica, funzionale, intramondana e diplomatica. Sarà proprio dalla "irenologia" che si scateneranno nel mondo quei venti freschi e salutari che rinnoveranno la storia.
2.4 Ed eccoci al terzo momento della "lectio divina": la preghiera.
E' qui che si deve innestare, in moduli più forti, l'impegno dei credenti sulla spiritualità della pace. Spiritualità che non significa confino nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo di gruppo con la panna montata delle canzonette religiose.
Mi sembra molto significativa una espressione di Nicolas Berdiaeff: "Il pane per me stesso è una questione materiale. Il pane per il mio vicino è una questione spirituale".
Spiritualità delta pace significa appunto cercare il pane per il proprio vicino. Ma significa anche approfondire la coscienza che il pane "sovrasostanziale" della pace è un dono che va chiesto a Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi. Lo shalom non nasce dal regola-mento internazionale dei conflitti. Non viene fuori dai trattati e dalle pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono pure necessari, ma come predisposizione all'accoglimento del dono di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non la pace. Produrranno la coesistenza pacifica, non l'esistenza della pace.
La pace è "oriens ex alto", come la Chiesa. E come ci stiamo abituando a pensare alta "Ecclesia de Trinitate , così dobbiamo abituarci a pensare alla "pax de Trinitate". E come la Chiesa non è una realtà atemporale ma storica, non celeste ma inserita nel mondo, non utopica ma profetica... così deve essere la pace. E come la Chiesa, icona detta Trinità, è epifania e primizia del mondo nuovo come Dio lo ha progettato dall'eternità, così la pace sulla terra, icona della vita trinitaria, deve essere epifania e primizia della pace del mondo rinnovato.
Questo parallelo tra Chiesa e pace, caratterizza la spiritualità delta pace come spiritualità ecclesiale.
Cercare il contesto della più cordiale ecclesialità non è tentare un'operazione di assestamento aziendale.
Significa, invece, intuire che l'unica trama che può veicolare l'acqua della pace "oriens ex alto" è la trama ecclesiale, non tanto per le sue strutture, quanto per il suo essere "realtà di comunione".
Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare, e che vanno dalla stimo-lazione nei confronti delle nostre comunità ecclesiali, al coinvolgimento "simpatico" dei nostri pastori, alta pressione rispettosa sui nostri ve-scovi perché siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore "parresia" delle nostre Chiese locali, alla riconduzione diuturna delle nostre realtà di base sul versante della implorazione, secondo la formula umile e coraggiosa del Card. Etchegherray: "Signore, dam-mi l'accortezza di spiegare bene che la pace non è così semplice come immagina il cuore, ma più semplice di quanto crede la ragione!".
E che la letizia della pace sia in fermento nella nostra comunità ecclesiale, è un segno dei tempi che con speranza dovremmo annunciare. Non è forse vero che per noi credenti d'occidente la pace è il nostro modo di costruire la liberazione?
2.5 Finalmente siamo arrivati all'ultimo momento della "lectio divina" della pace: la contemplazione. Che non e "stasi", ma "estasi" (ex-stasis), cioè movimento, esodo, sequela.
Sequela di Cristo, che significa camminare nella luce del Signore e nell'ascolto della sua Parola, con tutte le implicanze difficili del martirio. Ecco il discorso sulla mitezza, sulla nonviolenza attiva, sulla povertà come metodo, sul ser-vizio, sulla partenza dagli ultimi, sul perdono come disarmo unilaterale (insegnatoci diretta-mente da Cristo, e così difficile da accogliere sia a livello personale, sia a livello internazionale).
Senza queste dimensioni, noi credenti diventeremmo solo banditori di pseudo-profezie, o di una pace "a basso prezzo", direbbe Bonhoeffer il quale parlava di "grazia a caro prezzo".
Sostare a Gerusalemme
3.1 Scegliamo anche qui un paradigma biblico tratto dal Vangelo di Luca: "1 suoi genitori si re-cavano tutti gli anni a Gerusalemme per La festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava"
(2,41-61).
L'icona di Gesù che rimane a Gerusalemme e che, nel tempio, ascolta e interroga, occupandosi delle cose del Padre suo, deve essere parabolica anche per noi, alla ricerca di uno stile che ci caratterizzi come operatori di pace.
Eccoci condotti, allora, alla dimensione dossologica del nostro impegno. Come telaio di questa seconda dimensione, assumo i tre pilastri che hanno Sostenuto l'incontro di preghiera del 27 ottobre ad Assisi: silenzio, digiuno, pellegrinaggio.
3.2 Anzitutto, il silenzio. Gesù ascolta, e se rompe il silenzio è solo per interrogare, non per dare risposte. Mi sembra che ci sia qui la freccia stradale che ci indica una proiezione molto significativa sul piano dette nostre metodologie. Chi si impegna per la pace non è chiamato a emettere un rumore tra i tanti rumori attuati che parlano
di pace. Non ha la vocazione a dire cose eclatanti, atte a conciliare il fascino della prima donna o il "look" del protagonista nel concerto degli "strumenti delta pace". Non è smanioso di emergere, dicendo ogni volta la sua su ogni problema di fondo o su ogni vicenda occasionale. Non ha paura di perdere il treno della popolarità, né si affanna a prendere tutte le coincidenze sotto la pensilina della cronaca. Non ama declamare la verità, rivestendola di arroganza. Predilige l'ascolto e la riflessione.
Il suo, però, non è un "silenzio-stampa", dettato cioè dal calcolo. Tantomeno è un silenzio prudenziale, pavido, bilanciato, turgido di compromessi. E' un silenzio che esplode, anzi, con audacia profetica, nella direzione della Parola rivelata. Diventa allora incontenibile: non imbavaglia la verità per paura di dispiacere ai potenti; non decurta la Parola per farla entrare nel clichè delle cautele carnali; non sterilizza il linguaggio per tener buoni quelli del Palazzo; non attenua le asprezze "irrazionali" del messaggio per timore di apparire ingenuo, ma lo trasmette per intero fino alle sporgenze del paradosso.
Il silenzio diviene così l'utero entro cui la Parola diviene carne, come nel grembo di Maria.
3.3 Dopo il silenzio, il digiuno.
Siccome nell'antichità era vietato digiunare di domenica, il digiuno è il segno della ferialità. Colloca pertanto la pace sul terreno banale e difficile dei giorni normali. Ed è questo della "ferialità" il digiuno più significativo che potremmo esprimere nel deserto del mondo, così pieno di "aspiranti al ruolo dì Dio".
Forse coinciderà per noi anche col digiuno della gloria e della cronaca. Ma se ne avvantaggerà la dossologia verso il Principe della pace.
3.4 E, infine, il pellegrinaggio.
Verso dove? All'interno della comunità ecclesiale e all'esterno, nello stile della missione.
Più precisamente: verso il cuore della gente, verso il cuore delle comunità cristiane che stanno nel "tempio", verso gli ultimi.
E' splendido quell'inciso di Luca che dipinge Gesù "seduto in mezzo".
Stare in mezzo alla gente. Per interrogarla, ponendole domande di fondo sul senso della vita. Per coscientizzarla facendo fermentare i germi di verità depositati nelle più profonde stratifica-zioni popolari. Per smuoverla, operando quegli smottamenti di terreno sul quale il fatalismo e il senso dell'ineluttabilità hanno sopraelevato edifici di inerzia.
Stare in mezzo alle comunità cristiane. Per animarle al coraggio. Per esortarle alla denuncia profetica. Per coinvolgerle nei processi di liberazione planetaria.
Stare in mezzo agli ultimi. Perché, partendo da essi, va riformulata la strategia di ogni movimento che si impegna per la pace. E' mettendosi in corpo l'occhio del povero che potremo ridisegnare la cartina geografica dei luoghi dove oggi Cristo è crocifisso.
Se sapremo compiere questo pellegrinaggio verso la gente (scegliendo la dimensione popolare del nostro impegno), verso le comunità ecclesiali (portando al loro interno il soffio della universalità e della speranza) e verso gli oscuri domicili degli ultimi (rendendoli protagonisti del loro riscatto), allora si sprigionerà davvero, dai sotterranei della storia più che dai palazzi dei potenti, una incontenibile dossologia trinitaria.
