MAZZOLARI- testi - parrocchia stagno lombardo

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DON PRIMO MAZZOLARI
IL PARROCO DI BOZZOLO
Profilo biografico di don Primo Mazzolari
(1890-1959)


di Walter Montini *


     Le origini contadine. Il seminario
Primo Mazzolari nasce a Boschetto, una frazione di Cremona, il 13 gennaio 1890, da una famiglia di agricoltori. Nel 1912, il 24 agosto, dopo aver frequentato il seminario di Cremona, viene ordinato prete nella chiesa parrocchiale di Verolanuova, paese della Bassa bresciana dove la famiglia si era trasferita agli inizi nel 1900.

    I primi incarichi pastorali e la prova della guerra
Don Primo viene inviato come vicario cooperatore prima a Spinadesco (Cremona) e poi nella parrocchia natale del Boschetto.
Nell’autunno del 1913 è nominato professore di Lettere nel ginnasio del seminario. Svolge tale funzione per un biennio, durante il quale utilizza le vacanze estive per recarsi in Svizzera, ad Arbon, come missionario dell’Opera Bonomelli che assiste gli emigranti italiani che rimpatriano dalla Germania. Dopo l’impiego negli ospedali militari di Genova e di Cremona, nel 1918 segue, per nove mesi, come cappellano militare, le truppe italiane inviate sul fronte francese. Rientrato in Italia, svolge altri incarichi con il Regio Esercito, compreso quello di recuperare le salme dei caduti nella zona di Tolmino. Nel 1920 trascorre un periodo di sei mesi in Alta Slesia, insieme alle truppe italiane inviate per mantenere l’ordine in una zona forzatamente ceduta dalla Germania alla neonata Polonia.
   
   Il periodo di Cicognara. L’opposizione al fascismo
Nel 1921 il vescovo di Cremona monsignor Giovanni Cazzani lo nomina delegato vescovile nella parrocchia della Santissima Trinità di Bozzolo. Da qui viene trasferito come parroco a Cicognara, a due passi dal fiume Po, paese con una forte connotazione socialista, dove rimane per un decennio, fino al luglio 1932.

   La “promozione” a Bozzolo
Nel 1932 viene trasferito di nuovo a Bozzolo, questa volta come parroco. Gli anni Trenta sono molto operosi e fecondi. Nel 1934 pubblica La più bella avventura. Nel 1938 appaiono altri suoi testi: Il samaritano, I lontani, Tra l’argine e il bosco; nel 1939 viene pubblicata La Via Crucis del povero. Le opere successive finiscono sotto la scure della censura. Le autorità fasciste attaccano, tra le altre, nel 1941,Tempo di credere. Nel 1942 esce Anch’io voglio bene al papa.

   Guerra e Resistenza. La clandestinità
Nel 1943, alla caduta del fascismo e all’annuncio dell’armistizio (8 settembre), don Primo prende contatti con vari ambienti e personalità cattoliche e stringe rapporti con la resistenza. Nel luglio 1944 subisce un arresto da parte del Comando tedesco di Mantova. Liberato e richiesto di restare a disposizione, preferisce passare alla clandestinità a Gambara, un paese in provincia di Brescia. Lascia così per qualche tempo Bozzolo, ritornandovi di nascosto.

   Il dopoguerra
Nel 1945 pubblica Il compagno Cristo. Vangelo del reduce. Scrive in quegli anni molti articoli sui giornali cattolici di Cremona, Bergamo, Genova, collaborando, tra l’altro, ai giornali Democrazia e L’Italia. Continua a interessarsi dei “lontani”, particolarmente dei comunisti. Nelle elezioni del 1948, Mazzolari appoggia decisamente la Dc.

   La stagione di Adesso
Il 15 gennaio 1949 esce il primo numero del quindicinale Adesso. Al giornale collaborano don Lorenzo Bedeschi, padre Aldo Bergamaschi, il sindaco socialista di Milano Antonio Greppi, e tanti preti e laici più o meno noti.
Il carattere innovativo e coraggioso di Adesso provoca l’intervento vaticano, così che nel febbraio del 1951 il giornale deve cessare le pubblicazioni. In luglio arrivano altre misure personali contro don Mazzolari: la proibizione di predicare fuori diocesi senza il consenso dei vescovi interessati e il divieto di pubblicare articoli senza preventiva revisione ecclesiastica.
Nel novembre dello stesso 1951 Adesso riprende le pubblicazioni. Don Primo collabora ancora, utilizzando spesso pseudonimi. Proprio alcuni suoi interventi sul tema della pace e dichiarazioni di disponibilità al dialogo provocano nuove indagini disciplinari: nel 1954 riceve da Roma l’ordine di predicare solo nella propria parrocchia e il divieto di scrivere articoli su “materie sociali”.

