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DON LUISITO BIANCHI
da adistaonline.it  - Altrachiesa  -  20 gennaio 2012
di Valerio Gigante


Addio a Luisito Bianchi,

prete operaio e profeta della gratuità


Prete-operaio, prete-poeta, prete della Resistenza, prete-scrittore, prete-monaco. Luisito Bianchi è stato tutto questo e altro ancora. Ma soprattutto è rimasto sempre testardamente prete, cioè un uomo di Chiesa che ha cercato di portare in tutti i contesti in cui ha vissuto e lavorato la testimonianza di una Chiesa diversa dal modello gerarchia-potere-ricchezza, segnalando al contrario la drammatica urgenza di rimettere al centro di tutta l’attività ecclesiale il valore della gratuità. Una contraddizione, quella tra la limpida testimonianza individuale e i limiti e i compromessi dell’istituzione a cui apparteneva, che ha accompagnato tutta la vita di don Luisito, segnandone profondamente l’azione pastorale e l’esperienza di fede e che è stata al centro della riflessione di molti suoi libri.

Malato da tempo, don Luisito è morto all’età di 84 anni, il 5 gennaio scorso, a Viboldone, frazione di San Giuliano Milanese, nel monastero benedettino guidato da madre Ignazia Angelini, in cui viveva da molti anni e di cui era cappellano.

Era nato il 23 maggio 1927 a Vescovato, in provincia di Cremona. Ordinato nel 1950, era stato insegnante al seminario vescovile di Cremona (1950-1951) e missionario in Belgio (1951-1955). Tornato in diocesi, fu nominato vicario a S. Bassano in Pizzighettone (1956-1958), con l’impegno di interessarsi dei giovani della fabbrica Pirelli. Dopo due anni, il vescovo lo volle assistente provinciale delle Acli. In quel periodo fu molto vicino al mondo del lavoro, soprattutto al settore dell’agricoltura. Poi le Acli lo chiamarono a Roma, per diventare vice assistente nazionale. Ma dopo tre anni fu lo stesso Bianchi a chiedere di potersene andare, perché nutriva riserve sull’impostazione della funzione dell’assistente. «Si voleva fosse la coscienza cristiana del movimento, mentre io pensavo che ogni cristiano dovesse avere una sua autonomia, non dettata, nelle scelte politiche e sociali, da una direttiva esterna. Fu così che tornai indietro e chiesi di poter andare a lavorare in fabbrica. Il vescovo, forse per il rimorso di avermi mandato a Roma, acconsentì». Con alcuni aclisti avviò l’esperienza di “Ora Sesta”, l’ora dell’incontro e del dialogo, secondo il Vangelo di Giovanni (cap. 4). Il gruppo cercava (e cerca) di incarnare le attese e le speranze del Concilio soprattutto nei confronti del mondo operaio e contadino, attraverso l’approfondimento culturale dei grandi temi della pace, del lavoro, dell’ecumenismo, della solidarietà internazionale, della libertà, della partecipazione democratica, della fratellanza universale. “Ora sesta” ha pubblicato anche dischi (di alcune canzoni, don Luisito è autore, seppure sotto pseudonimo, sia dei testi che della musica) e libri. Tra questi, anche un lavoro dello stesso Bianchi, Salariati (1968), uno studio sociologico sul salariato di cascina nel cremonese.

L’esperienza della fabbrica

Don Luisito, che si era nel frattempo laureato anche in Scienze Politiche (titolo: “I contadini della Val Padana”, relatore: Francesco Alberoni), fu ancora insegnante nel Seminario di Cremona (1964-1967). Poi, nel 1968, decise di occuparsi dei problemi del lavoro dall’interno, scegliendo la condizione operaia. Erano gli anni in cui, soprattutto in Francia, cominciava a prendere piede il fenomeno dei preti-operai. Bianchi scelse la fabbrica soprattutto per coerenza al suo ministero: «Come posso restare coerente nell’annunciare la gratuità del Vangelo, se in cambio, proprio per la mia funzione di prete, ricevo del denaro o una paga mensile?». Don Luisito maturava infatti la convinzione che essere prete significasse soprattutto vivere il dono della gratuità, rifiutando qualsiasi compenso in denaro che riducesse il suo ministero a quello di “funzionario del sacro”. Per vivere decise quindi di lavorare. E di non percepire più la “congrua”. Così, il 5 febbraio del 1968, don Luisito Bianchi, con il permesso del vescovo (che lo inviò però fuori diocesi, ad Alessandria), fece il suo ingresso in una fabbrica chimica, la Montecatini di Spinetta Marengo, come operaio turnista addetto alla lavorazione dell’ossido di titanio. Per tre anni registrò le sue giornate, i suoi dialoghi con i compagni di turno, le sue vicissitudini lavorative e spirituali in alcuni taccuini, che composero una sorta di “diario di fabbrica”. Pubblicato nel 1972 da Morcelliana con il titolo Come un atomo sulla bilancia, quel testo fu ristampato da Sironi, nel 2005: si intitola I miei amici: diari (1968-1970), e si riallaccia, ma in un’ottica cristiana, a quella narrativa di fabbrica che, a partire dagli anni ’60, aveva indagato (attraverso i romanzi di scrittori come Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Lucio Mastronardi, Nanni Balestrini e Luciano Bianciardi) nevrosi e alienazione sociale prodotti dalla riorganizzazione neocapitalistica del lavoro (v. Adista n. 41/08).
Nei suoi appunti, Bianchi si sofferma però soprattutto sui rapporti tra la Chiesa e il potere, le relazioni tra teologia e politica; ma affrontando anche motivi di scottante attualità, come le relazioni sindacali in fabbrica, il rapporto tra cattolici e marxisti, l’ipocrisia delle dirigenze sindacali, la sicurezza sul lavoro, le morti bianche. «Ho capito – scrive nei suoi diari – che i quadri dirigenti non richiedono di apprendere qualche cosa ma solo di chiudere gli occhi, eseguire gesti una volta, due volte, cento volte, finché sei ammaestrato per bene, come succede con gli animali del circo».

Prete nella gratuità

Quando l’esperienza di fabbrica finì, alla fine del 1970, don Luisito fece un amaro bilancio di quell’esperienza, ricchissima invece dal punto di vista umano e relazionale: «I tre anni di fabbrica m’hanno persuaso che oggi, nella situazione attuale, l’evangelizzazione non è possibile». Ma quello che più tormentava don Luisito era di essere accettato come compagno di lavoro, amico e confidente, ma non come prete. «Perché a loro il Dio che presenta la mia Chiesa non interessa?», è la tormentosa domanda che don Luisito si ripeteva. «Perché la Chiesa lo predica e ne trae profitto e potere come da una merce», fu l’amara risposta giunta al termine dell’esperienza di fabbrica. Uscito dalla Montecatini, nel 1971 Luisito, con il consenso del vescovo, fece una brevissima esperienza da benzinaio a Milano. Poi cominciò a lavorare come traduttore, inserviente in ospedale e in seguito infermiere. Prete-operaio più che operaio-prete, perché l’idea della evangelizzazione e della presenza della Chiesa nel modo del lavoro rimanevano per lui prioritari rispetto alla dimensione “militante”. L’obiettivo, sempre il medesimo: trovare il sostentamento dal proprio lavoro per essere veramente gratuiti – e credibili – nel ministero. Un atteggiamento di radicalità evangelica che lo ha sempre nettamente contrapposto al sistema della “congrua” prima, all’8 per mille negli anni successivi alla revisione concordataria.

L’archetipo della Resistenza

Nel 1975, intanto, don Luisito pubblicava Dialogo sulla gratuità (edito da Morcelliana, riedizione Gribaudi, Milano 2004). Lo stesso anno, cominciò anche a maturare l’idea di un grande romanzo sulla Resistenza, periodo che Luisito aveva intensamente vissuto, anche se non come protagonista. La mattina scriveva, il pomeriggio studiava e traduceva per vivere. Cinque anni dopo, il romanzo era pronto. Restò un dattiloscritto che venne letto da alcuni amici, che ne intuirono il valore e lo diffusero. Ebbe una sua prima edizione, autofinanziata, solo nel 1989, con il titolo Resistenza. Nel 1991 venne addirittura fatta una ristampa, anch’essa esaurita. Nel 2003 l’editore Sironi propose il romanzo con un nuovo titolo, La messa dell’uomo disarmato, al grande pubblico, facendolo divenire un caso letterario. Il testo venne infatti considerato dalla critica come il maggiore romanzo cristiano sulla lotta partigiana. Si tratta di un romanzo che affronta il tema sia nella sua accezione storica sia in un significato più profondo, civile, filosofico e religioso.
Dopo quel romanzo, Bianchi ha pubblicato Dittico vescovatino (2001); Simon Mago (2002), un testo che riabilita il personaggio da cui deriva il peccato della simonia, che l’autore attribuisce invece ai tanti Simon Pietro succedutisi alla guida della Chiesa; Monologo partigiano sulla Gratuità (2004), una serie di appunti e riflessioni per una storia della gratuità del ministero nella Chiesa; Quando si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada (2010), romanzo in cui viene fortemente criticato il sistema che relega i preti ad una mera funzione impiegatizia (v. Adista n. 50/10). Bianchi era anche poeta e ha pubblicato diverse raccolte di poesie tra cui Vicus Boldonis terra di marcite (1986) In terra partigiana (1992) Forse un’aia (1993) e Sulla decima sillaba l’accento (1995), Parola tu profumi stamattina (1999).