Scendere da Gerusalemme
4.1 L'icona biblica che ci richiama la dimensione politica della pace e che traduce la coscienza in progetto, è quella del buon samaritano in viaggio sulla Gerusalemme-Gerico.
E' su quest'asse che si giocano i sogni diurni delle nostre utopie. E' l'asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è la città del tempio; è il luogo dove si celebra l'ultima cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza la sua risurrezione; è l'epicentro della pentecoste...) e conduce verso Gerico (verso l'ecumene, la storia, anzi la cronaca: cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti dei briganti, i quali spogliarono, per-cossero, lasciarono mezzo morto un uomo, simbolo di tutti gli oppressi della terra).
E' l'asse su cui la fede interseca la storia, la speranza incrocia la disperazione della terra, la carità s'imbatte con i frutti della violenza.
Tra i verbi che traducono i comportamenti concreti del samaritano ("lo vide, n'ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò te ferite, gli versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò ad una locanda, si prese cura di lui"), quello che mi sembra più espressivo è questo: "gli si fece vicino".
Farsi vicino a chi? Al popolo.
Eccoci condotti allora a quella che, secondo me, dovrebbe essere l'opzione fondamentale degli operatori di pace: farci vicini al popolo.
Il samaritano non lasciò il malcapitato sulla strada, per andare in città a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine. Non si recò agli sportelli della polizia per sporgere querela contro ignoti. Non andò a protestare contro le omissioni del Ministero degli Interni. Non lasciò boccheggiante sul sentiero verso Gerico quell'uomo mezzo morto per convocare una conferenza-stampa sul degrado etico della città, o sulle violenze del sistema, o sull'inadempienza dei poteri costituiti.
Forse, dopo, avrà fatto pure questo. Anzi, visto il suo zelo, c'è da pensare che in seguito, "il giorno seguente ', abbia assolto anche a questo compito. Diversamente, avrebbe peccato per omissione di atti di ufficio.
Ma intanto, il gesto fondamentale che ritenne di compiere fu quello "di farsi vicino", e passare
dal piano della denuncia a quello della costruzione diretta. La pace parte dal popolo e non dalle cancellerie. Dalle cancellerie semmai vi passa: ma per trovare le ratifiche, per ricevere il marchio di origine controllata.
L'intelligenza diplomatica e la ragione fredda porteranno allora a compimento ciò che la profezia creativa, che fermenta nel popolo, ha già indicato.
Laddove si scopre questa verità, è la democrazia tutta che avanza, sussulta, si migliora. Sicché la testimonianza, la solidarietà, la partecipazione, il coinvolgimento del popolo si pongono al servizio di un unico grande progetto storico da realizzare. Divengono i nuovi strumenti della politica.
Gli impegni concreti da assumere con forza dovrebbero essere il riflesso di questa opzione di fondo. E quali sono?
4.2. Ne individuiamo cinque, o meglio proponiamo cinque aree:
L'area della educazione alla pace.
Forse potrà sembrare una forzatura, ma io considero che il discorso sulla educazione alla pace è il crinale, o se si vuole, la peripezia decisiva su cui ogni movimento si gioca la sopravvivenza.
Oggi stanno esplodendo numerose iniziative che hanno come scopo la promozione di una cultura della pace. Soprattutto nel mondo della scuola assistiamo a una fecondità di pubblicazioni e programmi, non gestiti più in termini di semplice trasmissione della cultura tradizionale. Un nuovo ecumenismo culturale si sta organizzando proprio attorno al tema della pace.
L'area della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta.
Si inserisce qui non solo un maggiore approfondimento concettuale della nonviolenza come valore di popolo, ma anche la comprensione delle metodologie nonviolente, in relazione con la fede.
L'irrobustimento che si compie nella nonviolenza tra la fede e la storia. Il ricongiungimento tra morale individuale e quella collettiva.
Si inserisce qui il lavoro di coscientizzazione popolare contro il commercio delle armi e la militarizzazione del territorio.
Si inserisce qui tutta l'azione educativa della base perché si accorga degli effetti disastrosi della violenza tecnologica. L'ecologia è un grosso capi-tolo del grande libro della pace.
L'area dei diritti umani e del rapporto Nord-Sud.
Lo spostamento dell'asse che spaccava l'Est dall'Ovest sulla demarcazione che divide il Nord dal Sud ci ha fatto prendere coscienza che mancanza di pace non è solo la guerra, ma la viola-zione dei più elementari diritti umani.
Entrano qui tutte le riflessioni sulla qualità della vita.
Sullo sviluppo tecnologico.
Sull'allargamento dello sguardo agli orizzonti della mondialità.
Sul permanere della logica del profitto che tende a riproporre, nei paesi poveri, fasti e nefasti dei paesi industrializzati.
Sulla solidarietà con i paesi del Terzo Mondo che esige lo smascheramento del mercato delle armi.
Sul Nuovo Ordine Economico Internazionale.
Come anche sulla tragica situazione degli immigrati in casa nostra.
Dobbiamo assecondare gli sforzi che vanno compiendo anche tante riviste missionarie divenute tribune implacabili contro le ingiustizie, e divulgare in mezzo al popolo le planimetrie di tutte le violenze, a partire da quelle che si consumano nel nostro territorio.
L'area della obiezione di coscienza.
Non tanto per ciò che immediatamente produce scombinando i calcoli del potere costituito, quanto per il contenuto di crescita popolare che essa racchiude.
Starei per dire che non è tanto l'obiezione di coscienza che ci interessa, quanto la coscienza dell'obiezione. Perché dietro le quinte di ogni obiezione c'è sempre una coscienza collettiva che matura.
L'area delle cesure difficili da ricomporre.
Tra testimonianza personale (ineludibile specialmente sulle scelte di sobrietà e di coerenza) e progetti sociali.
Tra impegno locale (con tutte le sue logiche di incarnazione e quindi, di vissuto spicciolo) e mutamenti globali.
Tra tensioni di solidarietà concreta (fatta di gesti di condivisione, di assistenza, di "olio e vino" sulle ferite) e politica.
Tra diritti dell'uomo (volti verso una nuova qualità della vita) e sviluppo appropriato.
E' qui, su queste cesure e su queste lacerazioni che dobbiamo chinarci per operare la ricomposi-zione o, se volete, per "fasciare le ferite".
Verso la Gerusalemme del cielo
5. "Non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (Eb. 13,14).
La città futura è la Gerusalemme nuova, de-scritta nei capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della pace.
C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che comincia così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis visio". Città della Gerusalemme del cielo, tu sei uno stupendo spettacolo di pace!
Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più bella. Perché è l'icona della speranza.
Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che l'ambiguità del nostro "martirio" ci fa tentennare di fronte alle "exousie" (onnipotenze) del mondo. Di qui trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante la povertà delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri disegni, e l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il "già" impallidisce sempre dinanzi al "non ancora".
Ma non dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza di tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati a far spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far ma-turare nei segni: la pace, la fraternità, la giusti-zia, la libertà.
E' dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo l' "ottavo giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo, il perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità, la tenerezza...
Ci accorgeremo finalmente che la pace non è un'aspirazione, ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio con noi.
"Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. E dominerà da mare a mare, dal fiume fino ai confini della terra." (Salmo 71).
La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il cui grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già" sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche l'icona del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso "cieli nuovi e terra nuova".
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* Testo base del discorso pronunciato al Congresso nazionale di Pax Christi, a Rocca di Papa, 18 dicembre 1986. ==>> [torna alla pagina iniziale]
* Omelia pronunciata nella Basilica dei Santi Apostoli in Roma, il 24 marzo 1987, nel settimo anniversario del martirio di Oscar Romero.
Un vescovo fatto popolo
Vescovo Romero, aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta
e il roveto inconsumabile da cui egli ci parla.
Carissimi fratelli e sorelle,
ci siamo riuniti in questa stupenda basilica dei Dodici Apostoli in Roma per celebrare non l'exploit degli uomini, ma l'exploit di Dio.
Ricordare un martire, infatti, significa individuare il punto in cui la Parola si gonfia così tanto, che la sua piena rompe gli argini e straripa in colate di sangue. Che è sempre il sangue di Cristo: quello del martire ne è come il sacramento.