   Gli ultimi anni
Negli anni Cinquanta pubblica altre opere. Nel 1952 esce La pieve sull’argine, un ampio racconto, fortemente autobiografico, che ripercorre le vicende e le vicissitudini di un prete di campagna negli anni del fascismo. Nel 1955 appare, anonimo, Tu non uccidere, in cui affronta la questione della guerra. Nel novembre del 1957 l’allora arcivescovo di Milano cardinale Montini lo chiama a predicare alla Missione di Milano; il 5 febbraio 1959 papa Giovanni XXIII lo riceve in udienza in Vaticano, definendolo «la tromba dello Spirito Santo in terra padana».
Ormai però la salute del parroco di Bozzolo è minata e logorata. Colpito da emorragia cerebrale mentre predica alla messa domenicale del 5 aprile, don Primo Mazzolari muore il 12 aprile 1959, a Cremona.

(*) pubblicato in © 30Giorni -> Marzo 2009   ==>> [torna alla pagina iniziale]

© 30Giorni -> Marzo 2009
di Paolo Mattei
Don Primo Mazzolari.
Il sacerdote della pieve sull’argine

Il dono della fede, «la più povera delle messe», le polemiche per i suoi articoli e libri,
l’affetto del suo vescovo, gli incontri con Montini e papa Giovanni XXIII


     Il 28 gennaio del 1959, don Primo era sereno. Nonostante tutto. Nonostante il rumore che si era scatenato intorno alla sua persona: forse vi era abituato. O forse no. D’altronde erano ormai più di quarant’anni che “il predicatore della Bassa mantovana” si portava quotidianamente sulle spalle l’oneroso fardello di polemiche che le sue parole generavano nella Chiesa e nel mondo.
     «I classici della predicazione cristiana», diceva, «son per me le Sacre Scritture, i Padri, e gli scritti dei santi e dei mistici, la cui conoscenza porterebbe consistenza e ampiezza alla dottrina. La teologia fornisce le cognizioni, l’anima bisogna trovarla altrove». Da molti anni il predicatore don Primo Mazzolari rispondeva alle chiamate che gli arrivavano ormai da tutta Italia. Aveva sempre desiderato conversare «con autorità caritatevole» e «con senso paterno», era convinto che fosse necessario «sentirsi vicina e cara la gente a cui si parla, leggerle nell’animo». Aveva sempre dialogato con tutti, senza pretese o preclusioni ideologiche e religiose, perché sapeva che «la fede, uno non se la può dare, né può darla. Posso farla conoscere, renderle testimonianza, ma “l’olio della lampada” viene dal “Padre dei lumi”. È davvero sorprendente che, mentre tutto si può dare, perché tutto è messo nelle mani dell’uomo affinché ne faccia fraternamente dono, nessuno può dare, all’infuori di Dio, la fede». «Si crede», continuava don Primo, «perché si ama (credere senza amare sarebbe l’inferno) e il nostro amore, che fa da sostegno all’assenso di fede, non è che una risposta: la risposta a un appello, a un’iniziativa di Dio che, sotto il dolce e misericordioso nome di grazia, dispone l’uomo alla “novità”». Le sue parole avevano saputo suscitare non solo polemiche, ma anche fervori e speranze in molti uomini, cristiani e non cristiani.
     Quel mercoledì di fine gennaio 1959, don Primo Mazzolari, sessantasettenne prete originario di Boschetto, una frazione in provincia di Cremona, era sereno anche perché stava per incontrare un uomo di cui conosceva l’intelligenza e il paterno affetto nei suoi confronti: Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, che più di un anno prima gli aveva chiesto di predicare durante la Missione cittadina, che si tenne nel novembre del 1957 nella metropoli ambrosiana. E glielo aveva chiesto in uno dei tanti frangenti tempestosi in cui don Primo si era venuto a trovare, appesantito quella volta da un ennesimo richiamo del Sant’Uffizio per via di certe sue dichiarazioni in favore della libertà di voto dei cattolici francesi e della sua collaborazione con un quindicinale, Adesso, di cui era l’ispiratore da quasi dieci anni.
     Don Primo aveva voluto vedere Montini dopo aver saputo che la Conferenza dei vescovi lombardi era intenzionata a sconfessare pubblicamente Adesso, la cui sede amministrativa si trovava a Milano. La linea e i “toni” del quindicinale non erano condivisi da molti di quei presuli, particolarmente irritati dalla recente pubblicazione di una Lettera ai vescovi della Valle Padana, che li esortava a schierarsi accanto alle lotte sociali dei contadini e dei braccianti, e anche dalla divulgazione dell’inedito Discorso ai vescovi – «difensori della città», «dei poveri» e «della libertà» – pronunciato dal cardinal Suhard nell’Avvento del 1948. Forse pure la recensione di Adesso – positiva, sì, ma non priva di riserve – a Esperienze pastorali di don Milani aveva riscosso scarso successo nell’episcopato lombardo.
     Don Primo avrebbe parlato al cuore buono e alla vivida intelligenza di Montini. Qualche giorno prima di quell’incontro, gli aveva scritto: «Se non fosse intervenuto Vostra Eminenza, con una bontà di cui Vi sarò sempre riconoscente, chiamandomi alla Missione di Milano, nessuno... si sarebbe accorto che non si può condannare a vita un prete che ha sempre voluto bene alla Chiesa più che a sé stesso».
     Montini conosceva bene l’uomo e la sua instancabile attività di predicatore. Ma anche la sua silenziosa e umile vita di parroco, spesa fra la gente semplice di piccole pievi sugli argini del Po, la sua storia di prete di campagna che desiderava – disse una volta lo stesso don Primo – offrire ai propri parrocchiani una testimonianza fatta «più di silenzi che di proteste, di preghiere più che di violenze, di attese più che di assalti».