La tuta e la stola

Il funerale di don Luisito, celebrato il 7 gennaio prima all’abbazia di Viboldone e poi a Vescovato (Cremona), il suo paese, ha visto una straordinaria partecipazione di persone, amici ed estimatori. A presiedere il rito, il vescovo di Cremona, mons. Dante Lanfranconi. Sulla bara di don Luisito, come da lui espressamente chiesto, la sua tuta da operaio, la Bibbia, la stola e tre rametti di agrifoglio. Ad accompagnarlo al cimitero un asinello (animale di cui don Luisito parla nella sua “Messa”) e lo stendardo dell’Anpi.   [torna alla pagina iniziale]

AVVENIRE  -  6 gennaio 2012
Fulvio Panzeri
IL LUTTO



Luisito Bianchi il «disarmato»


Se n’è andato ieri, nelle braccia del Signore, alla vigilia dell’Epifania (i funerali si terranno presso l’Abbazia di Viboldone, dove da anni viveva, domani sabato 7 gennaio alle ore 11,30), una delle figure più singolari della cultura cristiana degli ultimi cinquant’anni, don Luisito Bianchi, prete e scrittore, che ha sempre avuto a cuore e come centro della propria esperienza il tema della gratuità, ricorrente in tutti i suoi scritti, da quelli strettamente narrativi a quelli di memoria, fino ai diari.

In uno dei suoi ultimi libri, pubblicato da L’Ancora del Mediterraneo, Quando si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada, scrive che «la gratuità nel ministero è un tema da infinite variazioni, almeno una per ogni giorno di vita, perché ogni giorno si presenta con un nuovo cesto di doni sconosciuti da svuotare, un canone all’infinito». A sottolineare questo "valore", nel libro, c’è anche il nome che dà al cane che un giorno gli attraversa la strada, lo segue e gli diventa amico e, come scriveva don Luisito, «diventa a ogni chiamata, un evangelizzatore».

Lo chiama così Dorean perché «è l’avverbio che corrisponde al nostro "gratis", e si trova in Matteo 10, 8: "Avete ricevuto gratuitamente (dorèan), gratuitamente (dorèan) date». Al tema Bianchi ha dedicato anche un testo edito da Gribaudi, Dialogo sulla gratuità (2004).
Legato alla grande pianura della Bassa cremonese, dove gli «è capitato di nascere (nel 1927) e di crescere su questo grumolo di terra e di case, nel cuore della Grande Pianura, dallo scanzonato e solenne nome di Vescovato», Bianchi è diventato sacerdote dal 1950. Nella sua vocazione e nella scelta hanno contato l’esempio e l’amicizia con un altro grande prete, don Primo Mazzolari, tanto che don Luisito aveva scritto: «Nella mia decisione a scegliere nella vita di diventare prete, i libri e l’esempio di don Primo ebbero una grande importanza; soprattutto sul modo di esercitare il sacerdozio, se mai fossi giunto a tale meta. L’influenza andava al cuore dell’evangelo senza che altre considerazioni potessero intromettersi».
È stato poi insegnante, prete-operaio e inserviente d’ospedale. Proprio tra la fine degli anni ’60 e i ’70 si colloca l’esperienza del lavoro in fabbrica, intuita come «scelta ecclesiale», approvata dal suo vescovo e dettata da «un desiderio di onestà: dopo tanti anni in cui avevo parlato del lavoro e della sua teologia, chiesi di lavorare in fabbrica». Nel febbraio 1968 entra alla Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, come operaio turnista addetto alla lavorazione dell’ossido di titanio.

Sono tre anni cruciali nella vita del sacerdote, «tre anni che reputavo allora e, a maggior ragione, oggi la cerniera delle due ante della mia vita, del prima e del dopo». Don Luisito decide di raccontarli, in Come un atomo sulla bilancia, uscito nel 1972 da Morcelliana e riedito da Sironi nel 2005, scritto di getto, in due mesi, nel 1970, dopo aver lasciato la fabbrica, «quasi un’elaborazione rappacificata delle 1500 pagine di diario, spesso tumultuose e ossessivamente monotematiche» che aveva tenuto durante quel periodo e che sono stati pubblicati, anch’essi da Sironi, nel 2008 (I miei amici. Diari 1968-1970).

L’altra "anta" rilevante nell’esperienza di don Luisito è quella della scrittura del romanzo che è diventato un caso editoriale: La messa dell’uomo disarmato. Nel 1975, quando la madre si ammala, don Luisito si licenzia dall’Ospedale Galeazzi per seguirla. «Lavoravo come traduttore, ma avevo molto tempo libero. È stata quella l´occasione per riflettere sugli eventi che avevano dato senso alla mia vita. Ho iniziato ad ascoltarmi, quindi a scrivere. Più di mille pagine, con un titolo provvisorio: Una Resistenza».

Il romanzo viene rifiutato da molti editori e esce in un’edizione autofinanziata da alcuni amici, tra il 1989 e il 1995. Moltissimi sono stati i lettori di questo romanzo sulla Resistenza, assai corposo, di stampo manzoniano, passato di mano in mano, al riparo dai clamori editoriali, creando una specie di "coro" di estimatori di quello che possiamo, senza ombra di dubbio, definire "un capolavoro" della nostra recente narrativa che i lettori hanno potuto finalmente conoscere grazie alla collana di Giulio Mozzi, diretta per l’editore Sironi che accetta la sfida di far conoscere il testo e lo pubblica nel 2003, suscitando subito un coro unanime di consensi da parte della critica e facendolo diventare uno dei titoli di punta del suo catalogo, una sorta di long-seller. È un romanzo che inizialmente don Luisito voleva intitolare "Grazie", perché recuperava il valore della memoria, tema assai caro al prete-scrittore che diceva: «La memoria è il puntino impercettibile che salda il cerchio della vita e mi fa dire, come succo di queste storie di vecchio lunario: vivere, ne valeva la pena».

Da sottolineare anche le sue predilezioni tra mistica e letteratura, quella per la figura di Don Chisciotte e quella per la poesia di San Giovanni della Croce, che lo ha accompagnato per tutta la vita, dalla preparazione alla scelta di diventare prete, fino all’opera di traduzione che è il lavoro letterario con cui si congeda, il trittico Salita al Monte Carmelo, Notte oscura e Cantico spirituale da lui curato per le Edizioni Dehoniane di Bologna. Per don Luisito, in San Giovanni «il vertice di tutto, "non sapendo altro che amare", è l’amore», un’altra variazione di quella gratuità che ha sempre posto a capo della sua esperienza. [torna alla pagina iniziale]

Roberta Sciamplicotti /Aleteia - Nov 14, 2013

Il valore della gratuità: l’esempio di don Luisito Bianchi
Tra i primissimi "preti operai", una scelta fatta per "onestà"

Il 5 gennaio 2012 moriva a quasi 85 anni don Luisito Bianchi, sacerdote e scrittore, una delle figure più singolari della cultura cristiana degli ultimi cinquant’anni.
“Insieme a un sofferto attaccamento alla Chiesa, la sua voce di uomo e di credente ha testimoniato soprattutto i valori evangelici dell’assoluta gratuità dell’annuncio cristiano, che rifiuta ruoli, privilegi, denaro e potere mondano” (Noisiamochiesa, 5 gennaio 2012).
In uno dei suoi ultimi libri, Quando si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada, don Luisito scriveva che “la gratuità nel ministero è un tema da infinite variazioni, almeno una per ogni giorno di vita, perché ogni giorno si presenta con un nuovo cesto di doni sconosciuti da svuotare, un canone all’infinito” (Avvenire, 6 gennaio 2012).
Don Luisito fu uno tra i primi sacerdoti ad andare a lavorare in una fabbrica. Questa esperienza, intuita come una “scelta ecclesiale” e approvata dal suo vescovo, fu dettata da “un desiderio di onestà: dopo tanti anni in cui avevo parlato del lavoro e della sua teologia, chiesi di lavorare in fabbrica”. Nel febbraio 1968 entrò così alla Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, come operaio turnista addetto alla lavorazione dell’ossido di titanio. Furono tre anni cruciali nella vita del sacerdote, nei quali scrisse 1.500 pagine di diario.
“Tutti gli avvenimenti precedenti della mia vita erano stati combinati in modo da portarmi all’invio in fabbrica; tutti gli avvenimenti successivi sono segnati nel bene e nel male, luce ed ombra, da quell’invio”, scriveva il sacerdote, confessando che fu infatti da quel 5 febbraio 1968 che iniziò a porsi l’interrogativo “del come la Chiesa si era posta, lungo il corso dei secoli, di fronte alla Gratuità dell’annuncio e del ministero” (Avvenire, 12 novembre).
“Mi era anche chiaro, da un punto di vista sociologico, che la società moderna era nata nella conflittualità provocata grosso modo, dal denaro; anche la Chiesa, preti e vescovi, vi avevano partecipato difendendo o realizzando posizioni di potere, sempre traducibili in termini di denaro. In tale situazione il sociologo che c’era in me concludeva che solo un annuncio gratuito era credibile”.
La gratuità del ministero sacerdotale era intesa da don Luisito anche come rifiuto di ricevere lo stipendio riservato al clero.
“La mia visione del lavoro come necessità (e quindi qualsiasi lavoro: in fabbrica, in scuola, da professionista, artigiano, traduttore, eccetera) per sostentarsi, per me prete aveva l’enorme importanza di stabilirmi come cerniera fra quella che fu la scelta di Paolo come Chiesa nella gentilità e il comportamento della stessa Chiesa del XX secolo, erede della gentilità, per rendere credibile il messaggio, la buona notizia a essa affidata”.
Questa visione rifuggiva da ogni leadership politico-sindacale, che predominava invece nel gruppetto di preti che cominciavano, con o senza benedizione del loro vescovo, a lavorare in fabbrica e chiamarsi, sull’ondata francese, preti-operai.
“La Chiesa non interessava più, era scontato che fra essa e la lotta operaia s’imponeva una scelta, che l’annuncio sarebbe arrivato successivamente alla giustizia ristabilita, alla sconfitta del capitalismo. Questa posizione era per me espressione d’un clericalismo che, smessa la sottana o il clergyman per indossare la tuta, continuava a spadroneggiare, nell’assoluta buona fede del nuovo prete operaio, certamente”.
“Che cosa sarebbe avvenuto nella Chiesa se questi preti, sparuto gruppo ma anche di una certa presa sull’opinione pubblica, fuori e dentro la Chiesa, avessero legato il lavoro alla gratuità del ministero come fu all’inizio? Io ero in fabbrica e sperimentavo come quel tipo di lavoro potesse permettere l’attività cosiddetta pastorale. Con i turni che quotidianamente cambiavano (6-14, 14-22, 22-6) sempre 24 ore fra un turno e l’altro, ci sarebbero state buone possibilità di tempo per un’attività di aiuto parrocchiale se fosse stato necessario. C’erano infinite possibilità, in teoria, di mantenersi senza rinunciare a nessuna attività parrocchiale; bastava provare. Soprattutto, mi dicevo, bastava alzarsi un mattino e gridare davanti a Dio e alla propria coscienza, vescovo, prete, parroco o curato che si fosse: 'Basta, da oggi tutto è gratuito, cápiti quel che vuole capitare'”. [torna alla pagina iniziale]
(Paginauno n. 6, febbraio - marzo 2008)