Oscar Romero, perciò, è solo lo squarcio della diga. Gli innumerevoli testimoni che hanno dato la vita per Cristo, e che stasera ricordiamo in questa liturgia pasquale, sono solo il varco da cui il Dio dell'alleanza fa sgorgare sulla terra, in cento rigagnoli, i fiotti della sua fedeltà.
Al Dio dei martiri, quindi, più che ai martiri di Dio, gloria, onore e benedizione.
Se, però, il sangue dei martiri, è sacramento del sangue di Cristo, ci sarà pur lecito stasera sostare in riverente contemplazione dinanzi a questo sangue. Così come in adorante contemplazione sosteremo tra poco davanti al calice eucaristico del sangue di Cristo provocato anch'esso dalla Parola. Che diviene così densa ed efficace nella celebrazione dei sacramenti, da realizzare quello che annuncia.
Ecco allora il tema generatore della nostra riflessione: il martirio di Romero come frutto della Parola.
Scomporremo questo tema in tre momenti, sottolineando come la Parola di Dio ha costruito nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità dell'esodo, la spiritualità del dito puntato, la spiritualità del servo sofferente.
Spiritualità dell'esodo
Esodo da dove? Dal nascondiglio di una fede rassicurante, intimistica, senza sussulti.
Quando ho letto che la conversione spirituale di Romero è avvenuta esattamente dieci anni fa, allorché nel marzo 1977 venne ammazzato, con altri due compagni di fede, padre Rutilio Grande (un prete che aveva scelto di operare per la redenzione di un mondo gravato dalla miseria e dalla sofferenza), mi è venuto subito in mente un libro di von Balthasar: "Cordula, ovverosia il caso serio.
Cordula era una giovinetta di cui si parla nella leggenda delle undicimila vergini. Sfuggita alla morte, come vide che le sue compagne erano state tutte uccise per la causa di Cristo, uscì dal nascondiglio in cui si era rintanata per paura, e sì offrì volontariamente alla spada del carnefice.
Ebbene, Cordula (autentica o leggendaria la sua figura, non importa) mi sembra l'archetipo di Romero.
Il quale, intendiamoci bene, non è che fosse pavido, ma certo era prudente. Era un professore della fede, non un confessore. Era uno di quelli che scorgevano nei documenti di Medellin e di Puebla un attentato all'ortodossia del Vaticano Il. Non simpatizzava certo per la teologia della liberazione. Era così sospettoso nei confronti di quei preti che si facevano carico dei problemi d'ingiustizia e di oppressione vissuti dal popolo, che la sua nomina ad arcivescovo di San Salvador nel febbraio 1977 venne salutata con entusiasmo da tutti i quadri del potere costituito.
Un mese dopo, la via di Damasco.
Quando, sotto le raffiche delle armi cadde padre Rutilio, in ultima analisi fu lui a cadere sotto l'urto della Parola di Dio e, come per Paolo, "all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo".
Forse, a determinare il suo passaggio deciso dalla solidarietà col potere all'intransigente opposizione fu proprio la telefonata del presidente Molina che, ritenendo di fargli cosa gradita, gli annunziò per primo l'avvenuta esecuzione di padre Rutilio.
Gli si aprirono allora gli occhi e le orecchie, e intuì tutta la portata delle parole dell'Esodo: "Ho Osservato la miseria del mio popolo... ho udito il suo grido... e sono sceso per liberarlo".
I tre anni di lotta che seguirono, fino alla sua morte, sono legati a queste risonanze bibliche. Basta leggere le sue omelie per rendersi conto come, alla radice del suo cambiamento, ci sia solo la Parola di Dio e non la smania di chi si serve degli oppressi per emergere e trovare consensi.
Da quell'istante egli cominciò a vivere non pericolosamente, al punto che la morte se la sarebbe cercata con la sua caparbietà sia pure carica di tensioni morali. Ma fedelmente, scandendo cioè le sue scelte sugli stessi ritmi di Dio, fedele all'alleanza, che ha compassione dei suoi poveri.
E' ora di finirla con le ingenerose speculazioni che fanno di Romero un eroe ma non un martire; che presentano quest'uomo come travolto dall'ideologia ma non afferrato dallo Spirito; e che, delle quattro virtù cardinali, gli accreditano la giustizia ma non la prudenza, gli riconoscono la fortezza ma non la temperanza!
Spiritualità del dito puntato
Ma la Parola di Dio, oltre la spiritualità dell'esodo, ha costruito nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità che, raccogliendo lo spunto da un apologo, potremmo chiamare del dito puntato.
Fu lo stesso Romero a raccontarlo, nell'omelia del funerale di padre Navarro, un altro prete ucciso nel maggio del 1977: "Si narra che una carovana, guidata da un beduino del deserto, era disperata per la sete e andava cercando acqua nei miraggi del deserto. E la guida diceva loro: Non di là, di qua. E così varie volte, finché uno della Carovana, innervositosi, tirò fuori la pistola e sparò alla guida che, ormai agonizzante, tendeva ancora la mano per dire: non di là, ma di qua. E così morì, indicando la strada".
C'è in questo apologo il riverbero di una coscienza profetica che in Romero ha ormai preso corpo e che, di giorno in giorno, diventa sempre più chiara. "Così dice il Signore: grida a squarciagola, non avere riguardo. Come una tromba, alza la voce. Dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati".
Romero percepisce che vi sono potenze antitetiche alla salvezza proposta da Cristo e vi si oppone risolutamente con quegli atteggiamenti tipici che connotano lo stile dei primi martiri cristiani: la parresia, la kàuchesis, la speranza.
Parresia è lo stile di chi, in piedi, a faccia alta pur senza protervia, parla apertamente e con piena libertà di linguaggio del suo incontro con Dio, alla cui Parola si sente ormai irrevocabilmente consacrato.
Kàuchesis è il vanto che uno mena della croce del Cristo. E' il gloriarsi di lui, della sua persona, della sua unica signoria, che diventa fondamento delle proprie scelte personali.
Speranza è l'atteggiamento di colui che, mentre sì addensano le tribolazioni sulle sue spalle, non lascia spegnere il canto sulla sua bocca.
Basterà leggere le omelie di Romero per rendersi conto di come queste tre dimensioni innervarono la sua esistenza teologica. il parlare con coraggio e a viso aperto rivela, alle sue spalle, il "più grande io" a cui si è ormai abbandonato, anche se non mancano i fremiti della paura. "E' normale che ci tremino le ginocchia - diceva spesso - ma almeno che ci tremino nel posto in cui dobbiamo essere".
E' parresia anche questa.
Nel maggio del '79, durante la sua permanenza a Roma, venne proprio in questa chiesa dei Santi Apostoli e, nella cripta dove si venerano le tombe degli apostoli Filippo e Giacomo, chiese a Dio il coraggio di morire, se necessario, come erano morti i testimoni della fede.
Un mese prima della sua morte, sul quaderno degli esercizi spirituali, annotò: "Il nunzio di Costa Rica mi ha messo in guardia da un pericolo imminente proprio in questa settimana... Le circostanze impreviste si affronteranno con la grazia di Dio. Gesù Cristo aiutò i martiri e, se ce ne sarà bisogno, lo sentirò molto vicino quando gli affiderò il mio ultimo respiro. Ma, più dell'ultimo istante di vita, conta dargli tutta la vita e vivere per lui... Accetto con fede la mia morte per quanto difficile essa sia. Né voglio darle un'intenzione, come vorrei, per la pace del mio paese e per la crescita della nostra chiesa... Perché il cuore di Cristo saprà darle il destino che vuole. Mi basta, per essere felice e fiducioso, sapere con certezza che in lui è la mia vita e la mia morte; che, nonostante i miei peccati, in lui ho riposto la mia fiducia, e non resterò confuso, e altri proseguiranno con più saggezza e santità il lavoro per la chiesa e per la patria".
Splendido! E' la Kàuchesis.
E' il "nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Jesu Christi"!
E, infine, la speranza: orizzonte globale di questa spiritualità che abbiamo chiamato "del dito puntato" e che spinge il beduino morente a indicare ancora, alla carovana smarrita, le piste da percorrere. Forse non c'è nessuna parola così frequente del vocabolario: di Romero come la parola speranza.