     «Ripetitore delle parole di Gesù»

     Era infatti il 1° gennaio del 1922 quando monsignor Giovanni Cazzani, vescovo di Cremona, lo nominò parroco a Cicognara; in quel paesino sulla riva sinistra del Po si sarebbe fermato per dieci anni. Vi risiedevano poco più di mille anime, molte delle quali, esasperate dalla miseria, si erano date da fare per cacciare il parroco precedente, non troppo amato da quella gente probabilmente più per la gestione poco generosa del pingue beneficio terriero di cui godeva la parrocchia che per il comunque diffuso anticlericalismo. Monsignor Cazzani era certo che don Primo avrebbe saputo orientarsi con agilità in un territorio ostile a tutto quanto assomigliasse anche lontanamente a un prete. D’altronde un paio di anni prima lo aveva spedito, come delegato vescovile, a Bozzolo, un paese di sentimenti socialisti e anticlericali, in cui, oltretutto, la popolazione era divisa fra due chiese tradizionalmente rivali. Qui don Primo aveva messo in atto il suo “stile pastorale”: niente associazionismo cattolico secondo il vecchio schema, per evitare ulteriori divisioni, e apertura massima verso tutti gli abitanti, a qualsiasi fede politica o religiosa facessero riferimento. Visitava tutte le famiglie, sia socialiste che cattoliche, guardava con simpatia alle lotte sindacali degli operai, condannava dal pulpito le prime violenze fasciste, aboliva le abituali tariffe del servizio liturgico, curava l’assistenza degli ammalati in ospedale. Ma interveniva di rado nelle riunioni dei parroci della zona. E in quella «città senza mura» – così don Primo amava definire la sua parrocchia –, diceva la messa, «il dono più importante»: «Non una messa pontificale, non una messa in basilica o in una abbazia benedettina, ma la più povera delle messe, celebrata dal più povero dei sacerdoti, la mia messa domenicale». Lì veramente non c’era bisogno di inventarsi nulla: «Nella messa non sono un inventore, ma un ripetitore... Devo quindi leggere la messa e il Vangelo com’è... Quando predico alla mia povera gente sono il ripetitore della parola di un Altro: devo ripetere quel che Gesù ha detto: non il mio Vangelo, ma il Vangelo di Gesù... Mi chino sul pane e ripeto le parole divine. Per queste parole ripetute tremando dal più povero dei preti nella più povera chiesa, Cristo prende posto tra la mia gente e con la sua presenza cambia volto a ognuno».
     Naturalmente fioccarono le critiche da parte dei clericali bozzolesi che disapprovavano la sua amicizia col sindaco socialista e il suo disinteresse per il Partito popolare di Sturzo al quale si ostinava a non aderire. Monsignor Cazzani aveva incominciato invece ad apprezzare la personalità del prete, cresciuto nel seminario della diocesi amministrata da Geremia Bonomelli – vescovo di idee cattolico-liberali e conciliatoriste – e ordinato nel 1912. Incominciava a volere bene al giovane sacerdote che alle soglie del primo conflitto mondiale era partito missionario tra i lavoratori italiani in Svizzera: là, in mezzo agli emigrati che rimpatriavano per l’incombente guerra, don Primo – venuto su durante gli anni della crisi modernista leggendo Hugo, Tolstoj, Duchesne, Péguy e affascinato dall’apertura ai “lontani” e ai poveri raccomandata alla Chiesa dal suo vescovo Bonomelli – s’era imbattuto in una miseria più profonda di quella in cui vivevano i contadini della campagna cremonese. Poi, nel corso degli anni successivi, avrebbe conosciuto lo strazio che la Prima guerra mondiale andava infliggendo nei cuori e nei corpi di civili e soldati. E pure il suo cuore fu subito straziato dalla morte del fratello Peppino, ucciso al fronte nel 1915. Così, nel 1916, scrisse nel suo diario: «Talvolta, quando son solo e penso all’inutilità della mia vita e all’abbrutimento a cui son condannato, piango e piango per ore intere, non però per tristezza ma perché portato naturalmente alle lacrime dal vedermi un po’ più simile a Gesù che in passato, e dalla commozione di soffrire direttamente con Gesù per i peccati miei e degli altri fratelli. Nei disegni della Provvidenza nulla è senza valore e senza scopo: e se né l’uno né l’altro ci si palesano, accettiamo con docilità i fatti nell’attesa di conoscere i significati».