RECENSIONE di di Luciana Viarengo

IL LIBRO:
La messa dell’uomo disarmato, Luisito Bianchi, Sironi Editore, 2003


Che ci fa un libro sconosciuto ai più, pubblicato pochi anni fa e tuttora reperibile negli scaffali nell’ultima riedizione (la sesta) del 2007, in una rubrica che si occupa, se non di classici in senso stretto, di libri ragionevolmente ‘invecchiati’, a torto dimenticati e, molto spesso, introvabili nonostante il loro innegabile valore? Nel caso specifico, ci entra di diritto, e dalla porta principale.
Se La messa dell’uomo disarmato, concepito da Luisito Bianchi verso la metà degli anni Settanta, è ufficialmente apparso in libreria solo quattro anni fa, grazie all’editore Sironi, in realtà ha visto la luce per la prima volta nel 1989, quando un gruppo di amici dell’autore ha deciso di assumersi gli oneri di una pubblicazione autoprodotta. Il successo ottenuto nonostante l’assoluta mancanza di supporti ‘di mercato’, quello che solo il passaparola tributa, è sintomo inequivocabile di un valore autentico. Poi, di mano in mano, il libro è finito tra quelle dell’editore attuale, iniziando così il suo cammino attraverso canali ufficiali. Lo scrittore è un religioso che non ha fatto della propria fede uno strumento di potere né un mezzo di sostentamento, bensì un dono da condividere, dono che appare particolarmente prezioso anche a chi ne è totalmente privo.

Il sostentamento, Luisito Bianchi, anzi Don Luisito Bianchi, l’ha cercato altrove, in fabbrica come operaio, in ospedale come infermiere, nei libri come studioso e traduttore; mai nel suo ministero. E forse proprio da questo nasce la sua capacità di trovare e trasmettere il divino che alberga nell’essere umano e nelle sue azioni, una capacità che trova ne La messa dell’uomo disarmato uno straordinario strumento di espressione.
Sarebbero stati necessari più sottotitoli per orientare il lettore, ne è stato scelto uno solo per ovvi motivi ed è ‘un romanzo sulla Resistenza’. Ma quanto è riduttivo definire romanzo questo libro, affascinante come un poema epico, rigoroso quanto una storiografia e profondo come un trattato filosofico; e in quali limiti semantici rischia di farci incorrere il termine ‘Resistenza’! È vero, ci consentirà pure di collocare storicamente ciò che costituisce il cuore della vicenda narrata – sebbene l’arco narrativo vada dal 1940 agli anni Sessanta – ma la lettura ci farà scoprire quanto si dilatino il senso di quel termine e l’epoca nel quale collocarlo.
Davvero impossibile ridurre la trama nello spazio concesso, poiché da vero poema epico è un intrecciarsi di decine di personaggi, di eventi e di piani temporali. Più o meno come tentare di riprodurre il Giudizio universale di Michelangelo su un francobollo. O limitarsi a dire che è un romanzo sulla Resistenza.

Ma se il fulcro narrativo è rappresentato da ciò che l’autore chiama “il grande Avvenimento”, la vera tematica sottesa è la ricerca della Parola, come rivelazione del divino – parte essenziale del destino dell’uomo – e come divino che si fa umano, permeando di sé ogni evento, “che è in tutto e che viene a noi spezzata come tanti bocconi di pane”.
Prima ancora che direttrice delle vicende intime e collettive dei personaggi , questa tematica diviene struttura dell’opera. Il romanzo (adattiamoci dunque a definirlo tale) è diviso in tre grandi partiture nelle quali le umane vicissitudini, individuali e civili, si raccolgono sotto altrettante espressioni della Parola: il gemito, il silenzio, lo svelamento.
La prima ci introduce nella società contadina lombarda durante gli anni della guerra, tra cascine, campi di granturco, carrarecce, osterie e l’immancabile chiesa con l’arciprete (bella figura di umanista e di religioso illuminato). In questa sezione già compare la maggior parte dei personaggi, dipinti con mano ispirata, che compongono la grande storia corale del mondo contadino e che ci appaiono reali – come il ricordo di qualcuno che abbiamo conosciuto – nonostante Bianchi scelga di dare ad alcuni di loro una connotazione ai limiti dell’archetipo (come nel caso della madre Benedetta, di Maria, di Toni). O forse proprio per questo.

Con lo svolgersi degli eventi e delle loro stesse azioni divengono sempre maggiori la credibilità e la concretezza di queste figure legate alla terra, alle tradizioni, ma soprattutto ai valori che il fascismo non può soffocare. Tanto che anche i rappresentanti delle istituzioni, appena abbozzati come il maresciallo dei carabinieri, il podestà o la guardia comunale, sembrano stemperare il nero con il loro agire, finendo per apparire, secondo le parole del vecchio mugnaio Giuliano, “come i fichi, neri di fuori e rossi di dentro”.
A narrare, inizialmente con cadenza lenta e respiro ampio – in armonia perfetta con i ritmi del mondo contadino – è Franco, novizio benedettino che ha lasciato l’abbazia dopo l’allontanamento dalla stessa del suo maestro, per tornare a essere contadino alla Campanella, il podere della sua famiglia, e cercare nel rapporto con la terra e con gli uomini, anziché nella Regola, l’ascolto della Parola. La sua narrazione a posteriori è rivolta al suo maestro, dal quale ha imparato che la Parola è ovunque“nell’avvenimento, con la rapidità folgorante del lampo, nella tessitura dei gesti quotidiani, violenta come un terremoto o suadente come la brezza”. E di questa presenza è fortemente permeata la prima parte, nella sua ricerca costante da parte di Franco e nel suo manifestarsi all’interno dei cicli della natura e nel lavoro dell’uomo. Eppure è il gemito, la sua modalità di espressione, a sottolineare la pena con la quale questa ricerca viene condotta e l’approssimarsi di tempi terribili.

“La guerra scoppiò quando il frumento cominciava ad avvolgersi della sua veste di grazia e le ultime more sui gelsi morivano di troppa dolcezza”, racconta Franco che assiste in piazza alla dichiarazione, attraverso la radio messa sul balcone dal podestà, iconografico come “uno dei vescovi portareliquie che si mettono sull’altare i giorni di festa”.
Ma la guerra è ancora un’eco lontana, che penetra in paese soprattutto attraverso la dolorosa assenza dei giovani al fronte – come Piero, il fratello di Franco, ufficiale medico in Grecia – o degli uomini impiegati nella campagna di Russia. C’è solo da aspettare che finisca.
Tuttavia, l’8 settembre ogni cosa cambia, e per molti personaggi i sentieri conosciuti fin dall’infanzia condurranno alle vallate e alle montagne della resistenza partigiana. Da qui prende l’avvio la seconda parte del romanzo, la più corposa – il Silenzio – in cui anche Franco cessa di essere voce narrante, sottolineando così l’incapacità di scorgere la Parola nel sangue versato e lasciando che siano i fatti – più importanti del singolo – a raccontare, con pagine che sono al contempo documento civile e poema epico eroico.

A sottolineare ulteriormente l’incapacità di udire la Parola, nel caos e nella violenza, c’è un notevole cambio stilistico: il periodare fin qui ampio e poetico acquista sintesi e asciuttezza, quasi che anche la parola umana si ritiri. Ciò nonostante, queste pagine riescono ad avere, se possibile, ancora più forza evocativa. Se gran parte di esse non possono essere citate senza svelare eventi importanti per lo svolgersi della trama, una fra tutte può essere significativa: quella della prima rappresaglia fascista seguita a un’azione partigiana. Nonostante i militari armati impediscano di rimuovere i sei ostaggi trucidati, un uomo sconosciuto ai paesani, ma ben noto al lettore, trasgredisce incurante delle armi spianate, si carica in spalla i morti e li depone in chiesa: “L’uomo sollevò tra le braccia il giovane ucciso che gli stava davanti e s’avviò verso la chiesa. Il prete sollevò un altro morto, un vecchio si fece largo piangendo: – Mio figlio è rimasto in Russia – e si chinò, ma non riuscì a sollevare il terzo cadavere. Due donne l’aiutarono. Li deposero tutti e sei nel presbiterio che già profumava delle pulizie di natale, con la faccia rivolta alla navata perché la gente li vedesse in volto. Il tappeto delle feste si macchiò di sangue. L’uomo baciò ad uno ad uno i volti di quei ragazzi, e muoveva le labbra come se parlasse. Il prete baciò ad uno ad uno i volti di quei ragazzi. Le donne si ricordarono della funzione del venerdì santo quando si bacia il Cristo morto. E cominciarono a sfilare inginocchiandosi davanti a ciascun giovane, chi baciando la fronte, chi il costato, chi i piedi, come al Cristo morto il venerdì santo. Il prete cercò con gli occhi l’uomo che li aveva baciati per primo, ma l’uomo era scomparso”.

Quanto più scarno è lo stile tanto più forte è l’impatto emozionale e le reiterazioni ben rimarcano come solo i gesti, e non le parole, possano rispondere all’orrore.
In questa parte, nella quale vengono anche minuziosamente descritte le dislocazioni, i collegamenti e le missioni dei tre grandi gruppi partigiani, sono contenute dunque le pagine più toccanti: Piero, Stalino, Rondine, Balilla, Dom Luca e tutti i partigiani che sulle montagne vivranno il silenzio della Parola, così come i monaci che nell’abbazia saranno pronti a sacrificare la propria vita per proteggerli, sono gli eroi silenziosi e inizialmente inconsapevoli di ciò che, per sé e per gli altri, essi stanno per compiere.
La pietas con la quale Luisito Bianchi dà loro vita, i gesti misurati, il pudore dei sentimenti, la fede incrollabile e la scelta ineluttabile delle loro azioni, tutto contribuisce a esaltarne il sacrificio.