Anzi, lo sapete, fu l'ultima parola da lui pronunciata quella domenica del 24 marzo 1980 alle ore 18,25, nella chiesa dell'ospedale della Divina Provvidenza mentre celebrava l'offertorio: "In questo calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio darci il coraggio di offrire il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo. Questo momento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza". Un colpo di fucile lo introdusse nella cena del Signore.
Spiritualità del servo sofferente
A ispirare le scelte di Romero non furono certo la lettura dei testi marxiani e neppure le trascrizioni in chiave ideologica di qualche esponente deteriore della teologia della liberazione, e neppure l'ambigua suggestione di riconquistare nuovi spazi sociali da parte della chiesa, riscoprendo i bisogni dei poveri e utilizzando a scopo strumentale le sofferenze degli oppressi. Furono invece le assidue meditazioni sui carmi del servo sofferente di Jahweh.
Quanto dolore e quanta tenerezza, quanta passione e quanto coraggio, quanta rabbia e quanta preghiera, quanta denuncia e quanta pazienza vibrano nelle parole di questo "vescovo fatto popolo"!
"Abbiamo incontrato i contadini senza terra e senza lavoro stabile, senz'acqua, senza luce e senza scuole. Abbiamo incontrato gli operai privi di diritti sindacali, licenziati dalle fabbriche quando reclamano e completamente alla mercé dei freddi calcoli dell'economia. Abbiamo trovato gli abitanti dei tuguri, la cui miseria supera ogni immaginazione, con l'insulto permanente dei palazzi vicini. In questo mondo disumano, la chiesa della mia arcidiocesi, sacramento attuale del servo sofferente di Jahweh, ha cercato di incarnarsi".
Si staglia così nella visione pastorale di Romero, con tutta la limpidezza dei contorni biblici e con tutta la cogenza di un impegno di "compagnia" e di "consolazione", la categoria dei poveri, che diventano il principio architettonico di ogni rinnovamento sociale. "Il mondo dei poveri è la chiave per comprendere la fede cristiana... I poveri sono quelli che ci dicono cos'è la "polis", la città, e che cosa significa per la Chiesa vivere realmente nel mondo... Tutto questo non solo non ci allontana dalla nostra fede, ma ci rimanda al mondo dei poveri come al nostro vero posto!..."
Bisognerebbe leggere tutto intero il discorso pronunciato da Romero all'università di Lovanio, prima che venisse insignito della laurea honoris causa, per capire quanto sapore di vangelo c'è sempre nelle parole di questo santo vescovo salvadoregno:
"La speranza che predichiamo ai poveri, la predichiamo per restituire loro dignità e per incoraggiarli a essere essi stessi autori del proprio destino. In una parola, la Chiesa non solo si è messa dalla parte del povero, ma fa di lui il destinatario delta sua missione, perché, come dice Puebla Dio prende le loro difese e li ama... Le maggioranze povere del nostro paese sono oppresse e represse quotidianamente dalle strutture economiche e politiche. Da noi continuano a essere vere le terribili parole dei profeti d'Israele. Esistono tra noi quelli che vendono il giusto per un denaro e il povero per un paio di sandali; quelli che accumulano violenza e saccheggio nei loro Palazzi; quelli che schiacciano i poveri; quelli che accumulano casa su casa e aggiungono campo a campo fino a occupare tutto il terreno... Questi testi dei profeti Amos e Isaia non sono voci lontane di molti secoli fa... Sono realtà quotidiane, la cui intensa crudeltà viviamo giorno per giorno. Le viviamo quando vengono da noi madri e spose di prigionieri e di scomparsi, quando appaiono cadaveri sfigurati in cimiteri clandestini, quando sono uccisi coloro che lottano per la giustizia e per la pace!... Noi crediamo con l'apostolo Giovanni che Gesù è la parola di vita e che, dove c'è la vita, ci si manifesta Dio. Dove il povero comincia a vivere, dove il povero comincia a liberarsi, dove gli uomini sono capaci di sedersi intorno a una tavola comune per condividere ciò che hanno, là è presente il Dio della vita".
C'è in queste parole non solo la consapevolezza che il vangelo non è una metodica di emancipazione, ma anche il convincimento che la povertà e la sofferenza non sono soltanto un oggetto da eliminare, bensì una realtà di cui farsi carico come il servo sofferente di Jahweh.
Ecco le coordinate che hanno strutturato il martirio di Oscar Arnulfo Romero, alla cui origine, come a tutte te origini sacramentali, c'è la Parola. E ora permettete che davanti al segno sacramentale del sangue di questo martire esprima una preghiera che dia significato al silenzio adorante che riserveremo tra poco al segno sacramentale del sangue di Cristo.
Noi t'invochiamo
Noi t'invochiamo, vescovo dei poveri, intrepido assertore della giustizia, martire della pace: ottienici dal Signore il dono di mettere la sua Parola al primo posto e aiutaci a intuirne la radicalità e a sostenerne la potenza, anche quando essa ci trascende.
Liberaci dalla tentazione di decurtarla per paura dei potenti, di addomesticarla per riguardo di chi comanda, di svilirla per timore che ci coinvolga.
Non permettere che sulle nostre labbra la Parola di Dio si inquini con i detriti delle ideologie. Ma dacci una mano perché possiamo coraggiosamente incarnarla nella cronaca, nella piccola cronaca personale e comunitaria, e produca così storia di salvezza.
Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla.
Prega, vescovo Romero, perché la Chiesa di Cristo, per amore loro, non taccia.
Implora lo Spirito perché le rovesci addosso tanta parresia da farle deporre, finalmente, le sottigliezze del linguaggio misurato e farle dire a viso aperto che la corsa alle armi è immorale, che la produzione e il commercio degli strumenti di morte sono un crimine, che gli scudi spaziali sono oltraggio alla miseria dei popoli sterminati dalla fame, che la crescente militarizzazione del territorio è il distorcimento più barbaro della voca-zione naturale dell'ambiente.
Prega, vescovo Romero, perché Pietro che ti ha voluto bene e che due mesi prima della tua morte ti ha incoraggiato ad andare avanti, passi per tutti i luoghi della terra pellegrino di pace e continui audacemente a confermare i fratelli nella fede, nella speranza, nella carità e nella difesa dei diritti umani là dove essi vengono calpestati.
Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale, ben sapendo che la sicurezza carnale e la prudenza dello spirito non sono grandezze commensurabili tra loro.
Prega, vescovo Romero, per tutti i popoli del terzo e del quarto mondo oppressi dal debito. Facilita, con la tua implorazione presso Dio, la remissione di questi disumani fardelli di schiavitù. Intenerisci il cuore dei faraoni. Accelera i tempi in cui un nuovo ordine economico internazionale liberi il mondo da tutti gli aspiranti al ruolo di Dio. E infine, vescovo Romero, prega per noi qui presenti, perché il Signore ci dia il privilegio di farci prossimo, come te, per tutti coloro che faticano a vivere.
E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa' che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d'ora cieli nuovi e terre nuove. ==>> [torna alla pagina iniziale]
PAX CHRISTI (14 maggio 1987)
PER CONVERTIRSI
ALL'UNICO VANGELO CRISTIANO
Intervista a Don Tonino Bello
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Confessioni di "un buono a nulla"
più coraggioso che prudente
Don Tonino per quale motivo lei consiglierebbe Pax Christi come luogo in cui vivere e approfondire l'esperienza cristiana?
Perché mi sembra un Movimento di cerniera tra i grandi problemi teorici, come quello della pace, della giustizia, dei diritti umani, della qualità della vita... e le concrete comunità ecclesiali: parrocchie, gruppi, associazioni. Pax Christi si prefigge infatti, come compito essenziale, quello di sollecitare l'attenzione della Chiesa (dei Pastori ma anche della gente) sulla questione della pace, e far diventare questo problema non accessorio alle tematiche pastorali, ma fondamentale per esse. Perché la pace non è un merletto che si aggiunge all'impegno della Chiesa, bensì il filo che intesse l'intero ordito della sua pastorale.
Ma può bastare l’impegno nei riguardi della pace, per far sperimentare l’interezza dell’annuncio evangelico?