     Ludit Deus in orbe terrarum

     «Il paganesimo ritorna e ci fa la carezza e pochi ne sentono vergogna». Don Primo appunta questa frase già nel 1922, pensando al sostegno sempre più convinto che molti cattolici davano al marciante regime. Lo guarda con preoccupazione da Cicognara. Nel 1929, dopo la firma dei Patti Lateranensi («ci sposeremo anche senza “volerci bene”»), così si confida a un amico: «Che cosa penso? Più niente, fuorché Ludit Deus in orbe terrarum. La vera politica, per fortuna nostra, si fa lassù, non da noi piccoli mortali, che più ci crediamo facitori di storia più diventiamo ridicoli».
     Nell’ambiente non facile di Cicognara sa conquistarsi la simpatia di molti, soprattutto di socialisti e di anticlericali. E anche a Cicognara, come già a Bozzolo, in seguito all’amicizia sorta tra il sacerdote e la gente del paese, accadono piccoli fatti che quasi sempre non piacciono non solo ai locali scherani del regime, ma anche ai clericali filofascisti. Infatti Mazzolari si associa da subito alle ribellioni politico-economiche del suo popolo, aderisce alla festa del 1° maggio, crea per i bambini una colonia fluviale non confessionalistica e senza il patrocinio del Partito. E anche a Cicognara non si preoccupa di promuovere l’associazionismo cattolico, perché non vuole etichettare le poche semplici iniziative parrocchiali, come la festa di fine stagione che ogni anno, il 15 agosto, la popolazione di Cicognara celebra sull’argine del Po.
     «Parlo per cinque minuti. Il Signore sa quello che ho detto, perché Lui me lo ha ispirato e io non me lo ricordo più. So che quando la massa, invitata da me, si alza come un solo uomo per recitare il Padre nostro, siamo in molti a piangere». Così don Primo racconta al suo vescovo quanto accadde in paese nel novembre 1925, dopo il suo rifiuto di cantare in chiesa il Te Deum in ringraziamento per lo sventato complotto contro la vita del Duce. I fascisti avevano costretto la popolazione a riunirsi in chiesa per il solenne evento che il sacerdote avrebbe dovuto presiedere. Don Primo arrivò per ultimo e, cogliendo di sorpresa i gerarchi del paese, riuscì con la semplice recita del Padre nostro assieme ai fedeli presenti a non sottostare all’ordine impartitogli e a congedare tutti pacificamente. «La conclusione?», racconta nella lettera a monsignor Cazzani: «Una sola: il Signore mi vuol bene tanto». Il vescovo lo sa, e anche lui, che pure gli vuole bene, fa quello che può per difenderlo davanti ai magistrati che vorrebbero liquidarlo in quanto sovversivo antifascista. Ma il pericolo più grande per la propria incolumità, lo correrà qualche anno dopo, nell’agosto del 1931, quando sarà sfiorato da tre colpi di rivoltella sparati da due sicari.