A rendere queste pagine straordinarie è soprattutto la mancanza di ‘mitologia partigiana’. Il valore della comunità, il sentimento condiviso, l’aggregazione appaiono ancora più preziosi in quanto indotti non da figure trainanti di capi coraggiosi ma da una spinta intima e naturale dei singoli personaggi sotto l’egida di valori condivisi, di libertà e di democrazia ma, per molti di loro, soprattutto di uguaglianza e di benessere sociale. La lotta sulle montagne ha come scopo la fine di un’era di violenza ma anche di profonda ingiustizia sociale e in nome di questo scopo, nel nome di una società nuova, i partigiani offrono il proprio sacrificio anche se non a tutti è chiaro il fine ultimo del loro agire e a prescindere dalla lettura che di questo farà la Storia.

Il libro si conclude con lo svelamento della Parola, la parte riservata a chi è sopravvissuto e alle nuove generazioni. Tornando voce narrante, Franco tira le fila della sua lunghissima ricostruzione, indispensabile per comprendere ciò che gli appare come un martirio e superare la crisi profonda provocata in lui dal non sentirsi parte attiva della Resistenza – nella quale include anche l’esperienza analoga del suo maestro. E il suo racconto diviene memoria viva, necessaria a entrambi, per portare il peso del ruolo di sopravvissuti che li accomuna, e per dare spazio, nelle ultime pagine, alla speranza che ciò per cui i morti hanno lottato sia ancora possibile.

‘L’homme armé’, è una melodia, un cantus firmus sul quale molti musicisti rinascimentali composero messe polifoniche, e il cui testo parla dell’uomo che “sarà temuto, perché armerà se stesso con un’armatura di ferro”. Ma quello della messa di Luisito Bianchi è un uomo disarmato. E se possiamo ravvisarlo, in modo diretto e immediato, nel monaco Dom Luca – che per scelta e autorizzato dal proprio abate, segue i partigiani sulle montagne rifiutandosi tuttavia di imbracciare le armi e limitandosi a portare con sé il moschetto di un amico caduto, rigorosamente scarico e per giunta appeso alla spalla sbagliata – al termine della narrazione sono altri gli uomini che ci appaiono davvero disarmati: sono i sopravvissuti, quelli che come Franco o Dom Placido, il suo maestro, hanno assistito al silenzio della Parola sentendo vacillare il senso stesso della vita; coloro ai quali il martirio della Resistenza ha rischiato di apparire vuoto e inutile perché i valori per i quali esso è accaduto sono stati disattesi e traditi da chi è venuto dopo.

Nel superamento di questa crisi, nella capacità di perdonarsi per non essere stati parte attiva, e di comprendere che la partecipazione è anche perpetuare ciò che i morti hanno avviato, sta la forza immensa del messaggio che Luisito Bianchi affida al suo alter ego Franco: resistere. Opporsi con il proprio agire alla sopraffazione di un potere che dimentica l’uomo, a un finto vivere fatto di compromessi e di passiva accettazione, all’oblio dei valori di libertà e di uguaglianza in nome dei quali gli uomini della Resistenza hanno dato la loro vita. È questo il credo connaturato a molti personaggi del libro. Per alcuni mediato dall’ascolto della Parola, per altri semplicemente da una scelta etica e politica.
In ogni caso, mai come in questo nostro tempo senza memoria o, peggio, con una memoria deformata, le voci dei morti della Resistenza che si levano dalle pagine di Don Bianchi ci sono sembrate così limpide e vere. [torna alla pagina iniziale]

Note a margine de  I miei amici di Luisito Bianchi
RECENSIONE di Luigi Preziosi
 

L’ultimo libro di Luisito Bianchi (*) “I miei amici”, uscito nella primavera del 2008 da Sironi editore, raccoglie i suoi diari del periodo 1968 – 1970, che custodiscono la memoria di un’avventura esistenziale particolarissima: l’esperienza di prete e di operaio vissuta in quel periodo presso la Montecatini di Spinetta Marengo, importante stabilimento industriale del polo chimico.
Di essa aveva già dato conto con “Come un atomo sulla bilancia”, uscito una prima volta presso la Morcelliana nel 1972 e ripubblicato nel 2005 da Sironi. “I miei amici” è in realtà il diario che Bianchi tenne quasi giornalmente nel triennio di vita in fabbrica; esso costituisce in qualche modo il materiale grezzo con cui è costruito il successivo “Come un atomo sulla bilancia”. Quest’ultimo rivela un più scoperto intento narrativo: è il racconto di un periodo della sua vita, da intendersi non in senso di puro memoriale, ma ascrivibile piuttosto alla categoria della narrazione tout court. “Come un atomo sulla bilancia” è scritto, infatti "nell'ottica del racconto", come afferma l'autore nelle prime pagine, in quanto vi "è narrato quello che è capitato ad un prete, coi suoi limiti e la sua sensibilità, cui il pensiero di fare della sociologia, della teologia o della pastorale era tanto lontano quanto quello di essere lui stesso un sociologo o un teologo o un operatore pastorale”.
Assai diverso il carattere di “I miei amici”, in cui manca il diaframma del racconto, sia pur autobiografico, a vantaggio di una ancora più forte presa in termini di immediatezza degli assunti e di evoluzione, spesso suggerita da accadimenti quotidiani, del magmatico insieme di riflessioni che dell’amplissimo testo (oltre 900 pagine) costituiscono l’essenza. Non ci si attenda, infatti, un racconto o uno sviluppo narrativo che ad esso assomigli, da “I miei amici”, ma piuttosto un ordito fittissimo di meditazioni incessanti. Davvero nel libro l’anima di don Luisito si offre nella sua sincerità più nuda, ed una tale esposizione lascia risaltare in ogni più intima nervatura una carità che non ha misura nell’abbracciare quanta più umanità possibile.
La scelta della fabbrica deriva dal desiderio di superare l'incongruenza di una predicazione sul valore spirituale del lavoro che Bianchi percepisce come avulsa dalla sua pratica concreta. Fin dal primo giorno (il 5 febbraio 1968, santa Agata) di lavoro come operaio turnista, Bianchi si sente sollecitato a render conto della sua esperienza, individuandone alcuni caratteri peculiari.
“Mi dica il perché vuole entrare in questa fabbrica? Rispondo con semplicità: è un atto di onestà di fronte a me stesso e agli altri, dopo tanto anni in cui ho parlato di lavoro e di spiritualità nel mondo del lavoro. Che lavoro intende fare? Nello spirito in cui ho fatto la scelta è normale che sia quello più umile: da manovale. Dimentichi quello che ha letto sul mondo del lavoro. Almeno in un’azienda chimica la manovalanza non esiste. Allora operaio, di terza categoria… Giornata o turni? Rispondo che voglio entrare nello spirito del tipo di lavoro, per cui mi sembra che i turni mi favoriscano.”(30 gennaio 1968, ore 22.30).
In questo dialogo con il direttore della fabbrica, riprodotto in apertura di diario, sono sunteggiati sia le premesse dell’esperienza che Bianchi intende compiere sia alcuni dei significati che ad essa l’autore riconosce. Laureatosi con Francesco Alberoni in Scienze Politiche, ricopre incarichi di rilievo presso l’Ufficio centrale assistenti delle Acli di Roma, trovandosi, per usare parole sue, a “ parlare di lavoro senza sapere che cosa fosse”. L’urgenza di conoscenza si coniuga allora con la ricerca di una rigorosa coerenza con se stesso e con il proprio mandato sacerdotale. Il lavoro in fabbrica diventa per lui non solo sperimentazione concreta di ciò che era stata applicazione o enunciazione di conoscenze teoriche di pastorale del lavoro, ma anche e soprattutto, dopo una progressiva acquisizione di consapevolezza, un mezzo di sostentamento per poter esercitare il proprio ministero nel modo più credibile possibile, e cioè, come vedremo, nella più assoluta gratuità.
Con l'ingresso in fabbrica, inizia per Bianchi un'esistenza scandita dal turno, che impregna di sé l'intera dimensione esistenziale di chi ci vive dentro, coinvolgendone i rapporti sociali, le abitudini, le possibilità di sollievo fisico o spirituale dalla fatica del lavoro. L'assiduo colloquio con gli uomini che compongono la squadra di turnisti a cui è stato assegnato, gli consente di ridurre distanze, superare diffidenze, varcare soglie di solito chiuse per riserbo o rassegnazione. In molti dei suoi compagni gli è dato di cogliere un'accettazione forte del proprio destino, una sorta di noncuranza un po' orgogliosa e un po' inconsapevole di ciò che sono, un radicamento cocciuto intorno a pensieri e comportamenti percepiti come rassicuranti. In alcuni, non è difficile indovinare una parentela più o meno stretta con personaggi che popolano “La Messa dell'uomo disarmato” (**): lo stesso atteggiarsi fermo sulle cose da fare, la stessa incapacità ad esprimere se stessi se non attraverso gesti esemplari, la stessa semplicità nel riconoscere i segni di un'appartenenza ad un destino non solo singolo, ma spartito con altri. Di tutto questo si compiace lo sguardo di Bianchi, appassionato dell’umiltà dei semplici, rappresentati negli atti che più caratterizzano la loro accoglienza dei casi che riserva loro la vita, perfino quando ne sono paradossalmente inconsapevoli, e qualunque ne siano le condizioni: attitudine questa, sia detto per inciso, in cui possono riconoscersi ascendenze manzoniane, del resto esplicite nella “Messa”, e richiamate anche in “I miei amici”:
“Ho riletto i Promessi Sposi, un libro che è possibile leggere anche in punto di morte, credo, per il suo vastissimo respiro e la serenità che cola da ogni parola” (30 agosto 1970).
 