La pace non è una delle mille "cose" che la Chiesa evangelizza. Non è uno scampolo del suo vasto assortimento. Non è un pezzo, tra i tanti, del suo repertorio. Ma è l'unico suo annuncio. È il solo brano che essa è abilitata a interpretare. Quando parla di pace, perciò, il suo messaggio è già esauriente. Se è vero, come dice san Paolo, che "Cristo è la nostra pace" (Ef 2,14), non c'è da temere che la Chiesa parzializzi l'annuncio evangelico, o trascuri altri aspetti dottrinali, o decurti l'ampiezza della rivelazione, parlando solo di pace. Anzi, per usare un'immagine, tutte le altre verità della Scrittura non sono che i colori dell'arcobaleno in cui si scompone l'unico raggio di sole: la pace.
Quali sono i principali obiettivi che Pax Christi si pone in questo tempo?
Aiutare tutta la Chiesa a vivere lo shalom biblico, considerando l'annuncio della pace come il principio architettonico della sua prassi pastorale. Sollecitare, quindi, l'approfondimento teologico e riscoprire la spiritualità della pace, da una parte. Fare aprire gli occhi alla gente sulle tristissime situazioni di "non pace", dall'altra. La violazione dei diritti umani, il problema della fame che investe popoli interi, la corsa alle armi e il commercio clandestino di esse, la militarizzazione crescente del territorio, la logica di guerra sottesa a molte cosiddette "scelte di civiltà", gli scudi stellari, certe visioni economiche che deprimono la qualità della vita... sono forme di peccato che rallentano l'avvento del regno di Dio. Non possono, perciò, considerarsi temi estranei alla predicazione del Vangelo.
Che ruolo vuole avere Pax Christi nell’odierna Chiesa italiana?
Un ruolo di stimolo, perché le comunità ecclesiali divengano più profetiche in tema di pace. Oggi sul coraggio prevale spesso la prudenza. Sulla chiarezza, la neutralità. Sul chiamare per nome le cose, il linguaggio sfumato. Non è che ci sia spreco di parresia! Ce una icona bellissima negli Atti degli Apostoli che dice che cosa è la parresia (Pietro levatosi in piedi, con gli altri Undici, parlò a voce alta" (2,14).
- Levatosi in piedi indica la fermezza
- Con gli altri Undici indica la comunione ecclesiale.
- Parlò ad alta voce esprime la chiarezza
Un altro ruolo che Pax Christi vuole esprimere è quello di esplicitare e mettere in circolo lo straordinario magistero (destinato diversamente a rimanere sepolto sotto valanghe di altri messaggi) che la Chiesa sta producendo in tema di pace. È urgente portare sino alla periferia tutto ciò su cui, non solo il Papa, ma a volte anche i vescovi di piccole diocesi (si pronunciano), affinché questo nutrimento dottrinale venga metabolizzato dal tessuto ecclesiale.
Quale rapporto c’è tra Pax Christi e gli altri Gruppi del laicato “organizzato”?
Se è vero che Pax Christi si caratterizza per l'attenzione riguardante la spiritualità, la teologia, l'educazione alla pace, è chiaro che il suo compito è quello di animare gli altri Gruppi laddove c'è da portare questo valore alle immediatezze concrete, sul versante cioè della prassi. Non è quindi un rapporto di buon vicinato soltanto, quasi che Pax Christi fosse una struttura collaterale che cerca alleanze nelle altre strutture per portare avanti il discorso della pace. Non vuole aggiungersi di fianco, ma suscitare dal di dentro.
Con quale risultato di coinvolgimento?
Lo stile di Pax Christi all'interno dei gruppi ecclesiali non è tanto quello di creare comportamenti unitari in ordine a certe scelte concrete, ma quello di essere segno profetico che indichi, in modo forte e talvolta paradossale, il valore che sta al di là del segno stesso. I segni profetici non sono segni partitici. Questi esigono consenso, quelli creano coscienza. Le varie obiezioni, ad esempio, al servizio militare o alle spese militari, essendo scelte che sono sotto il segno della profezia, non pretendono l'univocità della prassi. Chi le pratica, però, diviene testimone di pace, anche se scomodo.
Qual è la maggiore forza di Pax Christi?
La confidenza nel Signore. Una sottolineatura forte che si va facendo strada nel nostro Movimento è quella della preghiera. La pace, infatti, è un dono di Dio che si deve chiedere incessantemente nella implorazione. La pace non è frutto solo delle cancellerie o di particolari abilità diplomatiche: è essenzialmente un "made in Cielo". Solo quando si è molto pregato, vale la spesa pagare pedaggi personali molto costosi. Diversamente anche i sacrifici più generosi sono sprecati.
E la maggiore debolezza?
L'organizzazione, che di proposito intendiamo mantenere fragile. Pax Christi vuole essere movimento anche nella povertà intrinseca che tale termine sottolinea… Abbiamo poche strutture, senza tessere e senza organigrammi complicati.
Ma il non avere tessere non è forse un modo per non misurarsi con le cifre?
Tutti i censimenti sono un po' sospetti perché, volere o no alimentano le superbie corporative. A noi non importa sapere quante sono le nostre forze. Quando un Movimento comincia a strutturarsi in forme molto articolate, tende poi ad autoconservarsi. Noi siamo convinti che, finché Pax Christi si manterrà nella leggerezza organizzativa, sarà anche più incisiva la sua azione.
Chi, invece della fionda di Davide, preferisce la corazza di Saul... deve perdere molto tempo a lucidarla.
Quali sono le principali urgenze del mondo cattolico d’oggi?
Quelle che si riferiscono alla qualità della vita, da una parte. E qui c'è tutto il discorso sui "sistemi di significato" da riproporre al mondo, mai come oggi così assetato di "senso". La saldatura, dall'altra. Mi spiego: noi, credenti in Cristo morto e risuscitato, non siamo riusciti mai a comporre pienamente la Parola di Dio e il vissuto concreto, la testimonianza personale e la progettualità sociale, l'impegno locale e i mutamenti planetari, la carità spicciola e la solidarietà politica. Se non saldiamo queste cesure, ogni nostro impegno sarà sempre affetto da un forte tasso di riduzionismo o antropologico o teologico. E il mondo non volgerà mai lo sguardo a "Colui che è stato trafitto" (Gv 19,37).
Quali persone e quali letture hanno determinato ciò che lei è?
Sono stato sempre in mezzo alla gente che soffre e ho sentito il travaglio dei poveri che lottano per vivere, anzi per sopravvivere. Sono stati gli anonimi, perciò, a trasmettermi il gusto dell'impegno, e il sapore delle cose essenziali.
Quanto alle letture, non dico nulla, perché, abituati come siamo a giudicare la bottiglia dall'etichetta, c'è pericolo che non si assaggi il vino perché insospettiti dalle indicazioni di marca. Lascio indovinare a voi. Nella speranza di sentirmi dire che tra i libri che mi hanno formato... c'è il Vangelo.
Quando era piccolo, che cosa avrebbe voluto fare da grande?
Sono entrato molto presto in Seminario, e quindi ho pensato da sempre che, divenuto sacerdote, avrei potuto aiutare la gente a trovare ragioni forti per vivere. Prima ancora, mi sarebbe piaciuto fare il falegname, perché sono di origini molto umili, tanto che per continuare gli studi ho dovuto contare sull'aiuto sia del parroco che della gente del mio paese.
Quali interessi coltiva, nel tempo libero?
Oggi considero come tempo libero l'andare tra la gente, nelle scuole, nelle assemblee, nelle parrocchie. Questa non è mai una fatica per me. Anche perché mi libera dal peso ossessionante del telefono e del campanello di casa che squilla ogni momento.
Che cosa la rende più contento, oggi, nel ripensare a tutta la sua esperienza?
Ricevere lettere che mi testimoniano la vicinanza e l'incoraggiamento di persone umili che, avendomi conosciuto in qualche incontro, si sono sentite aiutate dalle mie parole, o che, a loro volta, mi assicurano il loro aiuto attraverso la preghiera.
E di che cosa, invece, si affligge di più?
Mi fa soffrire molto l'impossibilità di giungere a dare una mano a tutti. Ho un'agenda sovraccarica di persone che chiedono una visita, un sostegno, un appuntamento, del denaro, una soluzione ai loro problemi... Si vorrebbe avere occhi e mani per ognuno, ma non si riesce, e questo è il rammarico più grande.
Qual è la domanda che si pone più frequentemente?