     Ogni uomo è mendicante

     All’inizio degli anni Quaranta don Primo ha pubblicato una decina di libri e la fama del sacerdote predicatore, nel frattempo ritornato a Bozzolo come arciprete e parroco, è tracimata oltre i confini della diocesi. Don Primo predica anche nei convegni organizzati dagli universitari cattolici a Camaldoli, Firenze, Padova, Sanremo, Milano, appuntamenti annuali durante i quali affronta i temi che poi avrebbe ampiamente sviluppato nel dopoguerra, come quello della popolarità del comunismo, nei confronti del quale esorta la Chiesa e i cattolici a cambiare il caratteristico atteggiamento di rigida ostilità e a distinguere l’errore dall’errante («combatto il comunismo ma amo i comunisti»), invitandoli a meditare piuttosto sul perché quell’ideologia riesca «a durare e prender piede fra i popoli presso i quali non vale la scusa di primitività o servaggio», o sul fatto che «gli umili e gli onesti» sono «in sommovimento per condizioni disumane di vita».
     Nei testi che videro la luce in quegli anni, don Primo dà conto anche del suo auspicio di riforma dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, approfondendo i temi dell’apertura ai “lontani” e dell’attenzione ai poveri e agli emarginati. Apertura e attenzione a tutti gli uomini. Scrive: «E quando dico “voglio vedere l’uomo”, non intendo l’uomo dei filosofi, che non m’interessa, come non m’interessa il dio dei filosofi. Intendo l’uomo reale, l’uomo vero, in carne e ossa: uno cioè che posso toccare. E quest’uomo che posso toccare e che chiede pietà sono io stesso. Povero è l’uomo, ogni uomo. Non per quello che non ha, ma per quello che è, per quello che non gli basta, e che lo fa mendicante ovunque, sia che tenda la mano, sia che la chiuda».
     Fu proprio uno di questi libri, La più bella avventura. Sulla traccia del “prodigo” – frutto delle predicazioni in missioni popolari che aveva tenuto tra il ’29 e il ’32, e pubblicato nel ’34 con l’imprimatur della curia di Brescia –, che procurò a don Mazzolari la prima severa censura della Congregazione del Sant’Uffizio, allora chiamata “Suprema”. Il libro, che Ernesto Buonaiuti definì «di un’altezza e di una densità intensissime», aveva destato allarme soprattutto per la sua diffusione tra le comunità protestanti della zona, e il Sant’Uffizio lo giudicò laconicamente «erroneo». È un duro colpo per don Primo, che così si rivolge al suo vescovo: «Eccellenza, io deploro con tutto il cuore che qualcuno abusi del mio libro. Ma di tutto si è abusato e si abusa quaggiù: perfino di san Paolo, di sant’Agostino, perfino del Vangelo. Rispetto ogni opinione personale, ma mi inchino soltanto in obbedienza al giudizio della Chiesa». Monsignor Cazzani risponde: «Caro arciprete, non si avvilisca per essere fatto oggetto di una raccomandazione di speciale vigilanza; offra umilmente a Dio questa prova [...]. Vorrei che lei potesse leggermi in cuore il vivo amore – di padre e pastore – che io le porto, e anche la trepidazione mia amorosa per lei in questa prova dolorosa». Cazzani raccoglierà deposizioni positive di parroci e vescovi delle diocesi in cui Mazzolari aveva in quegli anni predicato e le invierà al Sant’Uffizio, assieme alle sue personali rassicurazioni riguardo al comportamento del sacerdote («sarebbe per la sua carità pronto ad abbracciare e portare in chiesa tutti, anche i lontani, e questo lo dispone a una larghezza forse eccessiva verso i lontani...»). Un lavoro, questo, che il vescovo di Cremona si troverà a fare spesso, di lì in avanti.