Ed è proprio di serenità che gli anni di fabbrica di don Luisito saranno carenti. Il suo diario ci testimonia, nelle annotazioni quasi giornaliere, un tumulto di emozioni e di impressioni che a volte solo una prospettiva di trascendenza riesce a contenere. In certi casi, la testimonianza assume le sembianze di poesie, che costituiscono quasi un libro nel libro, un corpus organico che ben merita l’approfondimento che può consentire uno studio ad esse esclusivamente dedicato. Qualunque sia la forma espressiva prescelta, comunque, è a se stesso, prima che a chiunque altro, che l’autore non concede indulgenze, nell’ansia di riflettere sulla propria esperienza, che considera prova esistenziale ed occasione di accrescimento di conoscenza, ma anche motivo di profondo ripensamento del proprio ministero sacerdotale: man mano che si sperimenta nella prova totalizzante della fabbrica, si accresce, infatti, in lui la constatazione della sterilità di qualunque azione di evangelizzazione.
Il libro nella sua complessità ha molti punti di accesso ed ancora più numerosi itinerari interni: qui, con ampia scelta di prelievi, doverosa perché la voce dell’autore possa risuonare senza distorsioni, se ne esamineranno alcuni che congiungono, all’interno di un’esperienza di fede bruciante, passione e profezia.

Passione
        
Il diario di Bianchi è la storia di una passione: non di quella particolare passione rivolta a qualche oggetto determinato, ma di una passione generale che avvolge intera quella parte dell’universo con cui riesce ad entrare in comunicazione. E’ una specificità del suo temperamento che precede, ricomprendendolo in sé, il suo stesso essere sacerdote, pur spiegandone molte scelte, perché è la radice stessa del suo intendere l’esistenza. Mai ostentata in gesti esteriori, di cui non c’è sostanzialmente memoria nel suo diario, anzi molto spesso impaniata da una sorta di inespresso pudore, forse non tanto di mostrare sé stesso, quanto piuttosto di amareggiare con un confronto scoraggiante chi vive lasciandosi vivere, la passione in “I miei amici” si dispiega nell’intera sua gamma di significati: sofferenza spirituale, certo, ma anche susseguirsi di emozioni, trasporto totale per posizioni ideali inderogabili, entusiasmi, sollecitudine disinteressata ed inesausta verso chi gli sta vicino.
E’ la passione per la vita, dono di Dio e per ciò stesso quindi tanto più meritevole di essere fervidamente provata anche nei giorni più grigi o nei periodi di maggior dolore interiore, che lo rende uomo tra gli uomini: innanzi tutto quindi la passione nei rapporti con gli altri uomini, ed in particolare con i compagni di lavoro.
Bianchi ama i suoi amici di un amore che in breve lasso di tempo dal giorno del suo ingresso in fabbrica colma le distanze, assorbe i fraintendimenti, lenisce le diffidenze. Non c’è, però contropartita possibile a ciò che offre ai suoi compagni di lavoro: la sua particolare condizione sacerdotale, e più in generale le differenze culturali evidenti rendono difficile la comprensione reciproca. Non solo l’apostolato, non solo l’evangelizzazione (aspetto che sta così a cuore ai vescovi con cui di tanto in tanto interloquisce) gli si manifesteranno come impossibili in fabbrica, ma anche la sua semplice testimonianza di uomo cristiano, prima ancora che di ministro di Dio, è incompresa, mistificata, a volte svilita. Eppure la reciprocità di un rapporto di intensa cordialità esiste, suscitato dalla stima che don Luisito sa conquistarsi, e si sviluppa su un piano prettamente umano di condivisione di una sorte comune. Bianchi e i suoi compagni sono amici di un’amicizia fortemente umana, che nasce esclusivamente dalla condivisione di una condizione comune:
Dico a Spalla: ma non ci sono solo i preti; c’è il Figlio di Dio fatto Uomo. Non so aggiungere altro. Trasudo sofferenza. Non c’è niente; mi risponde. Nessuno ha visto niente. E per te che sei intelligente, dire questo è ancora più grave. Tu pensi e ti costruisci una realtà che non esiste. Fede dono gratuito. Qui bisogna abbandonarsi alla follia della Croce. Ma quello detto prima non c’entra con la fede, né tanto meno, con la follia della Croce. La notte mi è compagna. Ci è compagna. (14 agosto 1968)
 
L’amicizia con gli operai è tutt’altro che esente da amarezze, quando incontra resistenze perfino il dialogo meno compromettente sul piano della domanda religiosa. Ma la notte accompagna tutti, chi crede e chi no, e consola sapere che certi momenti di rara intensità emotiva, sia pure con intermittenze a volte dolorosamente flebili, accomunano tutti.
Spalla mi dice stanotte: non ti potrò mai dimenticare. Anche quando non sarai più ad Alessandria mi informerò di te, di quel che farai. Mi ricorda alcune mie frasi dette ancora in uno dei nostri primi incontri, quando voleva che gli andassi a benedire la sua nuova casa: dove c’è un cristiano c’è già la benedizione di Dio. Dove c’è un uomo…. Anch’io come potrò dimenticare Spalla? E’ stato colui che mi ha fatto parlare con molti, che mi ha detto le cose che altri, pur pensandole, non mi avrebbero mai detto, che ha interpretato, nel suo modo esuberante, le diverse componenti delle reazioni nei miei confronti…(14 agosto 1968)
Ed ancora:
Quando entro nel reparto, ieri, gli amici mi salutano, scherzano con me; sembra che sia loro rincresciuto che non fossi nel mio turno di sempre. Il lavoro di squadra diventa anche una certa comunità di vita; ci si conosce ci si vuole veramente bene (3 gennaio 1969).
Durante una cena con gli amici gli si manifesta una penosa sensazione di spaesamento in un mondo che non è del tutto il suo:
Mi sento solidale con loro, e nello stesso tempo, straniero. Guardo i due capitavola e sono portato a Cana. Che cosa c’entra Cristo? Come vi entra? Vi entra? Che c’entro io? Non sono un clandestino, un intruso in una casa che non è e non può essere mia? Potrebbe diventare mia? Ma a quali condizioni? (3 febbraio 1969)
 
E già alcuni mesi prima si domandava:
Insomma, che senso ha  la mia vita? Mi sembra di essere uno sradicato: operaio non lo posso essere, a meno di operare una svolta completa nella mia vita….Chierico non lo sono più, non lo posso essere: la mia scelta ha segnato la rottura. Per questo non trovo la mia collocazione sociologica…(14 giugno 1968).
 