C'è un passo di Isaia che dice: "Sentinella quanto resta della notte?" (Is 21,11). È l'interrogativo che mi pongo spesso anch'io. Per quanto tempo ancora, cioè, dobbiamo continuare a batterci? In questa lotta contro le forze perverse che opprimono l'uomo, c'è un traguardo che si avvicina, o siamo destinati a giocare interminabili tempi supplementari che si aggiungono l'uno all'altro senza fine? Ci sarà un fischio finale che chiuderà la partita? Gli orizzonti della Terra Promessa tarderanno ancora a delinearsi? E noi li varcheremo? O ci tocca indicarli soltanto, come accadde a Mosé?
Lei si sente un leader?
No, se per leader si intende protagonista o capo carismatico. Tutti, però, dobbiamo divenire punto di riferimento per i viandanti che camminano con noi. Se infatti, come cristiani, siamo chiamati a metterci alla sequela di Cristo, sul passo degli ultimi, ne viene di conseguenza che, per coloro che sulla strada ci stanno dietro, ognuno di noi deve divenire elemento di raccordo con Cristo che cammina più avanti. L'uso della parola leader, in questo senso, mi sta bene.
Quali attese e speranze ha riguardo al Sinodo dei vescovi sulla vocazione e la missione dei laici?
Adopero una espressione che può sembrare oscura a primo colpo, ma mi sembra efficace e sintetica: mi auguro che dalle riflessioni sinodali esca fuori la figura del laico, come colui che porta la veste battesimale nell'officina e la tuta di lavoro davanti al battistero.
Come descriverebbe se stesso, in trenta parole?
Un buono a nulla. Ma capace di tutto, perché consapevole che, quanto più ci si abbandona a Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta attorno. ==>> [torna alla pagina iniziale]
Venerdì 21 aprile 1995
Memoria di don Tonino,
il vescovo col grembiule
Eugenio Melandri
Questa sera non vi presenterò un profilo completo di Don Tonino, anche perché ritengo che ci vorranno degli anni per capirlo fino in fondo e perché in questi due anni che ci separano dalla sua morte, leggendo e rileggendo i suoi scritti ci stiamo accorgendo che al di là della forma umana carica di amicizia e solidarietà con cui sapeva porgere il suo messaggio c'era in lui una sapienza che era frutto di studio, di ricerca, e di Spirito Santo. Cercherò solamente di ricordare alcuni flash della sua vita ripercorrendo alcuni incontri ed occasioni che più volte nella mia vita avrei voluto rivivere.
Ho abbracciato Don Tonino l'ultima volta sul molo di Ancona di ritorno da Sarajevo, ormai scavato nel volto per la sofferenza ma con la sua carica intatta di gioia, entusiasmo, amicizia, capacità di andare avanti, capacità di credere in un'utopia, di credere nel futuro: proprio Lui che sapeva che quel futuro gli si stava sempre più accorciando.
E vorrei partire proprio da qui, da questo viaggio-pellegrinaggio che tanto ha colpito Don Tonino fino al punto che uno degli ultimi messaggi che ci ha lasciato prima di morire è stato quello per la ex-Jugoslavia martoriata.
Di quel viaggio ricordo soprattutto la capacità che aveva di sdrammatizzare i momenti di tensione e la capacità che aveva di leggere le cose, i piccoli avvenimenti; leggeva le piccole cose che ci capitavano come un dono stupendo che ci veniva offerto. Aveva definito il nostro arrivo a Sarajevo miracoloso perché “l'ONU dei ricchi” non poteva entrare a Sarajevo dopo le 4 di sera mentre “l'ONU dei poveri”, noi, ci eravamo riusciti!
Ricordo la stessa mattina quando siamo andati insieme con lui nella Cattedrale a pregare. C'eravamo divisi in tre gruppi: lui nella Cattedrale Cattolica, Monsignor Bettazzi guidava il gruppo che pregava nella Chiesa Ortodossa mentre un altro gruppo era andato a visitare la Moschea Mussulmana. Dopo aver pregato nella cattedrale siamo usciti per strada e pioveva: in quel nel momento una signora è uscita da casa sua e ci è venuta a portare il caffè. La notte avevamo dormito tutti insieme nella grande palestra: Tonino aveva il cancro e spesso di notte si svegliava, però aveva voluto dormire con noi.
Al mattino avevamo bevuto un te che mi disse (e quante volte l'ha ripetuto!), essere il te più buono di tutta la sua vita perché era stato fatto per noi, in una città senza acqua, senza luce, durante la notte, dagli abitanti di Sarajevo.
Ricordo ancora le cose che ci disse in quell'enorme teatro buio in cui solamente le luci di tante candele riuscivano a farci vedere l'uno con l'altro, quando, parlando, toccò il cuore di tutti come sapeva fare lui.
Avevo incontrato per caso Don Tonino. Io ero da poco direttore di "Missione Oggi" e arrivavano alla redazione della rivista molti settimanali diocesani: ne arrivava anche uno che si chiamava "Luce e vita" e che sistematicamente io non leggevo. Mi capitò per caso, ricordo, di buttare una volta gli occhi su questo settimanale e lessi il titolo: "Nuovo vescovo a Molfetta". Allora per pura curiosità presi il giornale per vedere chi era questo vescovo e rimasi fortemente impressionato dalla lettera che aveva mandato ai suoi nuovi fedeli con i quali avrebbe dovuto condividere il resto della sua vita. In particolare mi impressionò il suo linguaggio : parlava di barche che dovevano lasciare la riva, parlava di tende che si dovevano costruire insieme, parlava un linguaggio che non pareva il linguaggio solito dei vescovi o il linguaggio solito che ascoltiamo nelle prediche. Mi colpì molto una piccola frase che Don Tonino aveva detto quando aveva ricevuto alcuni preti della diocesi della sua parrocchia e aveva detto: "Verrò presto a Molfetta perché voglio vedere questa moglie che mi ha dato il Vaticano senza prima farmela conoscere”.
E così è cominciata per me una sorte di consuetudine: da allora infatti non ho più smesso di leggere “Luce e vita” perchè mi incuriosiva vedere quello che questo vescovo avrebbe fatto. A Natale lessi una lettera che aveva mandato a Gesù Bambino. Sapete che Tonino aveva il vizio di mandare lettere a tutti: scriveva alla Madonna, a S. Giuseppe, ad Abramo, a Isacco o Rachele, a tutti e quella lettera mi colpì perche’ scriveva a Gesù Bambino raccontandogli tutti i problemi della diocesi. Presi allora mano il telefono e lo chiamai anche se non lo avevo mai sentito prima e gli chiesi il permesso di pubblicare su "Missione oggi" questa lettera. Per prima cosa mi disse di essere un mio lettore e questo mi fece molto piacere, accettò naturalmente la mia richiesta e da allora iniziò un rapporto di stretta amicizia.
Un giorno mi vidi arrivare per posta un pacchetto con un libro: era il primo pastorale di Don Tonino per la diocesi di Molfetta intitolato "Alla sequela di Cristo al passo degli ultimi". Con una dedica che sapeva anche di rimprovero da un certo punto di vista: "A Eugenio, che vuole camminare con gli ultimi, ma va sempre col passo dei primi". E partì così anche perché Lui era diventato presidente di "Pax Christi" questo impegno comune per la pace, per la lotta contro gli armamenti e per ottenere, al riguardo, una legislazione chiara che togliesse il traffico clandestino di armi, e limitasse il commercio dall'Italia.