     Salvezza e mobilitazione controvoglia

     L’attività del parroco di Bozzolo avrà rare soste, così come ne avrà poche l’attenzione – spesso superficiale – ai suoi scritti da parte del Sant’Uffizio.
     I mesi successivi all’armistizio vedono don Primo – che deve anche abbandonare per un certo periodo la parrocchia perché ricercato dai fascisti – prendere contatto coi dirigenti della futura Dc milanese e mantovana e stringere rapporti con la Resistenza.
     Dopo la Liberazione non smette di recarsi ovunque lo chiamino, in quegli anni di ricostruzione e di ricominciamento.
     «Le pene d’ogni genere che mi sono guadagnato scrivendo e parlando, valgano presso i miei figlioli a farmi perdonare una trascuratezza che mai non esistette nell’intenzione e nell’animo del loro parroco. Il tornare a Bozzolo fu sempre per me tornare a casa e il rimanervi una gioia così affettuosa e ilare che l’andarmene per sempre l’avverto già come il pedaggio più costoso»: nel cuore di don Primo si squadernano tutti gli anni carichi di lavoro e di attività spesso frenetica allorché redige, nel 1954, questo passaggio del Testamento spirituale; gli anni delle prime elezioni politiche del 1948, quando percorse l’Italia per la campagna elettorale in favore della Dc, col desiderio che tornasse a essere «come quella che abbiamo conosciuto nei felici tempi della nostra giovinezza»; gli anni delle accuse e delle calunnie che gli vennero soprattutto da “quelli di casa” e da alcuni stretti collaboratori; gli anni di Adesso, con il quale si era attirato le censure del Sant’Uffizio per i “toni” con cui affrontava, negli articoli firmati col proprio nome o con trasparenti pseudonimi, i temi che andava predicando da una vita: la denuncia delle ingiustizie sociali; la difesa dei poveri e le critiche alla Dc che pareva averli dimenticati dopo che grazie ai loro voti era al governo; la promozione del dialogo della Chiesa coi “lontani” e coi comunisti; gli appelli per la tutela della pace e per l’interdizione delle armi atomiche in epoca di guerra fedda; l’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio.
     «Lo stesso amore mi ha reso a volte violento e straripante», scrive ancora don Primo nel Testamento spirituale. «Qualcuno può aver pensato che la predilezione dei poveri e dei lontani mi abbia angustiato nei riguardi degli altri: che certe decise prese di posizione in campi non strettamente pastorali mi abbiano chiusa la porta presso coloro che per qualsiasi motivo non sopportano interventi del genere. Nessuno però dei miei figlioli ha chiuso il cuore al suo parroco, che si è visto fatto segno di contraddittorie accuse, sol perché ci teneva a distinguere la salvezza dell’uomo e le sue istanze, anche quelle umane, da ideologie che di volta in volta gli vengono imprestate da quei movimenti che spesso lo mobilitano controvoglia».

     «Il Signore tiene la sua parola»

     Così quel 28 gennaio 1959, don Primo aprì il proprio cuore a Montini, che sospese le delibere della Conferenza episcopale lombarda contro Adesso. L’arcivescovo sapeva infatti che il sacerdote stava per incontrare papa Giovanni XXIII, e presentiva forse che da quell’udienza sarebbero potute scaturire delle buone novità. Un presentimento che troverà conferma a distanza di qualche giorno, e di cui sono testimonianza le parole che Montini, alcuni anni dopo, pronuncerà, da Papa, per ricordare don Mazzolari: «Hanno detto che non abbiamo voluto bene a don Primo. Non è vero: anche noi gli abbiamo voluto bene! Ma voi sapete come andavano le cose. Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro...».
     Il successivo 5 febbraio papa Roncalli accoglierà infatti don Primo affettuosamente, dandogli appuntamento per i lavori – annunciati una decina di giorni prima – del Concilio ecumenico Vaticano II, che poi farà proprie molte delle intuizioni del parroco della Bassa mantovana. Don Primo lascerà Roma «consolatissimo» dall’incontro col Papa: «Egli è un punto provvidenziale», dirà in una missiva a un suo amico.
     «E così gli ultimi passi», aveva scritto un anno prima di questi eventi, «divengono leggeri nella certezza che il Signore tiene la parola anche con il suo inutile e poco generoso servitore».
     Don Mazzolari morì il 12 aprile di cinquant’anni fa. Era domenica, il suo giorno preferito, quello in cui celebrava la sua messa in parrocchia: «Quando sono in sacrestia, sento che la mia spirituale paternità ha avuto nella messa parrocchiale il suo vertice e la sua gioia, e mi dispongo, con fiducia, alla fatica settimanale, aspettando la nuova domenica: il ritorno». ==>> [torna alla pagina iniziale]
IL FATTO QUOTIDIANO  -  4 dicembre 2011
di Emanuele Salvato




La politica secondo don Primo Mazzolari
“Somiglianze tra cattolici e comunisti”


A cinquantadue anni dalla morte, esce in libreria una raccolta degli scritti del prete di Bozzolo, il piccolo comune del Mantovano.
Scritti che parlano, soprattutto, del suo impegno politico con messaggi rivolti a giovani e adulti.
"Né a sinistra, né a desta, né al centro. Perché la buona politica è possibile ritrovarla solo oltre i partiti" scriveva il parroco.
Pensieri ancora di stretta attualità


“La disgrazia della lotta politica in Italia è legata alla dimenticanza dell’uomo, per cui abbiamo cittadini che sono quel che volete, vale a dire con denominazioni politiche svariatissime, ma con nessuna sostanza umana. Prima di essere ammessi a un partito ci vorrebbe la promozione a uomo”. Inutile scervellarsi. Queste parole, di un’attualità disarmante, non appartengono a nessun pensatore dei nostri giorni – peraltro merce rara -, ma sono uscite dalla penna di don Primo Mazzolari il 25 settembre del 1945. Fanno parte dei molti scritti politici che il parroco di Bozzolo – antifascista e anticomunista, sempre e comunque dalla parte degli ultimi – ha prodotto tra il 1940 e il 1955 e che stavano rischiando di finire nel dimenticatoio.