La condizione sacerdotale non annacqua la passione, né può diminuire il desiderio di condivisione con i propri simili di ciò che il percorso dell’esistenza riserva a ciascuno. E l’essere prete non dispensa dall’angoscia, né la anestetizza, al contrario di quanto a volte incautamente si sente dire, anzi aggiunge motivi all’intensità con cui vive le sofferenze che colpiscono atrocemente anche le persone più care. La virulenza del dolore per il progressivo degenerare delle condizioni di salute del padre causa penosi moti di ribellione tanto da obnubilare a tratti la saggezza, a volte amarissima, ma quanto frequentemente salutare, dell’abbandono ad una volontà più alta.
Mi domando se è giusto che io continui in Alessandria quando ci sarebbe bisogno di me a casa mia.  E’ a livello di tentazione o di giustizia questa domanda? D’altra parte la fedeltà allo Spirito impone delle scelte che sembrano irrazionali. Ma è fedeltà? Oppure questa situazione che si è venuta creando e sembra senza sbocchi non è anch’essa una indicazione dello Spirito? Non so nulla. (3 dicembre 1968).
E, non sapendosi rassegnare:
C’è da gridare la propria ribellione per questo tramonto che non mi sarei mai lontanamente aspettato così triste e senza uscite. Perché io me ne sto lontano da casa, in una fabbrica, in un appartamento in cui le carte e la polvere si accumulano in competizione? (6 gennaio 1969).
Quanto è duro accettare che all’esigenza della sequela liberamente e amorevolmente accettata consegua una prassi che sfiora l’inumano:
L’istituzione clericale se ne infischia della sorte dei genitori di coloro che si dedicano al servizio ministeriale. E’ una conseguenza della sua impostazione feudale e puramente giuridica. Il contratto si fa con il prete, con la monaca; non con i loro genitori. Ti assicurano il mantenimento in cambio di una fedeltà cieca alla struttura: il beneficio fa aggio sull’Evangelo. Ma l’aspetto profondamente umano della tua vita non interessa ( 3 dicembre 1968).
Il dolore trova quiete nella veglia agli ultimi momenti del padre, fino alla toccante altissima accettazione della morte.
Vivo ore lunghissime. E’ nevicato forte. Mi sembra che il tempo non abbia senso. Tutto è statico. Intravedo solo sussulti di lotta. Mio padre con la morte, quietamente, senza scosse; io con un mistero di fede che debbo accettare e nel quale mi si manifestano tutta la mia impotenza e la mia infermità. Odo lontano il cicaleccio delle ricoverate: donne che hanno amato, che hanno vissuto e ora sono ridotte massi di carne sformata e fatiscente. Odo anche alcune grida di ricoverati: uomini che hanno amato, hanno vissuto, hanno lavorato hanno costruito e ora si aggrappano alla vita senza sapere perché vivono e perché sono vissuti…. Eppure Cristo è qui. Cristo uomo. Vero uomo. Uomo in queste donne e in questi uomini. Uomo in me e in mio padre. Chi annuncerà questa buona novella che potrebbe far sobbalzare di gioia l’enorme ventre del mondo, sempre partoriente la vita? ... Accetto la condizione umana che mi affratella a tutti gli uomini, nella nudità della fede e nell’ancor più nuda speranza.” (15 febbraio 969 – 16 febbraio 1969)
Altrove, un senso di vertigine cosmica subito si tramuta in impaziente attesa per la manifestazione di Dio, in cui l’umanità stessa ed il mondo creato si compiranno nella loro pienezza:
La vertigine di Dio, per me omino tra gli omini, che avrebbe tanta voglia di andare per i campi a respirare con la terra che respira ( e non solo, perché anche Adamo si annoiava da solo della primavera), che avrebbe tanta voglia di credere a questa nuova aria che avvolge la pallottolina dopo il freddo inverno e di lasciare cadere tutto il resto che mi preoccupa fin nel midollo, visto che potrebbe essere Vangelo anche andar per i campi e ridere alle prime erbe e non volere che mai venisse notte…La vertigine di Dio che fa scoppiare ogni schema, ogni riflessione teologica, ogni concordato, che butta all’aria curie e chiese e scende con gli omini, a respirare insieme quest’aria di vittoria primaverile, a correre per i campi sulla terra molle, a cogliere le prime margherite selvatiche, le prime viole ad avvolgersi di questa brezza serotina…. La vertigine di Dio cui deve importare di più un atto di amore che le infinite dispute sulla sua essenza se é vero che è Amore e che suo Figlio è venuto a manifestare l’Amore e che lo Spirito presiede all’Amore degli uomini. La vertigine di Dio che mi ha preso per un attimo di tempo ma che basta per una vita e che mi fa gridare: mostra il tuo volto, o Dio. (27 marzo 1969)
La verità di uno scrittore si coglie anche negli scritti programmaticamente non letterari: nelle pagine sopra richiamate niente di più o di meno viene detto di ciò che si doveva per raggiungere il massimo grado dell’espressività. Così Bianchi scrive pagine di intensità rara e al tempo stesso di intrinseco pregio letterario, proprio per quell’appropriatezza di cui s’è detto, seguendo una propria vocazione per così naturale, che si manifesta spontaneamente, anche in appunti presi a volte, come è il caso di alcune pagine di questo diario, nella cabina di una fabbrica.
Ma il cuore tematico dei diari di Bianchi sta nell’esame della propria natura (più ancora che funzione: distinzione che certo sta nelle corde di don Luisito) di sacerdote, e dei rapporti della Chiesa con la società contemporanea. Di quest’ultima la fabbrica assurge a simbolo, contenitore di valori evidenti sotto il profilo della crescita umana e di disvalori altrettanto evidenti sotto il profilo dell’ingiustizia sociale. Mai però a mito, rischio corso da altre esperienze di preti – operai, soprattutto in quello stesso periodo storico in cui occorreva fare i conti con la particolare pervasività della cultura marxista: non a caso Bianchi percepisce come distinte le due “nature” di prete e di operaio in cui avverte di scindersi progressivamente, sottolineandone l’irriducibilità ad unum. Via via, infatti, che si immedesima con la realtà della fabbrica, avverte che all'equivocità della propria posizione consegue la difficoltà insormontabile di conciliare in sé le due identità. La Chiesa che si manifesta al mondo, o meglio, ciò che di essa il mondo vede e soprattutto gli operai vedono, è, infatti, quella che Bianchi chiama la Chiesa clericale, la Chiesa istituzione, la Chiesa dei palazzi e delle cattedrali, e non la Chiesa - popolo di Dio.
La Chiesa è in questa fase ancora. E’ un castello nel quale governa, prepara danze e carole in attesa dello Sposo, si autoincensa come sposa senza rughe e senza macchia….Cristo non può esser conosciuto se viene presentato dagli spettacoli di son et lumiére che si danno al castello. E senza Cristo che senso ha la Chiesa? Come conciliare la fedeltà a cristo con la fedeltà a questa Chiesa nella quale credo, che amo al punto da mettere a rischio la mia sicurezza, che voglio non ponga ostacoli alla manifestazione di Cristo? E’la mia sofferenza più grande… (28 febbraio 1968).
Il diario è costellato di riflessioni su questa materia. Qualche giorno dopo, Bianchi esplicita nel “contatto con le cose” la fonte della sua tormentata meditazione sul contrasto tra parola di Cristo e Chiesa istituzione:
La domanda che nasce dalle cose, dalle situazioni dai rapporti con gli altri, è brutale: fino a che punto siamo (dico siamo perché mi sento e voglio essere Chiesa del 1968) sulla linea tracciata da Cristo? Ciò vuol dire: fino a che punto abbiamo completamente ribaltato la sua volontà ? (26 marzo 1968).
 
E’ il confronto tra l’essenza del messaggio evangelico e la consistenza della Chiesa istituzione a far gridare allo scandalo:
Se tutto si riduce all’Amore la Chiesa mi è testimonianza d’amore, segno di questo Amore? Sembra di no, o perlomeno, è un segno ben sbiadito, quasi indecifrabile. Parlo della Chiesa come mi si manifesta, della Chiesa sociologica….I custodi della fede hanno fede? Coloro che dovrebbero essere segni di amore sanno che cosa è l’amore, sanno amare? Lo scandalo di questa Chiesa che si dice segno, che si autoproclama segno d’amore, è enorme in se stesso (17 giugno 1968).
 
Ed ancora:
Finchè il Papa vivrà nei palazzi che grondano ingiustizie secolari, finché il Vaticano, con la sua potenza economica, sarà difeso come la Santa Sede; finché i vescovi continueranno a vivere nei loro palazzi e a manovrare le leve del potere di qualsiasi tipo, con quale coraggio e consequenzialità si potrà insistere sulla fedeltà alla parola di Dio, all’Evangelo e al deposito della fede?(12 gennaio 1969).
La vita di fabbrica rafforza la sensazione della distanza tra la Chiesa ufficiale e la sua propria missione, quella di far conoscere il Cristo. La stessa esistenza della Chiesa istituzione pare frapporre un ostacolo formidabile alla conoscenza autentica dell’Evangelo proprio da parte di quegli ultimi, come gli operai amici di don Luisito, per i quali il Verbo si è fatto carne.
…Se [ i miei compagni di turno] conoscessero il Cristo che scaturisce dall’Evangelo e dalla comunità di carità, che scelta farebbero? Uomini duri, senza alcuna speranza di avere qualche cosa di più dalla vita…non accoglierebbero Cristo come uno di loro? Non c’è nessuna ragione che l’abbiano a rifiutare eccetto quella insita in ciascun uomo e che nasce dal mistero dell’iniquità….E vedevo il Cristo annunciante la salvezza e la beatitudine ai poveri, ai misericordiosi, ai pacifici, ai sofferenti… E chi più di loro ha diritto a questo annuncio? M come è possibile che Cristo sia conosciuto se viene attraverso questa Chiesa che non dà nessun segno credibile di prenderlo sul serio? (3 dicembre 1968).
 
Il continuo aggirarsi della coscienza tra questi pensieri provoca momenti di scoramento, in cui la tensione verso il superamento delle difficoltà si sfarina e l’uomo si scopre avvolto da una gelida solitudine.
Tutto mi sembra assurdo, quello che si dice e quello che si scrive…ogni progetto che si può fare per continuare a vivere, per dare una ragione alla propria vita che esca dai confini dell’assurdo….Forse è il silenzio di Dio. Sì, è questo, il silenzio di Dio.  E’ a Lui che mi sono dato nella mia ricerca, è Lui che voglio con tutte le forze, e Lui tace al punto di apparire una costruzione di me stesso, una proiezione dei miei desideri inappagati.
Parrebbe quasi un indulgere a tentazioni ateistiche. Ma il senso del silenzio di Dio è diverso:
…Il silenzio di Dio dovrebbe per me essere fonte di gioia, perché dovrebbe darmi la garanzia che non mi sono costruito un idolo per la consumistica sicurezza. (15 novembre 1969)
    