Tutta quella campagna che andò sotto il nome di “campagna contro i mercanti di Monaco” mise in luce la capacità profetica di Don Tonino e dall'altra parte la sua capacità di mediazione. Molte volte ci chiedevamo: ”Ma perché stiamo qui a discutere su una legge che regolamenti il commercio delle armi quando dovremmo dire che le armi vanno distrutte? Ma perché dobbiamo cercare di mettere un articolo dietro l'altro per regolamentare qualcosa che è una vergogna per tutti noi. Però nello stesso tempo quante volte ci siamo detti che era opportuno fare anche questa battaglia perché ce n'era bisogno, se non altro di far fare dei passi avanti anche alla politica. E ricordo quella che chiamavamo la “via crucis dei vari gruppi parlamentari” a presentare le nostre proposte. Ricordo la loro difficoltà a capire. Ricordo che da parte di molti politici anche cattolici si rispondeva che questa era utopia e che non si poteva portare utopia nella politica. Ricordo che un deputato gli disse "se lei fosse stato vescovo ai tempi del nazismo avrebbe favorito il nazismo col suo pacifismo”. Ma ricordo anche la sua capacità di rispondere con brio e profezia alle provocazioni che venivano. Un giorno in commissione di difesa della Camera mentre discutevamo di questo a un certo punto Don Tonino mise tutti a tacere dicendo: "Ma che cosa state a dire? Noi siamo qui a proporre di bloccare solamente i matti più matti di questo manicomio quando si dovrebbero bloccare tutti i matti, e voi ci dite di no anche a questo!”. Scoprimmo un po' alla volta così questo vescovo che sapeva parlare di pace, di armi, di politica, di pace in modo concreto; sapeva prendere delle posizioni concrete sempre a partire dalla parola di Dio, dalla sua fede, dal messaggio che lui come vescovo doveva portare.. Mi ricordo una volta che mi raccontò una predica che aveva fatto il giorno in cui c'era il Vangelo della moltiplicazione dei pani. Mi disse che l'aveva colpito il fatto che Gesù fece sedere tutti su un prato verde. E lui aveva fatto l'omelia di quella domenica partendo da questo verde; dicendo che il prato, i campi, dovevano essere il luogo della convivialità. Dovevano essere il luogo dove ci si siede insieme per mangiare lo stesso pane, oppure doveva essere il luogo da cui partire per fabbricare, per fare il pane comune. In Puglia in quel periodo infuriava la polemica sugli F16 e sui campi militari. Esponendosi in prima persona durante l’omelia disse queste parole: ”Non rispondiamo al Vangelo se facciamo calpestare i nostri prati dai cingoli dei carri armati o dalle ruote degli F16”. E come potete immaginare tutto questo gli costò insofferenza, incomprensione, spesso anche l’ invidia di molti.
Quando prese con forza posizione contro la Guerra del Golfo e, dopo essere intervenuto ad una puntata della trasmissione Samarcanda, se ne tornò a casa a Molfetta, trovò dei manifesti contro di lui appesi in città.
Quando parlando dei poveri, della scelta degli ultimi si sentì a volte rispondere "Ha parlato il tribuno della plebe" oppure quando a un certo punto si trovò isolato dai capi dell'esercito, dai militari, ecc..., perché veniva ritenuto come un loro nemico.
Ricordo quando lo chiamarono a benedire, non so che cosa d'armato, e, alla fine disse: "Evviva l'esercito purché armato di strumenti musicali". Tutti questi episodi bloccarono un po' il rapporto di queste forze nei suoi confronti ma incontrò grosse difficoltà anche all’interno della Chiesa.
Io credo che Don Tonino sia stato amato da tutti in Italia, anche da coloro che non condividevano le sue idee perché non si poteva non amare quest'uomo. Bastava guardarlo in faccia, ascoltare le cose che lui diceva, condividere una piccola esperienza con lui, andarlo a trovare alla sua casa sempre con la porta aperta o anche solo sperimentare quella caratteristica che è rimasta tipica poi nella sua famiglia: un ospite non se ne deve mai andare via senza un regalo. Tutte le volte che andavo a trovarlo me ne tornavo a casa con un piccolo grande regalo o con qualcosa che significa la gioia che lui aveva avuto nell'incontrarti. continuano a fare così.
Eppure ha incontrato tante difficoltà. E' stato non capito anche all'interno della chiesa. Alcune volte aveva ricevuto richiami formali e informali per le sue prese di posizione. Oppure quando per alcune sue prese di posizione, effettivamente fuori dalla norma, almeno dalla norma tradizionale, gli fu mandato un visitatore apostolico. Ad esempio era un po' fuori dalla norma il fatto che di fronte alla diatriba se degli appartamenti appartenessero a una parrocchia o a un'altra parrocchia, la risposta che lui diede fu questa: "Prima cosa diamone una parte ai più poveri della città e poi per il resto decideremo". Voi capite che alienare i beni della chiesa in questo modo era qualcosa che andava fuori dalla tradizione.
E quante volte ho sperimentato parlando con lui la solitudine, nonostante avesse tanti amici intorno.
Cosa c'era dietro Don Tonino? Vedete, io sono stato amico di un sacerdote che aveva un motto, che mi pare estremamente importante diceva: "Don Abbondio gli puoi mettere tutto lo Spirito Santo chi vuoi, ma rimane sempre don Abbondio." Per me questo vuol dire che dietro a un'umanità così ricca ci sta senz'altro alla fine Dio, ma ci stanno un papà, una mamma, una famiglia, un ambiente da cui è venuto fuori. E Don Tonino sapeva questo, il ricordo della mamma, dei genitori, del suo ambiente, del rapporto col suo mare, con la sua terra, col suo meridione, col suo sud l'avevano plasmato così. Aveva un temperamento estremamente ricco, forte, intelligente. Ma dietro ci stava, e io me ne sono accorto in due occasioni soprattutto, una fede semplice, ma enorme nei confronti di Dio. Ci stava il fatto che lui si fidava. Se voi andate a vedere i suoi interventi, il suo impegno di annunciatore, evangelizzatore di pace, se voi andate a vedere tutti i suoi interventi, anche su "il Manifesto", a "Samarcanda", nella Commissione di difesa delle Camere, non è che citasse la frasetta del Vangelo, come tante volte può apparire per dimostrare che si parte dalla fede, ma si vedeva che partiva dalla fede perché diceva le cose più assurde credendoci.
Ad esempio quando lui a Samarcanda ha detto che un pilota del bombardiere non deve ammazzare la gente, ma avrebbe dovuto non ubbidire agli ordini e non buttare le bombe, diceva questo perché sapeva che "Dio può toccarlo” perché credeva che la pace, la non-violenza, l'assoluta mancanza di violenza è capace di cambiare i lupi in agnelli. Dietro a questo c'era la fede profonda di un credente che sa che la pace c'è, e deve solamente scoprirla, non deve conquistarla. Certo c'è bisogno di lottare per la pace, ma chi crede in Dio sa che Dio già ha immesso la pace in questo mondo. E proprio per questo la pace è possibile, c'è già anche se non è ancora totalmente realizzata. Allora a partire da questa enorme fede diventava capace di osare tutto per la pace. Don Tonino se lo si vedesse da un punto di vista esclusivamente politico, si potrebbe dire è stato un uomo di pace spregiudicato . Se lo si guarda da un punto di vista suo, di uomo di fede, di vescovo, di annunciatore del Vangelo, ci accorgiamo che Don Tonino è stato uno che ha creduto fino in fondo che il Dio della pace non viene meno alle sue promesse. Quindi poteva proporre tutte le cose anche quelle che potevano apparire le meno concrete, le più utopiche perché sapeva che la Parola di Dio non viene meno e che Dio non manca quando fa le sue promesse. Ecco allora che la promessa del Regno si deve realizzare! Ma anche un altra cosa mi pare di vedere forte dietro questa sua esperienza: il fatto di essersi accorto che il volto di Dio e l'annuncio della Buona Notizia passano attraverso l'incontro e l'annuncio con la faccia dei poveri. Perché il fatto che avesse in casa degli sfrattati, che fosse l'unico a riuscire a calmare un ubriaco, il fatto che avesse passato una notte intera insieme ai marocchini sfrattati sotto la tettoia di un distributore dicendo: "Non torno a casa se non date una casa a loro" faceva diventare le cose più complesse le più semplici, normali le cose apparivano le più enormi.