La casa editrice Chiarelettere ha pensato di raccoglierne – grazie anche alla collaborazione e alla consulenza della Fondazione don Mazzolari di Bozzolo, che quest’anno festeggia i 30 anni della nascita – una selezione significativa nel libro da poco uscito nella collana di Instant Book con il titolo Come pecore in mezzo ai lupi (150 pagine, 7 euro). A impressionare, come si diceva, è l’attualità del pensiero di don Mazzolari, parroco “resistente” (vicino alla causa partigiana) di piccoli paesi del mantovano come Cicognara e Bozzolo con una lungimiranza e una freschezza intellettuale da subito invisa al Vaticano, che in più occasioni ne censurò pubblicazioni e scritti. Salvo riabilitarlo pochi anni prima della morte, avvenuta il 12 aprile del 1959. Fu l’allora arcivescovo di Milano, monsignor Montini (il futuro Papa Paolo VI) a tendere la mano a don Primo, rinchiuso nella sua Bozzolo come un personaggio scomodo. Era il 1957. Una volta divenuto Papa, Montini disse di don Mazzolari che “aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti”.

Profeta o non profeta, quel che è certo è che don Primo ha saputo scavare nella politica, è stato in grado di coglierne l’essenza e per questo è riuscito a smascherarne i difetti. Era convinto che la politica dovesse andare oltre i partiti e concentrarsi sugli uomini eliminando interessi e privilegi. Era certo che la politica dovesse andare a braccetto con la democrazia. Ma si rendeva conto che i due universi erano sempre più distanti, contrastanti.

Introdotto da una prefazione di un altro prete di frontiera come don Virginio Colmegna, il libro si articola in cinque parti. La prima dà spazio agli scritti più attuali, ancora oggi capaci di stupire per la violenza intellettuale con cui abbattono le barriere della “finta” politica; le altre sezioni toccano i giovani, la tolleranza, il mestiere dell’uomo, la giustizia sociale. Utile soffermarsi sull’ultima sezione del libro, quella in cui don Mazzolari fa una riflessione sul comunismo che, troppo frettolosamente, ha portato l’opinione pubblica a catalogarlo come “prete rosso”. Senza pregiudizi ideologici, il parroco di Bozzolo analizza il pensiero comunista e vede molte somiglianze con quello cristiano: “Cosa vogliono i comunisti? – scrive don Primo – La fine delle ingiustizie e la felicità di tutti gli uomini. Cosa vogliono i cristiani? La fine delle ingiustizie e la felicità di tutti gli uomini. La differenza è sui mezzi e sul modo di concepire il bene, conseguenza di una diversa visione dell’uomo e della vita”. ==>> [torna alla pagina iniziale]
PANORAMA –- 21 giugno 2017
di Edoardo Frittoli


Storia di don Primo Mazzolari:
il prete della giustizia sociale

Celebrato da Papa Francesco, lottò per il rinnovamento morale della Chiesa,
contro il fascismo e la rigidità delle gerarchie ecclesiastiche. Sarà Beato


Don Primo Mazzolari è stato una delle più importanti figure del cattolicesimo italiano del XX secolo.

Era nato il 13 gennaio del 1890 in un sobborgo di Cremona, assorbendo nei primi anni di vita le idee "moderniste" in contrapposizione con l'intransigenza persistente in buona parte delle gerarchie ecclesiastiche del tempo.

Entrato in seminario nel 1902, Primo Mazzolari esprimeva già la forte coscienza democratica attraverso la quale filtrava la sua immensa fede cattolica, in particolare nei confronti della libertà di coscienza e nel rifiuto dell'accettazione acritica degli ordini superiori, in questo simile ad un altro sacerdote ricordato dal Pontefice in questi giorni, don Lorenzo Milani.

Ordinato nel 1912, aderiva alla corrente dell'interventismo democratico che lo condurrà di lì a poco all'impatto diretto con l'esperienza della guerra. Un impatto estremamente doloroso per la perdita del fratello Giuseppe caduto sul Sabotino. Don Primo, inizialmente impiegato in Sanità, chiede il trasferimento al fronte dove rimarrà per gli ultimi mesi del conflitto trasferito con le truppe italiane in Francia.

Alla fine della guerra Don Mazzolari non sarà smobilitato, ma proseguirà il servizio nelle zone di guerra tra i morti ancora da seppellire, tra la gente del fronte dell'Isonzo stremata dalla guerra.