Dubbi, ancora dubbi: la passione non è più da gran tempo entusiasmo, e mostra il volto del tormento interiore, che nasce dalla sensazione che ogni buona intenzione si anneghi in un mare di stanchezza anche fisica, almeno quanto spirituale, e si consumi nell’indisponibilità di quel tempo vitale che le giornate scandite dai turni erodono senza parere:
Vorrei credere di avere una funzione che sia quella di profetizzare, prima di evangelizzare, con la mia scelta di vita. Ma come può essere profezia una vita che passo in fabbrica…e tutto il resto della mia giornata nella più completa ed assoluta solitudine? Fosse almeno una solitudine operosa!...Vorrei dileguarmi scomparire. Forse sto provando il taedium vitae e, nello stesso tempo, un desiderio disperato di vita. (24 luglio 1969)
Anche il continuo doversi guardare dai più facili fraintendimenti circa le autentiche intenzioni che lo animano aggiunge stanchezza ad uno spirito già affaticato dal proprio rovello interiore.
Uno mi dice comunista, l’altro maoista, Landini vuole citarmi in tribunale per diffamazione: fallimento su tutta la linea. Esattamente il contrario di quanto mi ero proposto e mi propongo tuttora. Che cosa doveva, che cosa deve fare un prete in fabbrica? Penso di essere stato onesto; di avere parlato quando me lo richiedevano e di avere sempre espresso con chiarezza il mio pensiero sulla dignità dell’uomo, mettendo in risalto tutto quanto la cattura o la diminuisce. Credo che questo sia “essere al di sopra delle parti”, cioè prendere la parte dell’uomo che nessuna parte si prende realmente a cuore, presa com’è da preoccupazioni produttive ed economiche. Ma che mestiere difficile volere comportarsi da uomo! E com’è difficile vivere! (20.07.1970)
A volte partecipa ad incontri pubblici con altri religiosi, in cui racconta la propria esperienza, scoprendo ben presto a quali travisamenti può essere esposta:
Possibile che Cristo sia considerato come un prodotto da smerciare in un settore di mercato che, fin ad ora, è rimasto sordo ai venditori del prodotto? E che un prete in fabbrica sia visto come un promotore che si ostina, presso la direzione della ditta a perseguire la sua azione propagandistica senza ricever adesioni? (13 marzo 1969)
Ancora passione. Nella “Dedica come introduzione” dei suoi diari, don Luisito offre appunto il libro “a tutte le donne, morte e vive, che ho incontrato sulla mia strada”, precisando che ”nella mia storia di uomo e di prete, la Donna ebbe un posto determinante, come d’altra parte è nella vita del mondo: quello di essere immagine della Gratuità”. La devastazione spirituale del crollo delle illusioni ben si misura allora proprio nella scelta di rappresentarlo sotto le specie dell’amore tradito nelle sue forme più esclusive e coinvolgenti, quello che investe la donna, in tutte le sembianze archetipiche per un uomo: madre, moglie e figlia.
La Chiesa mi è madre, sposa, figlia, è me stesso; tutto questo, forse, con una forte dose di passionalità, dando alla Chiesa un’importanza fondamentale nella manifestazione del Cristo vivo. Ora, che cosa può capitare ad un uomo quando scopre che sua madre è infedele, la sua sposa adultera, se stesso istigatore di sua figlia alla prostituzione? Io penso di provare, nei confronti della Chiesa e di me stesso, quindi come direttamente responsabile, quegli stessi sentimenti.(22 giugno 1968).
Una meditazione tormentata e solitaria, sia pure a tratti illuminata da sorridente ironia, convince l'autore circa l’impossibilità di una condivisione autentica (quale solo può essere) della vita operaia da parte di un sacerdote, a causa della sua stessa improponibilità come rappresentante della Chiesa istituzione. Il disagio provato è opprimente, il deserto spirituale vicinissimo, eppure non ricorre mai, nelle pagine di Bianchi, la tentazione del ripudio della propria missione e del proprio ruolo. Matura invece gradualmente la convinzione che la credibilità dell'annuncio non può derivare da una scelta individuale, come la sua, che può sì generare curiosità, rispetto umano o stima, ma da cui non necessariamente la fede si comunica. Perché l'annuncio sia sentito come autentico, occorre che il volto della Chiesa sia, come sintetizza in “Come un atomo sulla bilancia”, "quello di una comunità che non ha nessun potere, di nessuna sorta, che non possiede né oro né argento ma che dà gratuitamente quello che gratuitamente ha ricevuto: la fede, la speranza e la carità... il volto di una chiesa clericale che non sarà più clericale se i preti non faranno più casta, rifiutando, come carbone fumigante che scotta, ogni denaro che venga dal fatto di essere preti”.
La passione di don Luisito ha, quindi, anche il profumo della fedeltà. Non ne derivano tentazioni di rivolta e nemmeno di abbandono di una condizione che umanamente pare ogni giorno meno tollerabile, per la contraddizione irreparabile che la costituisce. Però la fedeltà alla Chiesa istituzione gli è dolorosa, e l’esperienza di fabbrica ha l’effetto per lui di un getto di sale sulle ferite. Più condivide la condizione operaia, più gli sembra evidente la siderale distanza della Chiesa istituzione non tanto e non solo dal mondo operaio, apparsogli da subito come irraggiungibile, ma anche da una contemporaneità di cui questo mondo gli si evidenzia come un cospicuo avamposto. La Chiesa, nella sua incomprensibilità, renderebbe impossibile la divulgazione della Parola, venendo meno al cuore stesso della sua missione. Eppure don Luisito scrive:
Amo la Chiesa come me stesso, come la ragione della mia vita, anche la Chiesa istituzione. Ma sto accorgendomi che questo amore potrebbe collezionare una serie di delusioni sino al limite della sopportazione. Dio mio, aiutami. Voglio credere, nonostante tutto. Voglio aderire al magistero. Ma non capisco più nulla. (1 agosto 1968).
E’ dunque questo l’atteggiamento di don Luisito verso la Chiesa istituzione. Fedele alla Chiesa popolo di Dio, e fedele ancor più nella sequela della Parola, lo è anche, nonostante tutto, a questa Chiesa, per quanto degradata a male necessario o male minore possa apparire o essere. Nella riflessione del 1° agosto 1968, all’inizio dunque della sua esperienza, è già prefigurato il percorso che Bianchi si attende di dover compiere: un doloroso elenco di delusioni che gli squaderna proprio il confronto con la fabbrica, con i problemi umani e sociali che racchiude e, soprattutto negli ultimi anni Sessanta, con il significato simbolico di cui è latrice.
Ma quanto è duro e difficile vedere un servo del popolo di Dio nel mio vescovo, racchiuso nel suo palazzo, che esce soltanto per le visite ufficiali …Mi dice anche quali sono i miei progetti.  Come dirgli che sono a disposizione dello Spirito? Che non ho progetti? ... Non sento nessun astio per il mio vescovo. Gli voglio bene, veramente. Lo compatisco nella sua sofferenza. Ma anche questo, come dirglielo? (12 febbraio 1969).
La compassione provata per il vescovo, altra forma – e quanto potente! - se si vuole, di passione, è espressione di quella “caritas” per cui è così sorprendentemente facile a don Luisito riconoscere il fratello in ogni uomo con cui entra in relazione. Sotto un diverso profilo, inoltre, la notazione dice in fondo quanta lucida consapevolezza abbia l’autore del fatto che non è la realizzazione di un sistema di potere, per quanto credito di buone intenzioni gli si voglia fare, a salvare l'uomo, ma la Parola di Cristo, che da esso prescinde. Altrove (Come un atomo sulla bilancia) scriverà: "eppure so che Dio non si divide a metà, un Dio morto e un Dio vivente, e accetto, nella mia religione morta, nella chiesa clericale, la presenza buia e silenziosa del Dio vivente, nella fede che è uguale alla speranza, perché so per dono che l'Evangelo è più forte di tutto, anche della mia chiesa clericale".

Profezia

          “Il loro dolore è un torrente di lava che strugge le montagne. La loro speranza erompe ora come boato da terra convulsa ed or mansueta sorride come l’arcobaleno che Iddio mandò a Noè dopo il diluvio…La loro umanità non si manifesta per valori trattabili, bensì nel diapason, nell’esasperazione, nell’eccesso, di ogni possibile sentimento umano”: se questa è la parola profetica, così come Giacomo De Benedetti la definisce nel suo “Profeti. Cinque conferenze del 1924”, pochi sono i dubbi che don Luisito nei suoi diari l’abbia pronunciata, e non una volta sola. La perfetta proporzione dell’amore offerto in nome di Cristo sta per lui nella dismisura, in quella forma che per gli usi del mondo appare certo esasperata, eccessiva, e dunque assai prossima della profezia, se non con essa consustanziata. Ciò spiega anche l’asimmetria del suo giudizio. Ad una severità che non ammette attenuanti nei confronti degli errori della Chiesa istituzione, si contrappone una singolare indulgenza verso i compagni di lavoro in fabbrica: eccesso di amore in entrambi i casi.
Della forza irruente della profezia “I miei amici” pare pervaso in molte sue pagine: Bianchi vede i mali del tempo che gli è dato di vivere, si ribella all’idea  di tacere, di ritrarsi indifferente nei confronti di un complesso di condizioni che avverte come negative, ma che certo un uomo solo non può pensare di trasformare. Ne deriva l’isolamento in cui resta confinato per tutti gli anni di fabbrica: isolamento interiore, ché sul piano puramente umano gli amici non gli mancano, e di tutti (Patria, Spalla, Figlini, Bergonzi, Marin e tanti altri) sbozza ritratti di vera cordialità, pur non tacendone limiti e mancanze. Ma l’isolamento più duro a sopportarsi, che scava dentro lo spirito dubbi ed incertezze, deriva dalla mancanza di confronto con chi sia in grado di comprendere le sue angosce di sacerdote che si sente tradito dalla propria Chiesa, eppure vuole ancora esserne parte, e non anela ad altro che a proclamare la Parola, ed invece non vede intorno a sé che indisponibilità ad accoglierla, ed incapacità ad enunciarla.
E’ forse proprio l’isolamento che consente il mantenimento di una tensione, a tratti dolorosa, a tratti invece inaspettatamente confortante, verso la speranza di un cambiamento che verrà. Si tratta di un cambiamento non necessariamente né prioritariamente “politico”: non interessa solo la Chiesa istituzione, o meglio, la interessa come una delle ragioni del cambiamento. Coinvolge innanzi tutto le coscienze e da esse parte, per colpire poi alla radice anche i comportamenti che inibiscono alla Chiesa di trasmettere l’evangelo nella pienezza della sua verità. Coinvolge, come si vedrà, innanzi tutto la coscienza individuale di don Luisito, che, se una volta uscito dalla Montecatini sarà ancora profeta, lo sarà con la coerenza di comportamenti che trovano fondamento nelle riflessioni degli anni di fabbrica.   
Già all’inizio della sua esperienza operaia, Bianchi individua alcuni assi portanti per un rinnovamento autentico:
Sento che bisogna andare nella direzione della coscienza e dell’Amore. Ogni regola deve essere subordinata a questi due cardini dell’uomo. Non è una novità. Tutta la storia del cristianesimo autentico è su questo binario anche se a volte, è sfociato sul rogo o sull’emarginazione dalla Chiesa ufficiale.  Occorrerebbe però che si tirino le conseguenze pratiche al punto da affermare che chi segue la coscienza... e cerca di amare, autenticamente, nella sua misura e nei suoi toni, non può sottrarsi ad essere Chiesa, il nuovo popolo caratterizzato dal suo Credo all’Amore che supera tutto, legge compresa…. Come non ci si può sottrarre alla Chiesa, così non si può sfuggire alla salvezza, sul binario annunciato. non è questa l’evangelizzazione che può essere accolta da ogni uomo?.... Ma tutto questo è possibile senza uscire dalla Chiesa ufficiale? Penso di sì. E’ anche questo un Credo all’Amore che supera tutto, anche l’ufficialità. ( 3 aprile 1968).
Nella definitività della critica non c’è dunque ribellione: chi cerca di amare è, nonostante tutto, ancora parte di questa povera Chiesa che fatica così tanto in quella fedeltà a Cristo, che se definitivamente praticata, convertirebbe alla Parola il mondo: nell’umiltà radicale sarebbe paradossalmente Chiesa trionfante.   
Ed allora, ben vengano asperità polemiche accompagnate da subitanee illuminazioni, quasi squarci scomposti nel velo pesante delle nostre coscienze, introdotte dalla stessa domanda che Pilato rivolse al rabbi a lui sconosciuto la cui Parola avrebbe cambiato la storia:
Ma che cos’è la Verità? Soltanto che il Papa ha l’autorità suprema, nella Chiesa, che esistono gli angeli, che Cristo è presente transustanziato nell’Eucaristia e tutto quanto è racchiuso nel simbolo apostolico o nel credo di Paolo VI? Ma l’evangelo non è solo questo: l’Evangelo è vita. Come è possibile disgiungere il “dogma”dalla vita? Come è accettabile la dottrina che non sia, nello stesso tempo, vita? Forse è qui la radice dell’incomunicabilità fra autorità che preoccupata di salvare la dottrina e chi pensa alla dottrina in termini di vita…. (8 gennaio 1969).
Se è proprio l’essere autorità, l’essere istituzione della Chiesa che opacizza il tentativo di diffondere la Parola, fino a renderlo vano, come testimoniano gli anni di fabbrica, se, in una parola, l’evangelizzazione è difficile se non impossibile in certi ambienti, che sono peraltro tutt’altro che marginali, né tanto meno emarginabili, allora non resta ciò che precede l’evangelizzazione, ne è presupposto e idea primigenia, la profezia.
Dalle mie riflessioni in questo anno e mezzo di fabbrica debbo tirare la conclusione che, oggi, in questo tipo di Chiesa l’evangelizzazione dei Poveri è impossibile, almeno se si vuol essere questa Chiesa. C’è però, una fase precedente all’evangelizzazione ed è quella della profezia… La mia scelta dovrebbe significare che la Chiesa non deve essere clericale; un segno nei confronti della Chiesa e del mondo. Ma la prima può recepire il segno finchè rimane arroccata sulle sue posizioni di potenza? E il mondo, i miei amici, possono accogliere il segno se a loro non importa nulla della Chiesa e di come deve essere? (27 luglio 1969 – 29 luglio 1969).
 