Alla domanda: "E' più normale per un cristiano accogliere o cacciare? E' più normale per un cristiano stare vicino ai poveri o allontanarli?" Don Tonino diventava colui che ti faceva vedere la logica del Vangelo. La vedevi in faccia perché la vedevi vissuta, ma nella sua più assoluta normalità e nella capacità di viverla giorno per giorno, ora per ora, nella quotidianità. Non c'è niente di più eroico che essere santi quotidianamente. L'ultima riflessione deriva proprio dalla sua morte. Penso che per un credente la sua morte sia invidiabile perché è stata la morte di uno che ha sigillato con la capacità di morite la capacità che ha avuto di vivere. E proprio per questo io credo che la sua vita non è stato un bluff, perché l'ha autenticata, l'ha resa vera con una capacità di morire che ci ha insegnato tutto. Mi ha commosso moltissimo sapere che stava ad ascoltare alla finestra i giovani che gli cantavano "Freedom". Così come gli ultimi messaggi che ha mandato sono stati messaggi che hanno dato un colore nuovo a quello che sto dicendo, e a quello che ho detto il giorno del suo funerale. Stavamo celebrando la messa e ognuno ha detto quello che gli veniva in mente in quel momento, e io dissi : "Non c'è bisogno che Don Tonino venga proclamato Santo; se avverrà sarà la cosa più bella; ma l'ha già fatto santo la gente, l'ha già fatto santo la fila di gente dei più poveri, la gente di ogni condizione sociale che è andato a trovare quando è morto e la gente che l'ha portato in trionfo il giorno del suo funerale. Si scopre così che è vero che il giorno della morte è il giorno della nascita e che a partire da quel giorno della nascita per noi che abbiamo avuto la fortuna, il dono di averlo conosciuto, a partire da quel giorno Don Tonino non diventa solo un amico che ti è stato accanto, ma deve diventare uno stimolo, uno sprone ad andare avanti in maniere nuova e ha tentare che noi possiamo imitarlo. ==>> [torna alla pagina iniziale]
DON TONINO BELLO
Politica, profezia e poesia della pace (*)
Tonio Dell'Olio
Il pianeta variegato e creativo dei movimenti per la pace ha avuto negli anni ottanta e inizi novanta un infaticabile animatore nella persona di don Tonino Bello.
Ordinato vescovo il 30 ottobre 1982, fece il suo ingresso nella diocesi di Molfetta - Ruvo - Giovinazzo - Terlizzi il 21 novembre dello stesso anno. Il suo ministero pastorale si distinse per il coraggio profetico con cui fu capace di indicare le strade per la costruzione di una pace che non sfuggisse alle ragioni della nonviolenza cristiana. Non mancano in lui, a partire da una visione della pace che sa sempre coniugarsi con il servizio e la solidarietà ai più poveri, una visione di Chiesa che si informa più strettamente al Vangelo. Rimane famosa la sua definizione della "chiesa del grembiule", di una comunità cristiana che sa chinarsi umilmente sui piedi degli uomini senza tralasciare di analizzare in profondità le cause delle nuove povertà. Il suo servizio, pur non rifuggendo l'azione particolare, anzi privilegiando quella "teologia del volto" che vuol dire incontro e accoglienza dell'altro, conosce le fasi della denuncia e dell'annuncio come momenti dinamici di una stessa missione che si propone all'intera comunità. D'altra parte a ragione si potrebbe oggi parlare di una ecclesiologia fondata sul Vangelo del servizio e della pace che egli ha proposto ed incarnato negli ambiti pastorali cui è stato chiamato a servire. I discorsi pronunciati in occasione dell'annuale Messa crismale ed il Progetto Pastorale approntato per la sua diocesi sono un esempio di quella prospettiva e costituiscono un utile approfondimento al riguardo.
Nel 1985 col consenso della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana fu chiamato a succedere a Mons. Luigi Bettazzi vescovo di Ivrea, nella guida di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace. Anche qui fece subito intendere che avrebbe guidato il Movimento con la testimonianza coraggiosa di vita e con la parola carica di calore umano e di profezia. La sua azione ha sempre tratto energia, vita e motivi da una spiritualità saldamente ancorata alla Parola di Dio. Forse anche per la sintonia con la spiritualità francescana (faceva parte dell'Ordine Francescano Secolare) egli amava lasciarsi guidare dal vangelo "sine glossa", senza sconti sulla verità né diluizioni o prudenze carnali. Con una delle sue originali ed appropriate intuizioni linguistiche egli tracciava le linee per una spiritualità di quello spessore definendola "contemplattiva".
Pur così radicate nella Parola, le sue riflessioni hanno trovato accoglienza e comprensione anche presso persone di culture e formazione ideologica differenti tanto da farne apprezzare la proposta franca e l'azione profetica ben oltre i confini della chiesa cattolica.
Non è per nulla facile riuscire a definire ciò che ha caratterizzato il suo spendersi per la pace ma ci pare di poter raccogliere lo stile inaugurato dalla sua testimonianza nella politica, nella profezia e nella poesia della pace.
La beatitudine evangelica degli operatori di pace diventa ben presto il discrimine per valutare e promuovere azioni concrete, mai approssimate ma sempre frutto di una lettura attenta della realtà. In questo senso vanno lette le sue prese di posizione nel corso di conflitti armati come quelli del Golfo e della ex-Jugoslavia, l'organizzazione della protesta contro l'ipotesi del trasferimento degli aerei F 16 nella base di Gioia del Colle, la lotta contro il tentativo di sottrarre migliaia di ettari di terreno a contadini ed allevatori della Murgia barese per farne un enorme poligono di tiro, la sua appassionata adesione al cartello "Contro i mercanti di morte" che portò nel 1990 all'approvazione della Legge 185 che regola in maniera restrittiva e democratica il commercio delle armi italiane e tante altre azioni nella direzione dell'affermazione e della crescita di una cultura di pace.
Molti dei gesti che hanno accompagnato la vita di questo vescovo hanno le caratteristiche della profezia in quanto partono da una condivisione autentica delle contraddizioni e delle miserie della nostra epoca, riescono a leggere nella profondità e nella trasparenza degli avvenimenti della micro come della macro storia, ma al contempo sono capaci di indicare una strada da seguire. In questo senso l'accoglienza in diversi tempi di sfrattati, albanesi e africani immigrati nella sua casa, così come gli interventi e le omelie che accompagnano e scandiscono il cammino della Diocesi, la riflessione in occasione di eventi drammatici (l'uccisione del sindaco di Molfetta, l'assassinio di una guardia campestre, la commemorazione di Mons. Romero ed altri...) segnano una strada per cristiani ed uomini di buona volontà. Inoltre in don Tonino Bello risalta la capacità di strappare alla banalità ogni avvenimento fino a coglierne la filigrana più intima. La modalità del profeta la si scorge anche nel momento in cui egli accarezza la figura biblica della sentinella che, scrutando l'orizzonte, riesce a cogliere prima degli altri l'incalzare dell'alba sin dalla prima stella del mattino.
Infine alcune considerazioni sul linguaggio. La sua parola assume tonalità poetiche, oseremmo dire liriche. Per la verità forse non c'è genere letterario e forma di linguaggio che in don Tonino non abbia trovato luogo. Rimangono toccanti e provocatorie nello stesso tempo alcune pagine di fraterno dialogo con i personaggi biblici, come l'immaginario epistolario con persone che emergono dalla realtà come spine nel fianco debole della storia. Le sue riflessioni sulla figura e le virtù di Maria e le preghiere da lei ispirate e a lei rivolte riescono ad essere comprensibili a tutti pur nell'eleganza del linguaggio. Non di meno egli ricorre alla metafora e alla coniazione di nuovi termini quando non al gioco dei vocaboli, nel momento in cui deve parlare della pace e proporne le strade concrete. A questo proposito arriva ad esaltare l'arte, la musica e la poesia come forme privilegiate dell'annuncio della pace. (vedi dialogo con Saul).
Intuizione, profezia e coraggio nel proporre una pace mai disincarnata ma sempre coniugata con la giustizia, con la verità, la salvaguardia del creato, la nonviolenza, gli valsero non poche incomprensioni sia nel mondo laico come nel contesto ecclesiale che spesso gli rimproverava ingenuità o spregiudicatezza. Alla prova dei fatti, come al vaglio del tempo, la storia che mostra gemme di primavera pur tra le fatiche e i dolori della gestazione, dà ragione delle sue prese di posizione e degli orizzonti intravisti. Il 20 aprile 1993 a soli quattro mesi di distanza dalla partecipazione alla missione di pace a Sarajevo (missione di cui era stato anche l'ispiratore), un cancro indomabile lo ferma, i poveri e gli operatori di pace lo piangeranno sinceramente certi di aver perso troppo prematuramente (era nato ad Alessano in provincia di Lecce il 18 marzo 1935) un testimone della pace intesa, e solo in parte realizzata, come "convivialità delle differenze".
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(*) Tonio Dell'Olio, "Bello Mons. Antonio", Dizionario di Teologia della pace, Bologna, Edizione Dehoniane, 1997 ==>> [torna alla pagina iniziale]