Poco dopo il ritorno in patria un nuovo impatto condizionerà la vita di Primo Mazzolari: quello con il nascente fascismo, che vide svilupparsi dalla piccola parrocchia di Cicognara (Mantova) dove rimarrà per un decennio. Nel piccolo centro sulle rive del Po si farà promotore dell'istruzione delle classi contadine, e dei valori della Chiesa dimenticata da una popolazione caratterizzata da una forte connotazione socialista. La diffidenza di Primo Mazzolari nei confronti del fascismo lo allontanerà gradualmente da quei rappresentanti della Chiesa che sempre più numerosi si accostarono alla politica mussoliniana, culminata con la ratifica dei Patti Lateranensi del 1929. Neppure il compromesso con il regime riuscirà a mutare l'idea di libertà di coscienza radicata nel sacerdote, tanto da subire un attentato a colpi di rivoltella da parte di una squadra fascista nel 1931.

L'anno successivo don Mazzolari sarà trasferito a Bozzolo, un piccolo paese a poca distanza da Cicognara. Qui inizierà la sua attività di scrittore e giornalista, attraverso la quale le sue idee critiche nei confronti della Chiesa intesa come una "società perfetta" troveranno voce.

L'individuazione dei limiti della gerarchia e della liturgia ecclesiastica dell'epoca, uniti alla sua spinta verso la modernizzazione della Chiesa finì per generare la reazione del Sant'Uffizio, che cominciò a mettere all'indice molti dei suoi scritti.

Alla caduta del regime il 25 luglio 1943 don Mazzolari strinse forti contatti con la Resistenza e con il mondo cattolico clandestino in vista della riorganizzazione postbellica. Braccato dalle autorità di Salò e dai Tedeschi, entrò in clandestinità a Gambara (Brescia), dove visse letteralmente nascosto in un sottotetto fino alla fine del conflitto.

La seconda fase della vita di don Mazzolari si apre nel segno dell'impegno per la ricostruzione della società martoriata dal ventennio e dalla distruzione bellica. Questi i semi di quella "rivoluzione cristiana" che avrebbe portato i fedeli a dirigere la società civile, a patto di un profondo rinnovamento morale. Nel secondo dopoguerra la lacerazione politica tra democristiani e comunisti spinge don Primo a farsi "ponte" tra i cattolici e i "lontani", vale a dire coloro che rifiutavano Cristo nel nome di un'ideologia che avrebbe diviso ancora una volta il mondo negli anni della Guerra Fredda. Nonostante l'appoggio formale alla DC nelle elezioni del 1948, non accetterà la scomunica dei comunisti da parte della Chiesa, pronunciata da Pio XII l'anno successivo.

Per amplificare le sue idee di giustizia, libertà, fede e coscienza, don Mazzolari fonda nel 1949 il periodico "Adesso" al quale collaborerà entusiasticamente un altra delle più importanti figure del dopoguerra, Giorgio La Pira. Lo spirito del quindicinale a favore degli "ultimi", specie nella denuncia delle ingiustizie sociali, la ricerca della pace per la quale don Mazzolari si spingerà addirittura a tendere la mano ai comunisti, fecero sì che le gerarchie decidessero per un giro di vite imponendo due anni dopo la cessazione delle pubblicazioni di "Adesso", al quale si erano accostate le voci più avanzate del progressismo: dal sindaco socialista di Milano Antonio Greppi a Padre David Maria Turoldo.

Nonostante i vincoli imposti, don Primo continuerà a scrivere sotto pseudonimo e a pubblicare volumi sempre più critici nei confronti di grandi temi: nel 1955 affronta prima di don Lorenzo Milani la questione dell'obiezione di coscienza. Rifutare era giustificato in quanto "cristianamente e logicamente la guerra non si regge". Pur sottoposto ad una vigilanza continua da parte delle gerarchie, Don Primo scelse di non mostrare mai il fianco, decidendo di obbedire comunque agli ordini superiori pur mantenendo coerenza e dignità.

Fu l'Arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini (futuro Papa Paolo VI) ad iniziare la riabilitazione di don Mazzolari, quando lo chiamò a Milano nel 1957 per una serie di iniziative pastorali. Quindi, nell'ultimo anno della sua vita, fu chiamato da Papa Giovanni XXIII. Il Pontefice di quel Concilio Vaticano II nel quale molte delle idee e dei temi del parroco di Bozzolo saranno posti in discussione.

Il 12 aprile 1959 don Primo Mazzolari si spegneva dopo una logorante malattia. Dal 18 settembre 2017 inizierà il processo di beatificazione di un prete che fu "scomodo". ==>> [torna alla pagina iniziale]

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