Appare palesemente inattuabile la prospettiva di una Chiesa estranea al sistema” (per riferirci al termine usato da Bianchi che ci riporta immediatamente al clima socio politico della fine degli anni ’60):
La chiesa ufficiale è completamente irretita nel sistema; metterlo in stato di accusa è accettare che si mettano… le sue strutture sotto i colpi di una critica impietosa perché queste sono fondamentale nell’attuale sistema (31 ottobre 1969).
Se la Chiesa ufficiale desse il suo apporto, “per il superamento del sistema che sfrutta l’uomo…rifiutando tutte le sue ricchezze che si sono accumulate attraverso il sistema”,
sarebbe il momento in cui la Chiesa – istituzione si identificherebbe con quella profetica e carismatica: l’unità sarebbe ricostituita nel nome della fedeltà all’Evangelo e nel riconoscimento dei propri peccati. Utopia anche questa? … Ma non c’è altra scelta se si vuole slegare dalle catene dorate l’Evangelo (31 ottobre 1969).
Il non-luogo della realizzazione dell’ideale astratto non appartiene al nostro tempo: per altri forse si concretizzerà nella storia, non per noi. Ma un singolo prete qualcosa potrà pur fare, per affermare quell’ideale, per anticipare per quanto nelle sue facoltà il suo inverarsi, per mostrare a chi può una minuscola tessera del futuro mosaico, indizio incontrovertibile di un mutamento possibile. Matura allora in lui l’idea della gratuità dell’annuncio come testimonianza, come dimostrazione che essere sacerdote, facendo a tutti gli effetti parte della Chiesa, è possibile anche rifiutando radicalmente ogni compromissione con il potere. La credibilità di chi reca il messaggio è un valore irrinunciabile, in un contesto sociale che già trent’anni fa lanciava segnali di scristianizzazione facilmente percepibili. L'annuncio, quindi, deve essere gratuito per porsi nella condizione minima di essere accettabile: nessun compenso materiale può essere accettato per ciò che si è ricevuto gratuitamente e che altrettanto gratuitamente deve essere restituito agli altri, realizzando, così nel cerchio della condivisione senza contraccambio, una condizione di autentica fraternità tra gli uomini. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente darete (Mt. 10,8). Ho ricevuto l’evangelo gratuitamente, e lo trasmetto gratuitamente. Una gratuità molto piccola, terra – terra; però analoga a quella di Paolo.”: così don Luisito in un’intervista rilasciata all’estensore di queste note qualche anno fa.
Ma la fabbrica m’ha fatto comprendere che il grave scandalo che la Chiesa ha dato e continuamente dà … è quello di aver legato l’annuncio al denaro. Nell’ultimo secolo, la critica più penetrante alla religione, nonostante tutti gli orpelli filosofici, ha il suo punto di partenza da questa constatazione. Il potere è in termini di denaro; il parassitismo clericale è in termini monetari … Per me questo è chiaro; non posso concorrere a mantenere lo scandalo… Pur non escludendo la vita “parrocchiale”, escludo, debbo escludere, qualsiasi fonte di sostentamento che venga dal mio sacerdozio: il ministero l’ho ricevuto gratis e gratis lo debbo distribuire. Escludo l’elemosina, per un atteggiamento di dignità finché ho le capacità fisiche e intellettuali di provvedere al mio sostentamento…. Allora dovrei lavorare per vivere. E’ anche questo chiaro. Un parroco che lavora per vivere d esercita la sua funzione, gratis, senza legarla a un centesimo. E’ possibile. Penso di sì. Se Dio lo vuole è possibile. (7 agosto 1970).
Il progetto di don Luisito si connoterà come profezia autentica nella lunga fatica di un’idea quotidianamente agita, nella fedeltà, confermata ogni giorno nei decenni che verranno, alla scelta della pratica della gratuità.
Il triennio di fabbrica pattuito con i suoi superiori si chiude a metà ottobre del 1970 con qualche mese di anticipo, tra consapevolezze amare:
La fabbrica è una scuola che insegna una lingua sconosciuta fuori, alla quale la Chiesa è assolutamente chiusa. Di qui le compensazioni con una attività sindacale o parasindacale ( a mio avviso molto ambigua, nonostante le teorizzazioni incarnazioniste!)….Conciliare fabbrica e ministero è quasi impossibile (7 agosto 1970).
e nuove prospettive, nel segno della gratuità dell’annuncio:
Lascio la fabbrica perché reputo che molti segni mi indicano che debbo compiere il passo, abbandonandomi, come posso, allo spirito. L’ottica di fede mi dice che debbo compiere un servizio, che debbo continuare sulla stessa linea. Come? Non so. O meglio, sento che il servizio, almeno per il momento deve essere quello della penna. Scrivere, senza timori, che cosa ho visto e provato, in un atteggiamento di servizio che non può essere che d’amore (4 ottobre 1970).
Una volta lasciata la fabbrica Don Luisito vivrà mantenendosi con i lavori più svariati, da inserviente in un ospedale, a traduttore a benzinaio, senza mai ricevere mercede per la proclamazione della Parola, gratuitamente ricevuta e gratuitamente offerta (“gratis accepistis, gratis date”).
Molto tempo dopo, nell’intervista a cui s’è accennato, affermerà di non aver constatato, negli anni, un significativo sviluppo da Chiesa clericale a Chiesa – popolo di Dio (“Oggi non vedo diversità, è sempre chiesa clericale, con tutte le conseguenze di potere e di ricerca del potere”). Il che non necessariamente segnala uno scacco, né dimostra che le sue parole non posseggano forza profetica: potrebbe invece più plausibilmente significare che don Luisito abbia saputo antivedere oltre la campata dei trent’anni che ci separano dall’epoca in cui il diario si formò. Il tempo dell’avveramento non è ancora giunto, ma i termini per la maturazione delle coscienze sono di norma assai lunghi, a volte ancor di più di quelli occorrenti per la trasformazione delle istituzioni: e ciò, lungi dallo scoraggiarci, valga invece per don Luisito, che con questo libro ci ha messi a parte della sua visione di rinnovamento nella fedeltà alla Parola (e, perché no?, per tutti noi), come augurio e come invito alla speranza.
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(*) Luisito Bianchi, nato a Vescovato (Cr) nel 1927, è sacerdote dal 1950. Attualmente è cappellano presso il monastero di Viboldone. E’ stato portantino in ospedale, operaio, insegnante e traduttore. Ha pubblicato, tra gli altri, Salariati (1968), Dialogo sulla gratuità (1982), Monologo partigiano sulla gratuità (2004), La Messa dell’uomo disarmato (2003), Come un atomo sulla bilancia (2005).

(**)  “La Messa dell’uomo disarmato” uscita nel 2003 presso Sironi, ma già circolante in una prima edizione semiprivata dal 1989, è un immenso affresco che ha per tema la  Resistenza. Romanzo storico, dunque, ma che dalla narrazione storica trae spunto per esplorare il significato etico e dunque universale, del concetto stesso di resistenza. Si tratta di un’opera estranea alla produzione letteraria attuale, che ad una sorprendente potenza espressiva unisce una straordinaria ricchezza tematica: uno dei pochi libri di questo primo decennio che va a terminare di cui è facile prevedere una duratura permanenza nelle future storie letterarie.
La critica del resto è stata pressoché unanime. Paolo Di Stefano, sul Corriere della sera del 17.10.2003 ne scrive in questi termini:  “In realtà è un capolavoro (sì un capolavoro) complesso e multiforme che affronta la Resistenza sia nella sua accezione storica sia in un senso civile e filosofico” E Fulvio Panzeri, su Avvenire del 25.10.2003 lo racconta come “un libro oggi attualissimo, unico anche nella sua costruzione così ampia, che riprende il tema della terra, lo scorrere delle stagioni che accolgono la dura lotta dell'uomo per difendere la sua dignità e il suo valore”. Su L’Unità del 29.11.2003, Roberto Carnero ne esalta l’eterogeneità rispetto all’attuale produzione letteraria: “Difficile riassumere, incasellare, interpretare secondo le consuete categorie letterarie e le tendenze oggi dominanti nella nostra produzione narrativa un testo così "eccentrico": La messa dell’uomo disarmato (uscito in edizione autoprodotta nel 1989, ora viene pubblicato dal geniale Giulio Mozzi nella collana "Indicativo presente" di Sironi Editore) è davvero un' "opera-mondo", sorprendente nella struttura - vasta, complessa, articolata - e nei contenuti”. [torna alla pagina iniziale]
parrocchia stagno lombardo 2020
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